Cultura e società

Quello che ha visto Renata Pisu

Review del Foglio28 Dicembre 2024

«Proteggete le nostre verità»
(F. Fortini, Composita solvantur)

Venticinque anni fa è uscito La via della Cina di Renata Pisu, che è il raro memoir di viaggio che riesce a non annoiare (annoiano molto anche alcuni dei più celebrati e patinati giramondo), un po’ perché l’autrice è capace a scrivere e un po’ perché il genere di esperienza che ha vissuto è eccezionale alla lettera, cioè comune a pochi, pochissimi, per l’esattezza a tre soli italiani, lei e i due compagni di studio che nella seconda metà degli anni Cinquanta partirono dall’Italia per Pechino grazia a una borsa di studio del governo cinese, e sbarcarono all’università Beida. Gli altri due erano Edoarda Masi (nel libro ribattezzata Lia) e Filippo Coccia (nel libro ribattezzato Ignazio).

Avevo letto La via della Cina a suo tempo, e prima avevo letto gli articoli di RP sulla «Stampa», corrispondente da Tokyo, poi inviata per «Repubblica» in giro per il mondo. E l’anno scorso ho scoperto una cosa bizzarra sulla sua carriera. Così sono andato a trovarla nella sua casa di Milano. Ha 89 anni, è in piena forma, e – come si capisce leggendola – è molto simpatica.

*

Metà anni Cinquanta. Cresciuta a Roma in una famiglia «che la lasciava molto libera», RP prende l’esotica decisione di studiare cinese e russo all’Ismeo, l’Istituto italiano per il Medio ed Estremo Oriente fondato vent’anni prima dall’orientalista Giuseppe Tucci. Il corpo docente è formato da un’unica unità, il burbero prof. Yang, che nel tempo libero fa anche il ristoratore (o viceversa: nel tempo libero che la ristorazione gli concede fa l’insegnante), e non è esattamente incoraggiante: «Era convinto che non avremmo mai imparato il cinese, e continuava a dircelo. Aveva un metodo tanto semplice quanto inefficace: farci mandare tutto a memoria». Poi succede che arriva in tournée a Roma il circo di Pechino, e al Centro Cina (presidente, ignoro perché, Ferruccio Parri) cercano qualche giovane di buona volontà che sappia un po’ di cinese e accompagni i circensi in giro per l’Italia. RP è questa giovane di buona volontà: «e allora ho cominciato a parlare con gli acrobati, e a capirli, e a dire e ascoltare cose pratiche, quotidiane, che il professor Yang non aveva ritenuto d’insegnarci, insomma a entrare davvero nella lingua».

Così, quando il governo cinese bandisce delle borse di studio per l’università Beida lei è una dei prescelti. «Anche grazie alla raccomandazione di Renato Mieli, che era stato o era ancora il responsabile dei rapporti con l’estero del PCI».

Il viaggio verso Pechino è campale. In aereo, ma con almeno una mezza dozzina di scali: a Copenaghen, a Riga, Mosca, Novosibirsk, Irkutsk, Ulan Bator, per lo più su minuscoli aerei Iliuscin semivuoti; e pasti consumati in aeroporti grandi come palestre, in mezzo ai kolchoziani in stivali di feltro che dalle città tornavano nei villaggi con ceste smisurate. «Arrivati a Pechino non ci aspettava nessuno». Poi all’aeroporto si trova un telefono, uno dei tre ragazzi per fortuna ha il numero di un contatto, li va a prendere un tale Huang Hua, che anni prima aveva lavorato come interprete per Malaparte, e nel tardo pomeriggio, a cinque giorni dalla partenza dall’Italia, devastati dalla stanchezza, arrivano all’università.

Di qui in poi, la storia raccontata da RP in La via della Cina e quella raccontata qualche anno prima dalla sua compagna di viaggio Edoarda Masi in Ritorno a Pechino (Feltrinelli 1993) concordano sull’essenziale, anche se poi le loro traiettorie politiche sono state parecchio divergenti (parecchio, sì). Prima però di dire qual è questo essenziale conviene ricordare che già nei primi anni Cinquanta la rivoluzione cinese conteneva per molti, a sinistra, una promessa di felicità. Nell’autunno del 1955 una delegazione politico-culturale italiana aveva visitato il paese in lungo e in largo per un mese, e al rientro la rivista «Il Ponte» aveva pubblicato un numero speciale di settecento pagine dedicato a interventi di esperti sui vari aspetti della vita cinese, nonché ai resoconti di viaggio dei membri della spedizione – tra gli altri, giuristi come Bobbio e Calamandrei, giornalisti-scrittori come Antonicelli, Cassola, Bernari, lo psicanalista Musatti, la sinologa Maria Regis; e Fortini, che qualche mese dopo, nella primavera del 1956, avrebbe scritto su quel viaggio addirittura un libro, Asia Maggiore.

