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Sciascia, il pessimismo, la stupidità

Todomodo. Rivista di studi sciasciani10 Giugno 2020

Adesso che lo splendido lavoro filologico di Paolo Squillacioti sull’opera di Sciascia è concluso (anche se è realistico aspettarsi delle aggiunte, anche cospicue, dopo la conclusione), questo lavoro lo si può usare, sia per rilievi puntuali sia per osservazioni di carattere generale sull’opera, appunto, e sull’uomo. E lasciando da parte i tanti altri spunti che vengono da questo volume di Saggi letterari, storici e civili (e in particolare dagli articoli di A futura memoria, che nella prima edizione uscita poco dopo la morte dell’autore risultavano funestati da scorsi e refusi), mi soffermo su uno solo, interessante in sé ma che anche si presta a considerazioni di portata un po’ più ampia.

Alla fine del volume Il fuoco nel mare (Adelphi 2010), Squillacioti ha pubblicato il racconto 10 luglio 1943 (poi in OA, I, pp. 1405-1409). Nella nota al testo se ne parla come di un inedito, ma in realtà – lo comunica lo stesso Squillacioti in un contributo di poco successivo – il racconto era già stato pubblicato nel 1965 sull’«Europeo» col titolo Gary Cooper a Licata[1].

Come che sia, il racconto è chiaramente da leggere in parallelo al racconto-saggio E come il cielo avrebbe potuto non essere…, uscito su «La Stampa» un paio di mesi prima della morte di Sciascia (22 settembre 1989) e poi incluso nei Fatti diversi di storia letteraria e civile (1989). Il resoconto dello sbarco alleato in Sicilia nel luglio del 1943 è quasi identico, ma tra i due testi c’è una correzione del punto di vista che è anche una correzione di registro, di tono. Elegiaco, con punte di dramma, quello di E come il cielo avrebbe potuto essere… Che parte infatti da uno spunto elegiaco: il rinvenimento in una libreria antiquaria di un opuscolo sugli emigrati italiani che costruirono le ferrovie statunitensi: anno dell’opuscolo 1881, lo stesso dei Malavoglia. «Partivano in quell’anno dalla Sicilia – scrive Sciascia – non meno di trentamila persone: col dolore, lo strazio, il senso della maledizione che Verga rappresenta con alquanta superstizione, non credendo che la mano del destino si faccia più lieve su quei poveri straregnati». Decenni dopo, i nipoti di quegli straregnati sbarcano sulla costa sud-orientale dell’isola:

Nella notte dal 9 al 10 luglio, primi a sbarcare sulla costa siciliana tra Gela e Licata furono i soldati della divisione «Texas». Considerando la composizione della pattuglia che raggiunse il mio paese nel pomeriggio del 15, due soldati su cinque erano di origine siciliana e parlavano il dialetto. Un dialetto vecchio di almeno cinquant’anni, conservato come «in vitro» e abbondante di oscenità e bestemmie.

Comincia così la Liberazione. Ma è come se quel cupo sentimento iniziale – il dolore, lo strazio, il senso della maledizione – stingesse sulla cronaca che Sciascia ne fa, una cronaca spiccia, con lo spettacolo quasi goduto dei bombardamenti lontani («Ci dicevamo: bombardano Licata, bombardano Caltanissetta: non del tutto privi, i più, di quel sentimento su cui Longanesi diceva poggiasse l’unità d’Italia: “Roma no, è meglio bombardino Milano”»), e la testimonianza beffarda di un «povero venditore ambulante di pentole e grattugie» che nella notte è scappato da Licata e ora sulla piazza del paese racconta del mare coperto dalle navi alleate:

«Cornuto, e come voleva vincere?». Il cornuto era Mussolini: il segretario del Fascio, poiché gli americani in paese non erano ancora arrivati, lo guardava torvamente, ma non osava redarguirlo.

