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Su Alessandro Gori, “Gruppo di leprecauni in un interno”

Domenicale del Sole 24 ore8 Settembre 2024

Mi pare che negli ultimi anni alcune delle cose più intelligenti siano state scritte da autori che in vario modo si potrebbero collocare all’interno della categoria ‘umorismo’, o ‘comicità’. In sé, è una banalità: tutti sanno che la letteratura anglosassone è piena di bravi o addirittura grandi scrittori che fanno (anche) sorridere o ridere, da Twain a Bennett, da Vonnegut a Sedaris; e non sono testi scritti anche quelli recitati sul palco da certi geniali stand-up comedians che, latitando le guide intellettuali, molti di noi hanno ormai eletto a guru? Ma in Italia, dove la letteratura è sempre stata una cosa terribilmente seria, questo modo o registro comico-umoristico ha avuto meno fortuna o, che è lo stesso, è stato guardato con una certa sufficienza dai lettori professionali. E invece nell’ultimo decennio su questo modo o registro si sono lette cose egregie, cioè non solo divertenti ma anche ben scritte, acute, spesso profonde; poniamo: Lo sbiancamento dell’anima di Rocco Tanica; Siete persone cattive di Edoardo Ferrario; La Sicilia è un’isola per modo di dire di Mario Fillioley; Era meglio il libro di Valerio Lundini; Poverina di Chiara Galeazzi (mi rendo conto di mettere insieme libri molto diversi, tra i quali avendo spazio sarebbe interessante segnare le differenze, ma è un indice dell’ampiezza, cioè della ricchezza del modo comico-umoristico: allargando ancora un po’ le maglie ci possono entrare anche i saggi di Ceccarelli e di Guia Soncini, o i monologhi di Mattia Torre, e parecchio altro).

E poi c’è Alessandro Gori.

Qualche anno fa ho dedicato un lungo articolo ad Alessandro Gori, che allora si faceva chiamare col nomignolo di «Sgargabonzi» (una figura dei tarocchi di Jacovitti). L’articolo s’intitolava Lo Sgargabonzi è il migliore scrittore comico italiano, e argomentava la tesi sintetizzata nel titolo: Gori-Sgargabonzi aveva inventato una forma di comicità raffinata, complicata, adoperando come contenitore i post su Facebook, e nessuno era bravo come lui. Un nuovo mezzo, la rete, aveva prodotto un nuovo tipo di scrittura comica. Quell’articolo ha avuto parecchi lettori, e, come càpita, alcuni sono stati anche loro conquistati dalla scrittura di Gori, altri mi hanno preso per matto. In mezzo, come anche accade, un buon numero di moderati: sì, molto bravo, d’accordo, ma non stavo esagerando?

No, non stavo esagerando. Nei quasi dieci anni successivi a quel mio articolo, Gori (oltre a riacquistare il suo nome di battesimo) ha continuato a usare in modo molto intelligente Facebook ma ha anche saputo emanciparsene passando, per dire così, dalla scrittura più o meno estemporanea, dalle battute più o meno riuscite, alla letteratura. I suoi post si sono trasformati in racconti, apologhi, fiabe. Com’era inevitabile, questo cambiamento di scala ha anche prodotto un cambiamento cioè un arricchimento nell’ordine dei temi e dei registri, e lo si vede bene in quest’ultima raccolta pubblicata da Rizzoli, Gruppo di leprecauni in un interno (il leprecauno è il folletto del folklore irlandese), che fa serie con altre due uscite nel 2018 (Jocelyn uccide ancora) e nel 2022 (Confessioni di una coppia scambista al figlio morente).

«Davanti allo specchio – così suona il brano di un racconto stampato in quarta di copertina – mi chiesi se quello che stavo facendo fosse giusto, se i miei si meritassero davvero tutto questo. La risposta fu che no, non se lo meritavano affatto. Proprio per questo mi sarei sentito in colpa con me stesso se avessi contrastato l’istinto del tutto naturale di infierire su persone inermi». Con l’approssimazione della sintesi, ecco cinque righe abbastanza rappresentative del campionario ‘comico’ – mai virgolette sono state più opportune, come si vede – di Alessandro Gori.