I resoconti erano pieni di gioioso entusiasmo, a cominciare da quello di Piero Calamandrei che apre il volume del «Ponte»: «La sensazione che ha oggi chi arriva in Cina è, prima che di trasformazione economica, di rinascita morale […]. Lo spirito ha precorso l’economia: questa pulizia morale, quest’aria di giovanile ottimismo, questa spontanea gaiezza è frutto non di una trasformazione sociale già compiuta, ma del proposito di compierla che ha impegnato le coscienze, e della sicurezza che, camminando su questa strada, il proposito diventerà storia». Un’euforia che Calamandrei vedeva specchiarsi nella spontanea parata che per quattro ore passa davanti alla Porta della Pace: «Al di sopra di quella placida fiumana di popolo variopinto che scorreva tra le rive del grande viale, selve di vessilli e di insegne si intrecciavano con ritmi di balletto, e si levavano a volo stormi di colombe e fughe di palloni e di aquiloni in forma di drago, sventolanti nastri con scritte d’oro. Quello non era un corteo comandato: era un canto, era una danza, era una spontanea effusione di gioia collettiva: tutto un popolo in festa, lo sbocciare irresistibile, per legge di natura, di una nuova stagione»[1].

In Ritorno a Pechino, Edoarda Masi descrive così i membri della delegazione italiana:

Allegri e incoscienti, trascinati alle feste e agli spettacoli, a visitare cooperative agricole e ministri, ben curati negli ospedali, accompagnati su e giù per la Cina, migliaia di chilometri, dopo un mese con la testa che gira erano rientrati in patria convinti di aver capito tutto, e nei loro scritti i pregiudizi di superiorità dell’occidentale e le conoscenze ad usum Delphini loro impartite dai burocrati accompagnatori si sarebbero fusi in un’unica benevolenza sorridente per la rivoluzione all’acqua di rose (pp. 86-87).

La Cina che hanno sotto gli occhi Edoarda Masi e RP per, rispettivamente, uno e tre anni, non è dunque quella intravista dai delegati italiani. A Beida si mangia poco e male, come dappertutto. RP ricorda il freddo nelle stanze e nelle aule, e l’obbligo di consumare fino all’ultimo chicco di riso che si ha nella scodella, e «molta marmellata di rose che arrivava dall’ambasciata bulgara», e in generale niente o quasi niente che fosse buono o gustoso. Gli sprechi vengono scoraggiati con severità asiatica: una ragazza viene scoperta a nascondere in un cassetto della scrivania del pane raffermo, e per punizione la obbligano a indossare una specie di collana fatta da questi pezzi di pane e un cartello che dice «Sono un mostro, ho sprecato il pane del popolo».

Ma le pene materiali non sono niente a paragone di quelle psicologiche. Poco dopo l’arrivo dei tre studenti italiani comincia la guerra agli youpai, i ‘deviazionisti di destra’, e nel campus dell’università l’atmosfera diventa irrespirabile. Dagli altoparlanti, che prima trasmettevano «la musichetta mattutina e i comandi per la ginnastica alle dieci», adesso escono «rapporti e slogan ed esortazioni»[2]. Le lezioni si diradano, perché tutti sono sempre in riunione; gli studenti si denunciano a vicenda, le aule sono occupate dalle sessioni di ‘critica’ ai presunti youpai gestite dai membri del Partito o dagli altri studenti, aizzati contro i reprobi. Il deviazionista viene prima denunciato dai dazepao, che fioriscono a centinaia nei corridoi dell’università, poi sistemato su una pedana in mezzo a una stanza, invitato con le cattive ad «abbassare la testa», non metaforicamente, e a fare autocritica sulla base di imputazioni quasi sempre deliranti (nella sua relazione settimanale sugli stranieri, uno di questi studenti-guardie scrive che l’origine borghese di un certo altro studente straniero è evidente, «perché di notte porta il pigiama»)[3]. Ne derivano espulsioni, deportazioni in campagna, allo scopo di rieducare gli intellettuali al lavoro nei campi, o nelle fabbriche della provincia; e moltissimi suicidi.