Quattro giorni dopo, la prima pattuglia della divisione «Texas» entra in paese. La resa è descritta in poche righe, e con una postilla amara:

Come allucinati la vedemmo scendere per il corso, avvicinarsi a noi – seduti al caffè – puntandoci i fucili. C’erano con noi due carabinieri, alzarono le mani. Un caporale sganciò loro le pistole. Ci fu allora un grido di gioia: «Viva la libertà». L’aveva lanciato un famoso ladro. A noi, che la libertà l’amavamo, veniva da piangere.

Questo è il primo finale del racconto. Il secondo chiama in causa il poeta dai cui versi il racconto trae il titolo, Vittorio Sereni: «E come il cielo avrebbe potuto non essere / una tesa freschissima bandiera / a stelle e strisce? / Fu così che ci presero». Conclude Sciascia, sempre su una nota d’elegia: «Già: oggi lo sappiamo bene. Con pochi rimpianti ma intristiti di ‘americanismo’: “Fu così che ci presero”».

Scritto dunque trentacinque anni prima, Gary Cooper in Sicilia è la versione solare di quel resoconto, una versione puramente narrativa, senza intromissioni saggistiche: e la solarità dipenderà un po’ anche da questo, dal privilegio che il narratore ha rispetto al saggista di potersi astenere dal riflettere sul senso della vicenda narrata, e dallo speculare sulle sue conseguenze future. Anche i dettagli drammatici, i feriti e le distruzioni provocate dagli invasori, finiscono per essere assorbiti nell’atmosfera di sollievo che avvolge la Sicilia liberata; il momento dell’ingresso degli alleati in paese – che in E come il cielo avrebbe potuto essere… si conclude nella costernazione – qui ispira una scena da film western:

Camminando sotto i balconi e coi fucili puntati alle imposte chiuse, c’erano altri soldati. Tutta la nostra attenzione era però incentrata su quello che camminava al centro: alto; il passo leggermente ‘fianchino’, da cow-boy; le braccia indolentemente scostate dal corpo, le mani quasi sospese […]. Gary Cooper quell’entrata non l’avrebbe fatta meglio. E per quei due o tre minuti che ci vollero perché la pattuglia arrivasse davanti al caffè, ci sentimmo come al cinema.

Mentre a gridare «Viva la libertà» – grido che nel racconto-saggio del 1989 mette voglia di piangere, perché lanciato da un «famoso ladro» – qui è la figura bonaria di Gasparino Firetto, innocuo rubagalline che così si sfoga vedendo i soldati americani disarmare i carabinieri, cioè coloro che avevano sempre minacciato, ma a buon diritto, la sua libertà. Insomma, anche la solennità del momento è voltata in farsa, col sigillo dell’altro grido che chiude perfettamente il racconto:

«Viva la repubblica stellata!» gridò l’avvocato Calafato, con una voce che non aveva perduto timbro e forza da quando, sei anni prima, alla stazione, era riuscito a salire sul predellino del treno per gridare «Duce, per te la vita!» sotto lo sguardo fiero e paterno di Mussolini.

In E come il cielo avrebbe potuto non essere…, invece, ironia e buon umore sono banditi: e anche il ricordo della liberazione dal nazifascismo sembra guastato dal pessimismo della senilità.

Come sa ogni lettore di Sciascia, infatti, questo pessimismo si approfondisce e aggrava col passare degli anni. Il narratore delle Parrocchie di Regalpetra non crede naturalmente alle magnifiche sorti del progresso, ma in una pagina famosa prospetta un futuro meno gramo per i figli e le figlie del popolo travolti dalla modernizzazione: «Questo c’è di nuovo: l’orgoglio; e l’orgoglio maschera la miseria, le ragazze figlie di braccianti e di salinari passeggiano la domenica vestite da non sfigurare accanto alle figlie dei galantuomini, e i galantuomini commentano: “Guardate come vestono, il pane di bocca si levano per vestire così”; e io penso “Bene, questo è forse un principio, comunque si cominci l’importante è cominciare”». Invece il narratore del Cavaliere e la morte o di Una storia semplice mette i suoi personaggi di fronte a un’Italia, a una realtà, irredimibile, e li guarda soccombere. Ma il saggista aveva cominciato ad amareggiarsi molto prima, e a disperare del tutto nel corso degli anni Settanta (gli anni della pensione, per il cinquantenne Sciascia: con più tempo per guardarsi intorno e dedicarsi ai libri e ai giornali: ai giornali soprattutto, con le sollecitazioni quasi sempre demoralizzanti dell’attualità). Sul «Corriere della Sera» del 20 giugno 1977 risponde a Calvino, che qualche giorno prima aveva ironizzato sul suo pessimismo:

