Libri

Neil Postman è invecchiato abbastanza bene

Snaporaz online3 Maggio 2025

Sono passati più di vent’anni dalla morte di Neil Postman (1931-2003), e non sembra che i suoi libri circolino ancora largamente, o che se ne discuta granché nei corsi di Scienze della Comunicazione e affini, anche se chi li conosce sa che erano libri pieni di intelligenza, brio, umorismo, come nella migliore tradizione non accademica anglosassone (Postman era un rispettatissimo professore della New York University, ma era soprattutto una voce del dibattito pubblico sui media, e la sua scrittura era quella di un saggista brillante più che quella di un accademico). In un articolo di qualche tempo fa sulla «Review» del Foglio, Guido Vitiello ha scritto che il suo libro più noto, almeno in Italia, Divertirsi da morire, che di anni ne compie quaranta, «è invecchiato molto male» (Sorridi, sei nel mondo del terrore, «Review», dicembre 2022, p. 48). È un giudizio che mi ha fatto pensare: perché sono quasi sempre d’accordo con Vitiello, ma non stavolta; e perché non sono sicuro di che cosa significhi, per un saggio, invecchiare bene. Restare sostanzialmente vero pur nel mutare delle circostanze e dei costumi? Aver saputo prevedere il futuro? Ma se la risposta è questa non si capisce perché Divertirsi da morire sarebbe invecchiato male.

Divertirsi da morire è, dicevo, il libro più noto di Postman più che altro perché ha avuto la buona sorte di essere preso da Roger Waters per intitolare un suo album, Amused to Death. È una specie di summa delle idee e delle opinioni postmaniane, ed è un’ottima cosa che la Luiss lo abbia ristampato un paio d’anni fa; ma ancora meglio sarebbe tradurre un suo libro mai tradotto in italiano, Conscientious Objections (1992), in cui quelle idee e quelle opinioni vengono, mi pare, articolate in maniera ancora più convincente. Sono saggi scritti tra gli anni Ottanta e i primi Novanta, e Postman vi descrive, tra l’altro, la «missione editoriale» della TV commerciale americana: «Negli Stati Uniti, dove la televisione è controllata dagli introiti pubblicitari, la sua funzione principale è, com’è abbastanza naturale, portare un pubblico agli inserzionisti. Più un programma è popolare, più soldi si possono chiedere agli investitori […]. Ciò che è popolare paga, e quindi rimane; ciò che non paga scompare […]. Questo significa che quasi tutto ciò che è difficile o serio o contrario ai pregiudizi popolari non verrà visto».

Come sarebbe accaduto poi in infinite altre analisi dei media, e della TV in particolare, qui Postman faceva discendere da un dato fattuale legato alla sostenibilità del mezzo (ciò che è popolare e paga viene trasmesso, il resto no) un’implicazione morale che non solo non è dimostrabile, nella sua vaghezza (che cosa significa essere «contrario ai pregiudizi popolari»?), ma descrive una realtà per certi versi opposta rispetto a quella determinata dalla diffusione della TV e degli altri media a partire dalla metà del Novecento, posto che non c’è epoca della storia umana che più di questa e più rapidamente di questa abbia visto cadere – certo anche per l’influenza dei mass-media – i «pregiudizi popolari»: circa il ruolo dei sessi, circa la pretesa superiorità di determinate razze o etnie, circa l’idea stessa di che cos’è una buona vita.

Comunque sia, Postman faceva un esercizio divertente, e cioè, da americano, prediceva ai suoi lettori europei quale sarebbe stato il loro futuro se avessero lasciato campo libero alla televisione commerciale sia nell’ambito dell’intrattenimento sia, soprattutto, nell’ambito dell’informazione. Primo, ci sarà una corsa ad estendere il tempo della programmazione: da qualche ora a tante ore, a sempre. Secondo, si produrranno soprattutto programmi facili: «commedie, incidenti stradali, violenza, sesso». Terzo, per competere coi privati, i canali pubblici faranno la stessa cosa, e cioè diventeranno simili ai canali privati. Quarto, e qui conviene lasciare la parola a Postman, «dato che il pubblico si aspetta programmi sempre più rapidi e visivamente eccitanti, comincerà a trovare noiosi i programmi d’informazione centrati su serie questioni d’interesse pubblico. Per competere con i programmi d’intrattenimento, i programmi d’informazione daranno molto più spazio alle immagini e saranno più personality-oriented. Di conseguenza, ci sarà un declino nella capacità del pubblico di capire e discutere in modo serio eventi e problemi». Quinto, la televisione commerciale sottrarrà inserzionisti ai giornali. Alcuni chiuderanno, altri, per competere con la TV, adotteranno una linea più sensazionalistica, con titoli più drammatici, più notizie sulle celebrità, più fotografie; la scrittura si semplificherà, gli articoli si accorceranno, il modello «Harper’s» cederà al modello «USA Today». Sesto, ci sarà un declino nelle competenze di literacy. Settimo, tutto ciò avrà un forte impatto sulla politica: l’immagine e lo stile saranno più importanti delle idee e della capacità di realizzarle, e le elezioni saranno vinte da chi avrà più soldi per pagare gli spot pubblicitari. Ottavo, gli adulti subiranno un processo di infantilizzazione, e i bambini avranno accesso a conoscenze che un tempo erano riservate agli adulti: in generale, la linea che separa le età cesserà di essere visibile, e tutti i segmenti della popolazione condivideranno il medesimo universo simbolico, che sarà largamente plasmato dal consumo.