Nel suo diario, RP annota a questo proposito le sue impressioni dopo un incontro con Enrica Pischel: «Pochi giorni fa, con una delegazione culturale del PCI, è venuta qui a Pechino E.P., la storica milanese, e le ho descritto quello che avevano passato tanti miei amici cinesi accusati di essere youpai. Non si è commossa per niente, li ha definiti ‘pre-marxisti’, come se il passaggio al marxismo fosse ineluttabile…».

Adesso, conversando con me, RP ricorda che «non era possibile stare da soli, uscire, frequentare chi si voleva. A ognuno di noi era stato assegnato un fudao, cioè un amico o un’amica che con la scusa di parlare cinese con noi aveva il compito di sorvegliarci e fare rapporto ai dirigenti dell’università. A un certo punto è diventato sconsigliabile frequentare gli iugoslavi, per via dello strappo di Tito. E naturalmente era proibito parlare con gli youpai, salvo essere sospettati anche noi di deviazionismo (e tutti lo siamo stati). E molti sparivano, allontanati dall’università, costretti a un lavoro manuale: io, per esempio, ho conosciuto il padre di Ai Weiwei, un poeta allora famoso, che fu mandato nello Xinjiang per anni, poi venne riabilitato e morì poco dopo. Ma è stato il destino di milioni di persone. Più ancora che di violenza, però, l’impressione era quella di una generale assurdità, di un’assurda sproporzione tra mezzi e fini. Un giorno ci siamo alzati ed era stata dichiarata guerra ai passeri, che guastavano i raccolti, e per giorni tutta la popolazione di Pechino ha collaborato allo sterminio dei passeri sparandogli con la fionda o col fucile, o facendoli volare fino a che non gli scoppiava il cuore. Un continuo esercizio di sadismo, contro gli esseri umani e contro gli animali».

*

Tornata in Italia, a ventisei anni, non è che le occasioni di lavoro si sprechino. Vorrebbe lavorare come interprete, o al Centro Cina a Roma, ma niente. E anche le cose che ha visto in Cina, il suo parlare cinese, non sembra interessino granché. La madre sta a Santa Margherita Ligure, lei va ad abitare a Milano. «In Italia non sapevo bene con chi parlare. Tutti sembravano impazziti per le comuni popolari. Io le avevo viste in Cina, erano pezzi di campagna in cui era vietato possedere qualsiasi cosa, anche una pentola, un bicchiere. Una cosa atroce. Invece i miei amici italiani sembravano tentati dall’idea. Così, dato che non c’era nessuno che avesse voglia di ascoltare, mi è anche passata la voglia di raccontare, il mio diario è rimasto lì, non ne ho fatto niente. L’ho usato solo quarant’anni dopo per scrivere La via della Cina».

Anni Sessanta. Fa qualche lavoretto nell’editoria, conosce Giuseppe Regis e Maria Arena, gli animatori delle Edizioni Oriente, che «traducevano cose piuttosto illeggibili sulla rivoluzione culturale». Lelio Basso la assume part-time per tradurre dei «testi cinesi tremendi» per la rivista Problemi del socialismo. Poi Gaetano Baldacci, che era stato tra i fondatori del «Giorno», apre un nuovo settimanale, ABC, e le chiede se le andrebbe di fare la prima storia fotografica della rivoluzione cinese, da allegare al giornale a dispense; lei la fa – è il centinaio di pagine fittamente illustrate che RP mi mostra adesso, rilegate in tela («e non c’era internet, bisognava darsi da fare soprattutto per trovare le foto»). Poi cambia la proprietà, cambiano i direttori, e ABC diventa un’altra cosa: è sempre una buona rivista, ci scrivono sempre scrittori capaci come Bianciardi o Fusco, ma si comincia a parlare molto di sesso, e a mostrarlo (spiccano le tavole a fumetti con le avventure di «Justine»). E questa è – ne accennavo all’inizio – la cosa strana che ho scoperto sulla carriera di RP: dopo la storia fotografica della rivoluzione cinese le chiedono di fare una rubrica di posta dedicata all’amore e al sesso, lei accetta ma s’inventa uno pseudonimo. «Io avevo detto che mi sarei chiamata Seed, ‘seme’, perché pisu in sardo significa ‘seme’. Ma i tipografi hanno preso la S per una L, e così sono diventata Cristina Leed. Avevo anche scelto un logo molto raffinato, ma è durato poco, dopo qualche settimana al posto del mio logo hanno messo la silhouette di una donna seminuda». Una scelta delle lettere, ma senza le risposte, è stata poi pubblicata da Bompiani in un volumetto dal titolo Maschio è brutto. L’uomo italiano in trecento lettere sessuali – titolo e tagli suggeriti da Oreste Del Buono.