È davvero difficile, e quasi impossibile, essere ottimisti di fronte alla paura di cui quella che è – o dovrebbe essere – la parte migliore del nostro paese è ormai preda […]. E il peggio è venuto ugualmente, da un anno all’altro, da un giorno all’altro. Continuerà a venire: continuerà a venire, secondo l’ottimismo di Calvino e il pessimismo mio».

Quattro anni dopo, intervistato da un verbosissimo Davide Lajolo, entra nel merito accennando all’angoscia per la fine del mondo contadino – quello del quale nelle Parrocchie si vedeva soprattutto il volto classista e violento – e al conformismo delle opinioni:

E perché non riconoscerlo? Sono pessimista. Si dice che Moravia abbia una volta detto: “Sono ebreo, sono zoppo e sono scrittore: perché non dovrei essere pessimista?” Io posso dire: sono siciliano, vivo in Sicilia e sono scrittore; potrei non essere pessimista? … E una delle ragioni di tristezza, di pessimismo, è la fine del mondo contadino, di quella cultura, di quel rapporto con le cose, col mondo, che a me pare insostituibile. E altra nota di tristezza, di pessimismo …: il conformismo è la filossera della convivenza, l’insidia più spaventosa alla libertà[2].

Ma – viene da commentare – non è sempre così? Non è, il pessimismo, l’umore nero, uno dei fardelli della maturità, soprattutto se l’individuo in questione è un intellettuale, e un intellettuale ossessionato non solo dalla realtà ma dalla cronaca come Sciascia? Per questi iperconsapevoli, invecchiare non ha un effetto rasserenante – e basta rileggere, nei Fatti diversi, le pagine relative alla corruzione non solo della politica ma anche dell’arte, del cinema («è diventato altra cosa di cui, in effetti, non c’era bisogno se non per masse miseramente ‘bisognose’»[3]): tutto va a rotoli.

Non contribuirono al rasserenamento, per Sciascia, l’impegno diretto in politica, a partire dal 1975, e le tante polemiche degli anni Settanta-Ottanta, nonché la sensazione di essere, nella polemica, solo. Ma ad avallare, a solleticare il pessimismo venne anche a un certo punto – e anche questo può essere semplicemente un altro dei portati dell’età matura, dell’esperienza – la scoperta della stupidità. E non intendo la stupidità politica del «cretino di sinistra», stolidamente progressivo, che Sciascia battezza in Nero su nero («Intorno al 1963 si è verificato in Italia un evento insospettabile e forse ancora, se non da pochi, sospettato. Nasceva e cominciava ad ascendere il cretino di sinistra»[4]) e in una famosa intervista del 1979; e certo non il candore masochista di certi suoi personaggi (Cecé Melisenda, Paolo Laurana, Candido Munafò); quanto la stupidità senza aggettivi, la percezione della stupidità che avvolge la vita, e la vita italiana in particolare, e più precisamente la sfera pubblica italiana nel terzo quarto del secolo, nel momento in cui il miracolo economico presenta il conto di una modernizzazione scriteriata non solo nei consumi e nei costumi ma anche nelle forme del pensiero, del discorso, a cominciare dal cosiddetto discorso pubblico. Sugli arzigogoli della vita politica, in un’intervista degli anni Settanta: «Molte delle cose complicate dei nostri giorni sono complicate in questo senso, nel senso della stupidità. Bisogna semplificare». Sui brigatisti, in un’intervista televisiva degli anni Ottanta: «Io li ho già sentiti questi personaggi. Nell’insieme, ho l’impressione di una micidiale imbecillità».