Ora, in che senso queste previsioni, che si sono rivelate chiaramente corrette, sarebbero «invecchiate male»?

Mi pare che questo punto di vista sia viziato da due pregiudizi. Il primo ha a che fare con l’ossequio nei confronti del fatto compiuto, ossia con ciò che, meglio che realismo, si dovrebbe chiamare acquiescenza alla realtà. Le forze descritte da Postman non hanno soltanto vinto la battaglia ma hanno polverizzato i loro oppositori: quello che una volta, mentre la battaglia era in atto, poteva sembrare persino ragionevole adesso è diventato ridicolo o, peggio che ridicolo, ingenuo: e nessuno vuole fare la figura dell’ingenuo. Non fa sorridere il fatto che tanti anni fa – ma non poi tanti, trenta – qualcuno abbia avuto l’ingenuità di promuovere un referendum contro le interruzioni pubblicitarie nei film? O che un anziano filosofo liberale abbia proposto l’introduzione di una «patente per la TV», una specie di certificato di buona condotta da rilasciare (a nome di chi? Da parte di quale autorità? Mah) ai «professionisti della comunicazione televisiva»? E poi che cosa? Il cinema di Stato? Il Minculpop? Gli esseri umani sono un legno storto: di quale tara moralistica è il segno, questa smania di raddrizzarli?

Il secondo pregiudizio mi pare derivi da un equivoco circa le, diciamo, strategie di consumo dell’immateriale, cioè nell’estensione delle proprie strategie di consumo a chi quelle strategie non può veramente permettersele. Come mai, ha domandato Salvatore Merlo a Urbano Cairo («Il Foglio», 13 maggio 2022), tanti difensori di Putin nei talk-show della Sette? E come mai tanti freaks? Ma pluralismo, ha risposto Cairo, significa far sentire la voce di tutti. «Inoltre, quando queste persone, questi ospiti, fanno propaganda vi assicuro che il telespettatore li sgama immediatamente. Le persone non sono stupide. Oggi la gente che ascolta ore e ore di tv è molto disincantata. Non la convinci dicendo due stupidaggini. Le dico di più: di alcuni di questi personaggi televisivi filo-putiniani secondo me la gente ride».

Ora, questa idea secondo cui tutti quelli che guardano la TV – o, oggi, scrollano Facebook o TikTok, che è spesso un altro modo per guardare la TV – sono mentalmente allineati al sottile mood postmoderno per cui ogni cosa che si dice o si scrive dev’essere intesa come detta o scritta tra virgolette, ironicamente, nella consapevolezza che per essere incisivo ogni tipo di comunicazione deve adottare un travestimento, tanto più efficace quanto più è variopinto, questa idea sovrastima molto le facoltà ermeneutiche dello spettatore-tipo: non servono grandi sforzi per capirlo, basta avere esperienza di spettatori-tipo.

Il tratto comune a questi due pregiudizi è che sono entrambi reazionari: lo è l’idea che il mondo è così, così sono gli esseri umani, e che perciò sia non solo vano ma persino ingiusto provare a difendere gli incolti e i non avveduti dalla stupidità dei mass-media («Certo – ha ironizzato Enzensberger – la tesi centrale di Mr Postman, secondo cui la televisione sarebbe una scemenza totale, è giusta. Curioso è solamente che egli veda in ciò un momento di demerito. Quando proprio al fatto di essere demenziale la televisione deve il suo fascino, la sua irresistibilità, il suo successo»); e lo è l’idea che la manipolazione non esista, cioè che gli incolti e i non avveduti siano perfettamente in grado di capire se qualcuno li sta manipolando.

Tanto più è stato stupefacente, almeno per me, notare come, in questi ultimi anni, l’infatuazione per la società dello spettacolo abbia riguardato soprattutto coloro che si presentano come progressisti, o ‘di sinistra’, in ciò derogando alla vulgata «marxista che vede il divismo funzionalmente al servizio dello statu quo e, quindi, della classe dominante» (Francesco Alberoni, Consumi e società, Bologna, Il Mulino 1964, p. 70). È un’infatuazione che si è manifestata in modi diversi: prendendo chiassosamente il lutto per la morte di personaggi televisivi che, vivi, ci si vergognava di guardare anche a causa del modo spregiudicato con cui facevano il loro mestiere; decidendo che questo rapper o quel fumettista sono i più insigni intellettuali del nostro tempo; adoperando Fedez o Elodie – due fra i tanti – come testimonial delle buone cause sociali o identitarie; stendendo una patina di allettante cultura pop sui programmi dei corsi nei dipartimenti umanistici. È come se al posto della ‘scuola del sospetto’ si fosse insediata una scuola della fiducia, del candore, pronta a farsi piacere qualsiasi sciocchezza, a patto che da questa sciocchezza emanasse il luccichio dello show-business. È perché lo show-business è diventato l’acqua nella quale nuotiamo, e la resistenza è futile? Se pure è così, dà un certo sollievo sollevare la testa dall’acqua ogni tanto, e anche riflettere su come diversamente avrebbero potuto andare le cose: e i libri di Postman continuano ad essere uno dei modi più intelligenti per farlo.

 

 

 

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