Dopo ABC la assumono al Radiocorriere TV su indicazione «di qualcuno del PCI» (RP è una delle persone più aliene dal riconoscersi meriti che io abbia mai incontrato: sembra che si ricordi, e che voglia ricordare al suo interlocutore, soltanto le raccomandazioni). Il Radiocorriere sta a Roma, ma lei ha due figlie piccole perciò le concedono di stare a Milano e di andare tre giorni la settimana a Torino, alla ILTE, dove si stampava la rivista, per fare il ‘redattore di tipografia’. «Non era granché, come lavoro, ma a Torino ho cominciato a collaborare anche con “Tuttolibri”, ho conosciuto Fattori che dirigeva “La Stampa” e voleva potenziare gli Esteri. Avevano aperto un ufficio a Tokyo; per un anno ci è andato Vittorio Zucconi, che poi è passato a “Repubblica”. Allora Fattori ha chiesto a me».

«Perché Tokyo e non Pechino?».

«Perché allora, pieni anni Ottanta, la Cina non era ancora così interessante. “È come una grande Romania”, aveva detto Fattori. Invece il Giappone era il futuro, il paese che avrebbe conteso agli Stati Uniti il dominio economico sul mondo». (Già, rifletto, quella per l’Occidente è stata l’età dell’ansia generata dal pericolo giapponese. In Coniglio, sei ricco! John Updike descrisse, con un’angoscia che stinge sulle buone vite dei buoni borghesi ritratti nel romanzo, la marcia trionfale della Toyota sul mercato automobilistico americano; e gli sceneggiatori di Black Rain misero in bocca a Michael Douglas, poliziotto newyorkese in trasferta a Tokyo, un florilegio di battute di puro odio, da proteste ufficiali e ritiro dell’ambasciatore: «[Masahiro]: Music and movies are all America is good for. We make the machines, we build the future, we won the peace». «[Douglas]: And if there was ONE of you guys who had an original idea, you’d be so tight that you couldn’t even pull it out of your ass!»).

Nel 1989 RP vola da Tokyo a Pechino, e copre per «La Stampa» i fatti di Tienanmen. Era «La Stampa» che aveva provato a fare i ‘dorsi’ (politica, spettacolo, cultura), un giornale bellissimo anche graficamente. E quelli di RP erano articoli lunghi, ben scritti, ho conservato i ritagli. Di uno ricordavo quasi a memoria il passaggio in cui lei incontra uno degli scampati alla strage di Tienanmen e lui le dice: «Prima non mi interessavo di politica, ora sono diventato uno di quelli che hanno separato il cuore». Commenta RP: «Non capisco le sue parole, me le faccio ripetere. Continuo a non capire e lui allora mi scrive due ideogrammi, quello di abbandonare o separare, e quello di cuore. Finalmente capisco. Così in cinese si definiscono i dissidenti, un neologismo coniato in questi giorni che mi sembra molto bello»

Poi un giorno la chiama Scalfari. «Ero rientrata in Italia, dopo quattro anni a Tokyo. Mi facevano scrivere pezzi di costume, e uno era sulle suore di clausura. Scalfari l’aveva letto e gli era piaciuto molto. E mi ha portato a “Repubblica”, agli Esteri, come inviata».

*

La cosa che mi era rimasta più impressa, leggendo il libro venticinque anni fa, erano le reazioni degli italiani, quando RP raccontava quello che aveva visto e sentito nei suoi tre anni di Cina.