Nel dialogo con Lajolo una delle ragioni «di tristezza, di pessimismo» viene, per Sciascia, dal conformismo degli intellettuali. Il conformismo – scrive nel 1977 replicando a Giorgio Amendola – minaccia gli intelligenti con un «assedio di stupidità»:

… non dire quello che si pensa, nascondere la verità di cui si ha coscienza, e dire invece, ripetere, quel che dicono coloro che sono più forti di noi (e che finiscono poi con l’essere, a causa della loro forza e una volta diventati potere, coloro che stabiliscono assedio intorno all’uomo intelligente, come Savinio preferiva dire in luogo di intellettuale: assedio di stupidità e di intolleranza)[5].

Dato che nel discorso è caduto il nome di Savinio, si deve osservare che certi amori e disamori letterari di Sciascia si spiegano anche così, come ricerca di alleati in questa battaglia, sentimento di solidarietà tra simili, tra assediati: è il tipo d’intesa che c’è appunto con Savinio, ma anche con egregi cacciatori di imbecilli come Brancati e Longanesi, o Flaiano, ma, sopra tutti, con Flaubert:

Flaubert, lo scrittore più attento alla stupidità umana che mai ci sia stato (da certe sue pagine si ha l’impressione che attraverso la sua contemplazione la stupidità si dispieghi in un cielo copernicano, mentre tolemaico era il cielo in cui si inscriveva per un Voltaire)[6].

Leggendo le interviste e gli elzeviri degli anni Settanta-Ottanta si ha l’impressione che sia questo il solo Flaubert che lo interessi, il notomista della stupidità umana, dunque non tanto l’autore dell’Educazione sentimentale e di Madame Bovary (ma in un’intervista ben nota gli viene naturale citare, come per attrazione, il dettaglio del berretto di Charles, paragonato al viso di un idiota) quanto quello di Bouvard e Pécuchet. Ne scrive sul «Corriere della Sera» in occasione del centenario della morte di Flaubert (Contro la stupidità, 7 maggio 1980, poi in Cruciverba col titolo Appunto su «Bouvard e Pécuchet»). Lo indica come modello per il racconto di Brancati Sogno di un valzer: «come non pensare – scrive – a Bouvard et Pécuchet[7]. Ed eccoli fianco a fianco, l’autore del Dictionnaire des idées reçues e l’autore, con Longanesi, del Piccolo dizionario borghese:

Dovremmo sempre dialogare, polemizzare magari: ma sempre con cordialità, direi, senza malanimo, senza aggressione. Invece, tante cose oggi vanno sotto il segno dell’aggressione. E l’aggressione è figlia della stupidità. Flaubert e, da noi, più tardi, Brancati hanno visto il segno della stupidità dominare la vita. Lo hanno previsto. Ed ecco che ci siamo[8].

Quanto ai disamori, indiziati di stupidità sono gli intellettuali in posa, come i maestri del nouveau roman, o gli sperimentali in generale, qui contrapposti alla fluviale vena narrativa di Simenon:

Zola, che ambiva a diventare accademico di Francia, con malinconica testardaggine diceva: «Io scrivo libri, un libro dopo l’altro, e li getto dalla finestra: farò una barricata, si accorgeranno a un certo punto di non poter passare». Simenon forse non ambisce a diventare accademico: ma ogni mese getta un libro dalla finestra. Una barricata. E i pappagalli appollaiati sull’Ulisse, i ripetitori e gli inventori di tecniche, di formule e di ‘punti di vista’ finiranno con l’accorgersene[9].

Ma, più in generale, segno di stupidità, tra gli intellettuali, è l’attrazione per «tutto ciò che è difficile», la convinzione che «la difficoltà sia profondità»[10], mentre appunto per comprendere occorrerebbe sfrondare, semplificare:

La Cina comunista che rendeva omaggio a una vittoria del fascismo, la Russia comunista che aiutava un governo che metteva in carcere i comunisti: chi sa quante di queste contraddizioni, incongruenze e assurdità ci sono nel mondo – si dicevano Candido e Francesca – che ci sfuggono, che non vediamo, che vogliamo lasciarci sfuggire e non vedere. Ché a vederle, le cose si semplificano; e noi abbiamo invece bisogno di complicarle, di farne complicate analisi, di trovarne complicate cause, ragioni, giustificazioni. Ed ecco che a vederle non ne hanno più; e a soffrirle, ancora di meno[11].