Prima di ogni altra cosa c’è in lui, nelle cose che scrive, la consapevolezza di quanto possono essere crudeli o falsi o ignari di sé stessi o semplicemente stupidi gli esseri umani: consapevolezza preziosa, in tempi come questi in cui la letteratura sembra voler eliminare il negativo, cioè la sua ragion d’essere, proponendosi come una specie di stucchevole catechismo morale. I personaggi di Gori, e lo stesso io narrante, appaiono invece profondamente umani soprattutto nella loro viltà, nella loro ipocrisia: e il sorriso o il riso derivano – come accade nella comicità più intelligente – dalla deformazione caricaturale di tare, di vizi del carattere che in modalità meno abnormi non si fa fatica a cogliere nel popolo dei mostri che si esibisce nella società e in rete. Qui abbiamo per esempio (mostruosità in rete) l’adolescente cretina che racconta su Facebook l’agonia e la morte di suo padre: «Sono già passate alcune ore, ma ancora non riesco ad accettare la morte di mio padre. Penso sia normale. Mettete like se pensate che è normale». O abbiamo (mostruosità nella vita reale) i ristoratori romani che brutalizzano gli avventori non a loro agio con i codici della romanità: «… E guai a chiedergli cos’è la coda alla vaccinara, la pajata o la papalina pure nel momento in cui uno non l’ha potuto cercare in autonomia perché internet in quel tugurio non prende. “Avete per caso il wi-fi?”. “Eh certo, qua siamo Elon Musk. Vai bello, vai…”, e ti accompagnano all’uscita con un calcio in culo».

È un mondo nemico, cattivo. Dove trovare riparo? Nella memoria e nei luoghi famigliari. Nel passaggio dai post ai racconti, e nel maturare, Gori si è scoperto infatti una bellissima vena elegiaca legata ai cari ricordi infantili (i genitori giovani, la scoperta dei giochi da tavolo, le figurine) e, soprattutto, agli oggetti e ai marchi che illuminavano la vita in quell’età innocente, pegno di continuità nel tempo, di durata nell’inesorabile fluire delle cose («Lo Stecco Ducale Sammontana – dice in un’intervista recente – comprato oggi in un bar sulla spiaggia ha lo stesso gusto che aveva nel 1987, mentre le persone care che erano attorno a me allora o non ci sono più o si sono sfasciate sotto ai miei occhi»). Dall’altra parte, alla violenza circostante si rimedia con la fedeltà a certi luoghi-feticcio. «Per quanto riguarda la mia passione per i non luoghi – dice nella stessa intervista – solo quello che è replicabile non ci tradisce, non si ammala, non invecchia, non ci lascia soli. Gli stabilimenti balneari, gli hotel e gli autogrill sono posti deputati a renderci felici mentre pensiamo che la felicità sia da un’altra parte». È l’idea che ispira uno dei più belli tra i pezzi raccolti in quest’ultimo libro, Trattatello definitivo sulla riviera romagnola, che segnalo alla locale pro-loco per un’eventuale campagna pubblicitaria: senza ironia, non ricordo pagine dedicate a un luogo (e mica Venezia o Firenze: la riviera romagnola tra Milano Marittima e Lido di Savio) scritte con un amore così puro, e con tanta intelligenza.

In tutto questo, ci si potrebbe domandare, che cosa c’è di comico? Niente, se il paradigma del comico è la barzelletta, o Fantozzi. Molto, invece, se in questo paradigma entrano anche il grottesco, il sinistro, l’unheimlich, e insomma tutte quelle sfumature di stile che sono così difficili da gestire (nella ricerca dei paralleli, non dei modelli, viene in mente forse soltanto Tommaso Labranca) e che Gori invece padroneggia benissimo, non sempre ma molto spesso (scrive tanto: non è infallibile, a volte stecca, ma basta ignorare le stecche). A un decennio di distanza devo correggere il mio giudizio: non è solo il migliore scrittore comico italiano ma, tout court, uno dei gli scrittori italiani contemporanei più originali e interessanti.

Alessandro Gori, Gruppo di leprecauni in un interno, Milano, Rizzoli 2024.

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