In visita a Pechino, Giancarlo Pajetta la convoca nella sua stanza in albergo, estrae una lettera dalla tasca interna della giacca e le dice: «Questa lettera è indirizzata a te, la tua amica Lia [Edoarda Masi] ha avuto la faccia di bronzo di affidarla a un compagno della nostra delegazione perché te la consegnasse. Logicamente io l’ho aperta: leggi, dice delle cose ignobili sul nostro partito. Ma non basta, c’è di peggio. Nella busta ha messo anche un’altra lettera scritta in cinese per il suo drudo che tu, secondo lei, dovresti far avere a questo tizio. Ora, siccome non so il cinese, io darò questa lettera ai compagni di Pechino e vedranno loro il da farsi».

Logicamente io l’ho aperta.

RP lo prega di non consegnare la lettera ai cinesi, lui accoglie la preghiera, si fa tradurre la lettera, che contiene – ricorda RP – «semplici frasi di consolazione di una donna al suo innamorato cinese», dopodiché le ordina di bruciare le due lettere davanti a lui. Lei le brucia, e Pajetta, «che fino a quel momento era stato serissimo e scuro in volto, si è messo a ridere e mi ha tirato le orecchie. Mi è venuto da piangere, forse lacrime di rabbia, che però ho ingoiato». Pajetta, mi dice adesso RP, «aveva l’aria di uno che sapeva benissimo che cosa stava succedendo in Cina, capiva tutto, ma pensava che fosse meglio sorvolare, lasciar perdere».

Tornata in Italia, RP scrive la prefazione a Prigioniero di Mao di Jean Pasqualini, padre corso e madre cinese, la «prima testimonianza da un gulag della Cina. L’editore vuole pubblicarlo, i redattori entrano in sciopero per protestare contro questa iniziativa che «getta fango sul presidente Mao». Alla fine, il libro esce ma viene ignorato. «La stessa sorte – ricorda RP – tocca a Pasqualini che, riuscito a riparare in Francia, aveva ottenuto un insegnamento di lingua cinese all’università di Bordeaux, dove i suoi colleghi maoisti francesi gli negavano perfino il saluto». Poi a Milano parla alla Casa della cultura e viene contestata, ovviamente da gente che non solo non parla né legge il cinese ma in Cina non c’è proprio mai stata. «Erano tutti a favore della rivoluzione culturale, anche se naturalmente non ne sapevano niente. Ricordo che l’unico che mi abbia difeso è stato il pittore Giulio Turcato».

Invece Fortini la ascolta. Come ho ricordato, Fortini aveva partecipato alla delegazione italiana che aveva viaggiato per la Cina nel 1955, e al rientro aveva descritto con commozione, sul «Ponte», il suo dialogo con la giovane bibliotecaria Tzu Min: «Parliamo d’altro, divaghiamo. E poi: “Qual è la cosa che più desidera al mondo?”, le chiedo. Ma quando mi risponde: “Che in tutto il mondo finisca lo sfruttamento della classe operaia”, so che non mi sarà possibile impedire ai miei amici di sentirle come un imparaticcio di propaganda, come la formula che la giovane funzionaria sa di dover dire allo straniero…»[4].

Scrive RP in La via della Cina: «Raccontai l’assurdo al quale avevo assistito, al quale avevo partecipato, a F.F., un intellettuale più che impegnato: a casa sua c’era anche il famoso scrittore C.C. [Carlo Cassola]». Un paio di giorni dopo Fortini le manda una lettera:

Mia moglie e io, e C., le siamo profondamente riconoscenti di quanto ha voluto dirci. Altro è leggere e supporre e altro conoscere attraverso una testimone come lei. E siccome, su quegli argomenti, io la penso come lei: e cioè che l’orrore e la ripugnanza per troppe cose non debbono vincere il consenso radicale di fondo; e che, comunque, il nostro primo dovere è quello di mantenere, moltiplicare, con tutte le nostre forze, il difficile dialogo fra le parti della causa socialista mondiale e la presente evoluzione cinese (ne va credo dell’avvenire di tutti e così facemmo tra il 1947 e il 1956) mi permetto di consigliarle di scegliere con oculatezza e di limitare al massimo le persone con le quali discorrere della sua esperienza, perché, per tre persone come noi, che capiscono e misurano, ne troverà trecento per deformare, sfruttare, corrompere; il secondo applicarsi pazientemente a scrivere, nella forma più semplice e diaristica, tutto quello che ha visto e saputo, non in vista di una pubblicazione (le dico questo perché non mancherebbe chi si interesserebbe subito. Ma lei sia prudente, mi raccomando) ma perché il tempo altera immediatamente la memoria.