Onde la famosa autodefinizione, la descrizione di sé come «uno che cerca di semplificare, secondo verità»[12].

*

              La stupidità, l’assedio della stupidità. È un sentimento diffuso, tra quanti scrivono di Italia nell’Italia negli anni Settanta, e può darsi che c’entri il proliferare dei dibattiti, il vocìo ossessionante delle piazze e dei mass media. Non è per esempio il cretino di sinistra quello che spunta, sotto le vesti dell’indignazione morale, in Antipatia di Parise? E sull’idiozia degli pseudo-colti, specie gli ideologizzati, Arbasino ha scritto una piccola biblioteca («Questa perdita di identità culturale, in seguito alla omogeneizzazione italiana dovuta alla combinazione del linguaggio delle ideologie con quello dei consumi […]. E linguaggio devastato, contaminato, reso inservibile»)[13], anche lui grande ammiratore di Bouvard e Pécuchet («il secondo più gran romanzo mai scritto», dopo il Don Chisciotte: per aver saputo rifondare il romanzo-saggio, e insomma aver reso possibile tra l’altro Fratelli d’Italia[14]). Ma la stupidità, la cretineria di quegli anni è naturalmente un brand di Fruttero e Lucentini. La prevalenza del cretino esce nel 1985, ma raccoglie articoli usciti nel quindicennio precedente.

Io amo molto Fruttero e Lucentini», dice Sciascia a Irene Bignardi («La Repubblica», 7 febbraio 1986). È un amore che non sorprende, e che sarà stato ricambiato. Nati a distanza di pochi anni (Fruttero nel 1926, Lucentini nel 1920, Sciascia nel 1921), né cattolici né comunisti, liberali nel senso più largo che si può dare alla parola, il senso della difesa della libertà individuale dall’arbitrio dello Stato, delle magistrature, delle chiese; più a loro agio da soli che in gruppo, quindi insofferenti alle parrocchie, alle cricche editoriali, o anche solo alle fedeltà editoriali (tutti e tre a un certo punto hanno cambiato volentieri editore), e più di tutto alle fumisterie degli intellettuali alla moda; lettori e autori di romanzi gialli, amanti di Borges, Orwell, Manzoni, Sereni, degli illuministi, di Parigi; culturalmente più europei della gran parte dei loro coetanei, e anche per questo più severi, più desolati circa i costumi dei loro compatrioti – è chiaro che erano fatti per intendersi. Oppure no?

C’è questo aneddoto minimo, raccontato una volta da Fruttero:

Leonardo Sciascia […] aveva fama di persona chiusa, riservatissima. Una notte ci trovammo a viaggiare sullo stesso treno da Milano a Torino ma in scompartimenti diversi. A Porta Susa ci avviammo insieme allo sportello di uscita e corse tra noi un lampo di riconoscimento reciproco. Ma nessuno dei due fece niente: non eravamo stati presentati e quella traballante agnizione prometteva di riuscire comunque goffa, ridicola, senza contare che entrambi potevamo aver fretta di raggiungere i rispettivi giacigli. Sciascia girò pronto la testa da una parte, io dall’altra. E tutto finì lì[15].

