Le nuove indicazioni ministeriali relative ai programmi di italiano sono piene di esortazioni alla scrittura. Gli studenti, si dice, scrivono troppo poco, non fanno esercizio, arrivano al liceo o all’università e, a parte fare ancora errori di grammatica, faticano a mettere insieme per iscritto due frasi che non facciano a pugni tra loro. Questo, effettivamente, non è bello. E dunque? Bisogna scrivere, scrivere qualsiasi cosa: pensierini, e-mail, temi, relazioni, riassunti; soprattutto (questo non c’è nelle indicazioni ministeriali ma c’è nella prassi scolastica), bisogna che per iscritto gli studenti esprimano sé stessi, sfoghino le loro emozioni, cimentino la propria creatività, dicano la loro. «Che cosa ne pensi della Vita di Vittorio Alfieri? Argomenta le tue opinioni con pertinenti rinvii al testo».
Ora escono due libri che fanno riflettere sulla possibilità che una pedagogia più sensata sarebbe quella che sin dall’età scolare addestrasse a scrivere meno, e soprattutto a non voler sempre dare forma scritta alle proprie idee ed emozioni, a non considerare le proprie idee ed emozioni così importanti, a stare zitti se non si ha niente di significativo da comunicare, e insomma a considerare la scrittura come un’attività distinta dalla sbobinatura dei propri inordinati pensieri. Quindi, per cominciare, a non scrivere in rete.
Perché tra l’epoca felice del ‘leggere, scrivere e far di conto’ e l’anno 2025 si è interposta l’invenzione di internet, e internet ha generato una fluviale produzione di micro o macrotesti per lo più demenziali, sotto forma di post, tweet, messaggi, commenti, pareri in calce all’articolo, recensioni su Amazon – una quantità smisurata di parole digitate da persone cui, per la gran parte, sino a un decennio fa non sarebbe mai venuto in mente di scrivere, o perché non educate a farlo, o perché troppo timide per esporsi, o perché semplicemente non ne avevano occasione. Adesso l’occasione c’è, e la timidezza la guarisce la mediazione dello schermo, che allontana e nasconde. E dunque?
E anche scrittore. Come ci siamo messi tutti a scrivere (Utet) di Arnaldo Greco è quello che all’università si chiamerebbe un breve ‘corso istituzionale’: parte da una scoperta – che tutti, oggi, scrivono molto più di quanto non facevano un tempo – ed esplora le varie province di questo continente-scrittura che circa un quarto di secolo fa è emerso dalle acque. Altri ne parlerà su questo giornale, perciò dico qui del secondo libro in questione, Merdoni di Chiara Galeazzi, che è un ancor più breve corso monografico su un particolare tipo di scrittura, un particolare genere: il commento.
Dicesi merdone «la reazione negativa di massa a un gesto considerato controverso. Online succede principalmente sui social, quando una frase o un post o una notizia genera una quantità di commenti negativi molto più grande della norma». Nelle prime pagine del libretto, l’autrice suggerisce molto rispettosamente alle «redazioni dei dizionari della lingua italiana» di inserire la parola merdone nelle edizioni future, o nei siti relativi, e io unisco la mia voce alla sua: la Crusca e la Treccani hanno digerito, negli anni, parole molto meno necessarie, e merdone, oltre a definire un concetto che merita di essere definito, ha una sua, ehm, pastosa sostanza fonica. Sarebbe piaciuto a Gadda (che magari l’ha anche usata: non ho qui le concordanze).
Dopo questa premessa lessicografica, Galeazzi entra nel merito prima rievocando i suoi antichi merdoni (titolare di un blog con commenti aperti sin dai primi anni Duemila, redattrice a Vice, ha fatto precoce esperienza del virus commentatorio), poi raccontando l’Esperimento che ha escogitando per scrivere questo libro: si è inventata uno pseudonimo non più scemo di quelli che si trovano generalmente nei social network, @AcidoLauronico (nome azzeccato, perché l’essere acidi, che nella vita reale è un difetto di cui vergognarsi, in rete, dove anche la conversazione più innocente ha un fondo di agonismo, viene inteso come ‘franchezza, wit’), dopodiché ha gettato @AcidoLauronico nelle conversazioni sui social, conversazioni che come si sa diventano liti in capo a mezza dozzina di commenti. Infine, dall’Esperimento ha dedotto un’Esperienza che comunica nelle ultime pagine del libro, e che dimostra quod erat demonstrandum, cioè che commentare in rete è una pessima idea, nonché – si può aggiungere – un quasi sicuro segno di stupidità, una volta passati i vent’anni: fatti salvi sempre, s’intende, quelli che con i commenti ci campano, quelli che fatturano in proporzione alla loro presenza in rete.
Ciò detto, distinguiamo brevemente tra contenuto e forma.
Il contenuto, l’argomento, non è nuovo ma continua ad essere interessante. Chi, come me, è abbastanza vecchio da aver conosciuto il mondo pre-digitale, in questi anni è rimasto colpito, prima che dalla violenza degli opinionisti in rete, proprio dal fenomeno dello scrivere di massa in sé: la smania di esprimersi per iscritto, anche in persone che non hanno scritto mai. C’è, voglio dire, un tipo di carattere che vuole litigare, e scrive cose come «In Italia ci sono centinaia di moschee. Ma dico: se volessi costruire una chiesa in Algeria potrei farlo? Sentiamo». Niente di strano, in tanti hanno bisogno di sfogarsi. Ma quelli che scrivono «Riposa in pace» sotto la foto del papa morto? Di Franco Battiato morto? Di Sandra Milo morta? L’uomo è quell’animale che vuole lasciare tracce, si sa. Ma chi avrebbe pensato che si sarebbe accontentato di tracce così misere? Su questo, sui motivi di questa calamità, forse sarebbe stato opportuno qualche ragionamento ulteriore, a partire da un campione di commenti più ampio di quello che si trova nel libro, che è davvero esile. Si poteva dire di più.
Si poteva dire di più ma – e vengo alla forma – questo non è un saggio, e nemmeno uno studio sociologico, è uno di quei personal essay che nelle patrie del personal essay sarebbe finito sulle pagine dell’«Atlantic» o del «New Yorker» o di «Vanity Fair» (Galeazzi è perfettamente all’altezza). In Italia, mancando riviste adeguate, diventa un piccolo libro. Come che sia, già in due suoi scritti precedenti – Una settimana da Immuni, che si legge in rete su Medium, e Poverina, anche questo uscito da Blackie – Chiara Galeazzi aveva dimostrato di possedere un raro talento per questo genere, che anche in Merdoni declina in termini umoristici (cosa rarissima nella nostra scena letteraria, dove si sorride e si ride poco, perché molto ci si prende sul serio), salvo che qui lo humour si vena di malinconia, nella contemplazione di tanta diffusa, immedicabile idiozia. Arrivata alle porte dei quarant’anni, Chiara Galeazzi è diventata, oltre che spiritosa, anche saggia; ma di una saggezza lieve, amichevole. La sua voce resta una delle più piacevoli da ascoltare, e lei una delle autrici più capaci della sua generazione – proprio per questo i prossimi traguardi dovranno essere più ambiziosi.
Chiara Galeazzi, Merdoni, Blackie 2025