Mi creda suo F.F.

«Proteggete le nostre verità». Come mi sono commosso, a vent’anni, leggendo questo verso alla fine dell’ultimo libro di poesie di Fortini. Com’ero imbecille.

Dopo aver passato tre anni in Cina, RP non la pensava affatto come Fortini. E non pensava nemmeno che le cose che sapeva dovessero circolare fra tre compagni di partito «che capiscono e misurano» anziché nel pubblico più largo degli italiani. «Pensare», scrive a commento di questa lettera incredibile (incredibile oggi: credibilissima allora, tant’è vero che lo stesso paterno consiglio venne dato ad Edoarda Masi quando cercò di pubblicare il suo diario pechinese: «Avrebbe dovuto essere pubblicato da Einaudi, ma fu bloccato dalla resistenza di alcuni intellettuali Pci: da un pezzo avevano smesso di credere che “la verità è rivoluzionaria”. O forse lo credevano, e proprio per questo la temevano»)». «Pensare», scrive dunque RP, «che non gli avevo detto tutto, come non dicevo tutto nelle lettere che da Pechino scrivevo a casa. Perché? È semplice: non mi avrebbero creduto. Come potevo scrivere a mia madre che davanti alla fermata dell’autobus, proprio al muro di cinta di Beida, un giorno avevo visto fucilare un ‘controrivoluzionario’?». E poi: «Dall’assurdo in cui ho vissuto per tre anni a Pechino mi sono ripresa lentamente, a fatica, anche se in seguito, e perfino ora, andando in Cina e in Russia, ho continuato a stupirmi di quel che vedevo, di quel che mi dicevano, di quello che succedeva. Chi mai oggi potrebbe voler “deformare, sfruttare, corrompere” questa realtà tanto corrotta e deforme?».

Ma gli italiani non sono stati neanche i peggiori. «Qualche anno fa mi hanno chiesto di scrivere la prefazione ai Carnets del viaggio in Cina di Roland Barthes. Barthes era andato in Cina nel 1974 con i maoisti di Tel Quel. Naturalmente nessuno di loro capiva una parola di cinese. Al ritorno aveva pubblicato sul “Monde” un articolo che credo s’intitolasse Et alors, la Chine?». Sì, s’intitola così, è la solita accozzaglia di truismi impaludati nel gergo semiotico, quando non di vere e proprie sciocchezze, che si trova negli scritti del Barthes maturo: del resto, Barthes è l’uomo che dopo aver passato qualche settimana in Giappone, naturalmente ignorandone la lingua, scrive quel paradigma di cialtroneria che è L’impero dei segni. Salvo che in Giappone non si contavano, a milioni, le vittime della Rivoluzione Culturale, e non era in corso, com’era in corso in Cina, il massacro della fazione di Lin Biao:

La purga in corso – scrive RP nella prefazione ai Carnets – era feroce, lo capivo leggendo i nomi dei condannati a morte sui dazipao. Che a Barthes sembravano poesie, che bella cosa la scrittura cinese! Il nome stesso di quella campagna [Pi Lin Pi Kong, cioè ‘Criticare Lin Biao, criticare Confucio’], ha scritto Barthes, era come un trillo gioioso. Gli era molto piaciuto assistere a un gioco di bambini nel corso del quale, tutt’a un tratto, una ragazzina con le labbra e gli occhi truccati tagliava in due con una spada un pupazzo di stracci raffigurante Lin Biao. Ma che carini questi cinesi! Io che leggevo i dazipao sapevo che le cose stavano altrimenti, ma cosa mai potevo opporre all’estro di Barthes? Non potevano sospettare qualcosa i telqueliani, visto che loro guide-interpreti li invitavano a non fotografare i dazibao perché, scrive Barthes in questi suoi carnet, erano «affari interni della Cina».

E a parte Barthes, peggio di Barthes, le fantasie ridicole di Sollers, «il libro Donne cinesi che Julia Kristeva ha pubblicato dopo aver trascorso tre settimane in Cina…». Ripensando a quegli anni, non è tanto la mancanza di intelligenza politica che lascia stupefatti, quanto la mancanza di serietà.

