Ho l’impressione che l’istruzione umanistica all’università stia andando nella direzione sbagliata. Scrivere una cosa del genere suona, se non proprio sciocco, perlomeno superfluo, perché molti hanno l’impressione che l’istruzione umanistica all’università stia andando nella direzione sbagliata: e perciò molti, tra gli incaricati a istruire, i professori, vanno in pensione in anticipo; o benedicono anziché maledire il giorno in cui vanno in pensione; o aspettano la pensione come una liberazione.
Liberazione da che cosa?
Di nuovo, l’elenco è superfluo perché è stato stilato mille volte, e ci si troverebbe a ripetere il solito lamento sugli adempimenti burocratici ormai grotteschi, che tolgono tempo alla didattica e alla ricerca, sull’insegnamento di cose che non varrebbe la pena d’insegnare, sulla corrosione del sapere storico a vantaggio di metodologie per lo più demenziali, sulle promozioni e le lauree concesse a chi non dovrebbe essere né promosso né tantomeno laureato, eccetera. Tra l’altro, uno dei problemi è che si tratta di questioni serie, ma il modo in cui si manifestano è spesso farsesco, così il discorso – che vorrebbe essere pacato, argomentato, rigoroso – scivola subito nell’aneddotico: come descrivere senza ridere l’idiozia della «matrice di Tuning» che ho dovuto compilare nella canicola agostana? Che registro usare, se non quello del comico, per fare il ritratto del candidato all’insegnamento (Lettere) che non sa leggere i numeri romani? Eccetera.
Così, per farsi leggere, bisogna prima di tutto inventarsi una forma. Vittorio Coletti è uno dei nostri più insigni storici della lingua italiana, e ha a lungo insegnato questa disciplina all’Università di Genova. Negli anni ha pubblicato sui giornali parecchi articoli su – in sostanza – ciò che è successo nella sfera pubblica italiana, e adesso li ha raccolti in due volumi usciti per il piccolo editore genovese Il Canneto. Non li ha ripubblicati pari pari ma – appunto – si è inventato una forma, gli ha creato attorno una peculiare cornice narrativa: «Poiché per nessuno dei molti, drammatici problemi che essi pongono – scrive Coletti – ho diagnosi certe e rimedi sicuri, li ho rivisitati dalla prospettiva speciale, tesa e offesa, di figure immaginarie che li affrontano in una situazione personale di crisi e fragilità, evidenziando, con la propria impotenza e sconfitta, la difficoltà o l’impossibilità di una soluzione». Queste figure sono un uomo politico, un prete, una pubblico ministero e un professore universitario di Letteratura tedesca.
«Spero – continua Coletti – che la decisione di inserire argomenti e discorsi tipicamente giornalistici o saggistici dentro una sia pur lieve cornice narrativa e fantastica renda più agevole, se non più piacevole, meno episodica e più continuativa, la lettura di avvenimenti e di questioni terribilmente concreti e pesanti». L’esperimento funziona? In parte funziona, direi: l’insieme risulta leggibile, e dalla lettura continua di queste pagine non vengono fuori quattro visioni delle cose – tante quante sono le ‘figure’ immaginate dall’autore – bensì una sola, la sua, che è la visione, detta in breve, di un intellettuale di una certa età amareggiato soprattutto dal fatto che coloro che ha sempre considerato i suoi alleati – le persone cólte e progressiste – gli paiono comportarsi ora con poca intelligenza e poca serietà: capisce ancora il mondo, ma gli pare che gli altri – e in particolare i suoi pari – non lo capiscano più. In parte non funziona, perché, essendo in fondo non altro che vettori delle opinioni dell’autore, i personaggi hanno poca profondità, e il nucleo saggistico non può che diluirsi.
Il tentativo, però, è interessante. E, tornando alla parte che ho letto con più partecipazione, nella sessantina di pagine dedicate al «Professore», Coletti fa sui dipartimenti umanistici delle università italiane una serie di osservazioni che, deprimendo, consolano; o consolando deprimono, a seconda di come la si guardi. Osservazioni che sembrano potersi riportare a un unico principio, o problema: che i dipartimenti umanistici dell’università hanno perso parte della loro identità di luogo d’istruzione (cioè di insegnamento e di studio) e hanno voluto ridisegnarsi per assecondare quella che è o è parsa essere l’aria del tempo, finendo per diventare dei posti meno liberi di come dovrebbero e potrebbero essere: meno liberi, e quindi meno interessanti, meno piacevoli, e anche meno allegri. Qui la forma del racconto si rivela una forma virtuosa, perché permette a Coletti, che è un professore a sua volta, di dire cose che in un saggio sull’istruzione dall’impianto più tradizionale forse non avrebbe detto, o avrebbe detto in modo meno sincero. Parte della consolazione cui accennavo sta proprio qui: nell’incontro con uno studioso che non dice soltanto cose quasi sempre giuste su quel pezzo di mondo che ci sta a cuore ma lo fa con una voce profondamente umana.
Vittorio Coletti, Figure della crisi 2, Genova, Il Canneto 2024.