Tutto finì lì, con questa signorile reciproca ignoranza. Ma il dettaglio delle due teste, girata una da una parte e una dall’altra, è troppo felice perché non lo si raccolga. Assediati dalla stupidità dei propri simili, soprattutto dei propri simili italiani, negli anni della loro maturità questi scrittori hanno affrontato il problema in maniera diversa. Sciascia ha preso una sua via originale, solitaria, di impegno anideologico, prendendo posizione, intervenendo su tutto ciò che di più grave è accaduto nell’Italia degli anni Settanta e Ottanta: il timbro affranto della sua voce, specie negli ultimi libri, riflette lo sforzo di mettere un po’ d’ordine e razionalità in questa confusione. Invece Fruttero e Lucentini hanno sempre vissuto e scritto con la leggerezza di chi sa che la vita è una farsa. Non è un atteggiamento che paghi, in Italia: gli italiani amano chi si prende sul serio perché amano essere presi sul serio, far intravedere chissà quale profondità; il nemico è chi sdrammatizza, chi insinua il sospetto che tutti i loro profondi crucci esistenziali siano soprattutto il frutto avvelenato della pecioneria, della cretineria diffusa, quindi degni non di meditazione ma di riso (Flaiano: «Tutto viene preso sul serio, in questo benedetto paese, eccetto le cose serie»), e che per provare a uscirne ci sarebbe bisogno non tanto di moralisti pensosi, che a queste latitudini fioccano, quanto di umoristi, di beffatori che tolgano alla cretineria almeno l’alibi della gravità. Per dire anche che l’entusiasmo corrente per Sciascia, certificato da questi tre magnifici volumi di Opere, è un giusto entusiasmo, ma comincia a diventare persino troppo unanime, come se le cose molto precise che Sciascia ha detto e ripetuto sulla politica, l’equilibrio dei poteri, gli intellettuali, la letteratura, la scienza, la storia italiana fossero sul punto di essere diluite in generici appelli alle virtù civili o, peggio, nel moralismo. La santinizzazione di Sciascia: come già di Pasolini, di Calvino… Non sarebbe ironico se anche tra i suoi ammiratori finissero per prevalere i cretini?

Note

[1] Cfr. Paolo Squillacioti, Manovre d’attracco per la «Nave Argo» di Sciascia, in «Todomodo», V (2015), pp. 119-32 (a p. 120).

[2] Davide Lajolo, Conversazione in una stanza chiusa con Leonardo Sciascia, Edilet, Roma, 2009 [1981], p. 58.

[3] Leonardo Sciascia, Fatti diversi di storia letteraria e civile, in OA, II.2, p. 1105.

[4] Leonardo Sciascia, Nero su nero; sul tema, cfr. Paolo Squillacioti, Il cretino, i cretini e il cretino intelligente, in «A futura memoria», giornale telematico dell’Associazione Amici di Leonardo Sciascia, 4 (2009); e Euclide Lo Giudice, Sciascia e Prezzolini, ovvero dei ‘cretini’ e dei ‘fessi’, in «Todomodo», 4 (2014), pp. 157-77.

[5] Leonardo Sciascia, Del disfattismo, della carne e di altre cose, «La Stampa», 9 giugno 1977 (poi in Coraggio e viltà degli intellettuali, a cura di Domenico Porzio, Milano, Mondadori 1977, p. 35).

[6] Leonardo Sciascia, È un fucile o un cretino?, «Corriere della Sera», 4 novembre 1979 (poi in Fine del carabiniere a cavallo. Saggi letterari (1955-1989), a cura di Paolo Squillacioti, Milano, Adelphi 2016, p. 98).

[7] Leonardo Sciascia, Andare a scuola dal professor Brancati, «Corriere della Sera», 5 giugno 1982.

[8] Lajolo, Conversazione in una stanza chiusa cit., p. 76.

[9] Leonardo Sciascia, Il metodo di Maigret e altri scritti sul giallo, a cura di Paolo Squillacioti, Milano, Adelphi 2018, p. 92.

[10] Giampiero Mughini, Identikit del cretino di sinistra. Intervista con Leonardo Sciascia, «L’Europeo», 22 novembre 1979.

[11] Leonardo Sciascia, Candido, in OA, I, p. 1033.

[12] Leonardo Sciascia, La palma va a nord, Milano, Gammalibri 1982, p. 14.

[13] Alberto Arbasino, Fantasmi italiani, Roma, Cooperativa Scrittori 1977, p. 23.

[14] Alberto Arbasino, Ritratti e immagini, Milano, Adelphi 2016, p. 155-59.

[15] Carlo Fruttero, La burnìa di Juvarra, «La Stampa», 23 ottobre 2004. Devo la conoscenza dell’articolo alla cortesia di Domenico Scarpa.

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