*

A mano a mano che conversiamo, gli episodi, gli aneddoti tornano alla memoria; l’impressione è che con poco sforzo, e l’aiuto di qualche ritaglio, RP potrebbe aggiungere un altro lungo capitolo al suo memoir cinese, o addirittura scrivere un altro libro su quegli anni (alla fine mi dice che ci sta pensando, provando anche). La visita di Bettino Craxi, poco più che ventenne, che le canta un nuovo successo italiano, Nel blu dipinto di blu, in piazza Tienanmen. Martin Bernal, l’autore di quel libro folle che è Atene nera, suo compagno di studi a Beida («il padre di Martin, John Desmond, era un famoso scienziato irlandese comunista, e uno dei suoi libri era stato tradotto in cinese. Era venuto a Pechino, ospite del governo, e gli avevano pagato i diritti d’autore in valuta cinese: così Martin faceva la vita del signore»). I due operai italiani mandati dal PCI, del tutto inadeguati alla vita in Cina, incapaci di spiccicare parola, attaccati ai loro piccoli privilegi, intrattabili: «sono tornati quasi subito indietro».

Ma il ricordo più inatteso arriva mentre sto per congedarmi, e mi piace citarlo alla fine di questa cronaca perché riporta al privato, alla sfera dell’esperienza individuale, all’io insomma, una conversazione che ha incrociato troppo spesso gli eventi epocali che ignorano l’io e investono il collettivo, la massa, noi, loro (noi europei di oggi e di allora, loro cinesi di oggi e di allora). Mentre a me – e forse anche a RP – stanno a cuore soprattutto gli individui. Sto dunque per andarmene, e come ringraziamento per avermi voluto ricevere le lascio una copia di un libro che ho scritto con altri colleghi, uscito qualche mese fa. S’intitola Effimero Novecento, parla attraverso vari capitoli tematici dei costumi degli italiani, ed è appunto qui, nel capitolo dedicato all’educazione sessuale nella stampa del dopoguerra, che abbiamo riesumato la rubrica di RP su ABC.

E io? A che cosa avevo dedicato il mio capitolo del libro? Alla scoperta dell’Italia, ho risposto, alla descrizione dell’Italia da parte degli scrittori, nel quarto di secolo che va dalla fine della guerra al Sessantotto. Perché in quegli anni i giornali – i quotidiani ma soprattutto i periodici come Epoca, Tempo, L’Europeo, Il Mondo – presero a mandare in giro per il paese i loro giornalisti-scrittori migliori, in compagnia di fotografi, affinché documentassero la vita degli italiani. Alcuni sono ben noti: da Berto a Pasolini, da Gatto a Piovene, a Bocca, alla Ortese. Di altri ho appreso l’esistenza sfogliando le riviste in emeroteca.

«Per esempio?», mi domanda.

«Per esempio… Per esempio, questo Lamberti Sorrentino… Lamberti, lo so è strano, è il nome di battesimo. Aveva fatto il corrispondente dall’estero per vari giornali, durante gli anni del fascismo, poi nel dopoguerra ha lavorato per Epoca, Tempo e altre riviste. Ma nessuno se ne ricorda più…».

RP resta per un attimo in silenzio a pensare, poi sorride, mi dice «No no, io me ne ricordo». Si alza, va in un’altra stanza e torna poco dopo con una fotografia in bianco e nero: è lei, tra i venti e i trent’anni, seduta in una carrozza ferroviaria. «Lamberti Sorrentino, sì. Quanti anni che non ci pensavo! L’ho incontrato sulla Transiberiana, per caso: doveva essere il 1961, o forse un po’ dopo: gli anni Sessanta, comunque. Questa foto me l’ha scattata lui».

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[1] Piero Calamandrei, Guardare oltre la Grande Muraglia, in La Cina d’oggi, Firenze, La Nuova Italia 1955, pp. 61-72 (a p. 62).

[2] Masi, Ritorno a Pechino, p. 166.

[3] Masi, Ritorno a Pechino, p. 99.

[4] Franco Fortini, Gli uomini devono essere felici, in Cina d’Oggi cit., pp. 342-46 (a p. 345).

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