Tra pochi giorni lascerò l’Università di Trento, dove ho insegnato per ventidue anni. In realtà non la lascio del tutto, perché rimango nel dottorato, e per i prossimi mesi sarò ancora il responsabile dei corsi per gli insegnanti dell’area di Lettere; ma insomma, presto non sarò più un dipendente dell’Università di Trento. Nel congedarmi, ho pensato che mi sarebbe piaciuto lasciare scritto qualcosa, sperando che le cose che ho da dire non riguardino soltanto me. Ed ecco.
Per un po’ di anni – più di un decennio in realtà – sono stato il delegato alla comunicazione dell’ateneo. Me lo ha chiesto Daria de Pretis dopo essersi insediata: io la conoscevo molto superficialmente, ma qualcuno deve averle detto che sapevo scrivere bene in italiano, e così ha pensato a me per un incarico che in realtà ha solo marginalmente a che fare con la scrittura. Io le ho risposto no grazie, perché, come le ho detto, avevo la ferma intenzione di morire senza aver occupato mai una carica; lei molto gentilmente ha insistito e io alla fine ho detto di sì. Ed è stato un sì provvidenziale, perché in questo modo siamo diventati amici. Poi Paolo Collini e Flavio Deflorian mi hanno confermato nell’incarico – anche perché è un incarico abbastanza innocuo, che non dà nessun potere, quindi non è particolarmente ambìto: non credo che abbiano dovuto vagliare molti candidati, inimicandosi qualcuno.
Sono stato un delegato molto evanescente, per dirla con gentilezza. Un po’ perché la Divisione Comunicazione marcia tranquillamente con le sue gambe, senza bisogno di uno stratega che le dica cosa fare. Un po’ perché non sono uno stratega, cioè non ho particolari doti di visione, e più in generale non sono un costruttore, uno che prende una cosa che c’è già e la fa diventare un’altra cosa, in genere mi accomodo nella realtà che mi trovo di fronte e provo semmai a migliorarla un po’: correggo i congiuntivi, ma non è che m’invento un nuovo genere letterario. Un po’ perché non sono uno che sa comandare, dare la linea, anzi sono quasi sempre propenso a dare ragione al mio interlocutore: se uno dice ‘si potrebbe fare così’ io in genere rispondo ‘facciamo così, d’accordo’. Quand’ero più giovane pensavo che questo disinteresse per le cose pratiche, per il comando, fosse il segno di una speciale longanimità: non avevo tempo per queste piccolezze. Invece poi – vedendo e ammirando queste virtù in altri – ho capito che si tratta invece di mie mancanze, di lacune del carattere che ormai è tardi per colmare.
Però in questi anni ho trovato alcuni slogan per fare pubblicità all’ateneo o a qualche iniziativa dell’ateneo che mi sembrano abbastanza felici, e uno di questi era «Una casa seria in una terra seria». Che in realtà è la traduzione di un verso del mio poeta preferito, Philip Larkin: «A serious house on serious earth it is». Larkin in realtà parlava di una chiesa, ma a me è parsa anche una buona definizione dell’università di Trento. La terra – o come si dice con una parola ormai un po’ fastidiosa al suono, il territorio – è una terra seria: non si può dire che i trentini non siano seri, semmai lo sono anche troppo: senza generalizzare, non è gente da cui uno si aspetti matte risate. Con gli anni però ho finito per affezionarmi a questa serietà, ho finito per considerarla una virtù più importante di altre virtù più appariscenti, e so che mi mancherà quando mi troverò in luoghi, diciamo, meno seri di questo.
Quanto all’università, anche conoscendone un po’ le magagne, direi che è sicuramente una «casa seria», un posto in cui credo sia bello studiare ed è stato senz’altro bello insegnare. Quando c’è «Porte aperte», due o tre volte l’anno, io faccio sempre un discorsetto in cui esordisco dicendo «Se potete fare l’università, fatela, perché è una delle poche invenzioni umane che non ha controindicazioni, non ha difetti (almeno in sé, come concetto, poi è chiaro che nella pratica i difetti sono mille), sono quattro o cinque anni impiegati a imparare cose interessanti in mezzo a persone interessanti: gli insegnanti, i compagni di corso». È un discorsetto in cui credo, credo che sia bene fare l’università in generale, ma è chiaro che un conto è farla in un posto così così e un conto è farla in una città e in un’università come Trento, una città e un’università in cui a vent’anni penso possa essere molto bello vivere.
Quindi direi che lo slogan era non solo azzeccato ma anche aderente al vero.
Io sono arrivato qui al dipartimento di Lettere, che allora si chiamava facoltà, più di vent’anni fa (molti dei colleghi di adesso non c’erano, molti non ci sono più; qualcuno è morto: e anche qualcuno dei più cari – il mio primo preside è stato Fabrizio Cambi, che era un uomo meraviglioso), e quando sono arrivato ero molto diverso da come sono adesso. Per dirla in breve, ero molto peggiore, sotto tanti punti di vista che qui non serve elencare: ed ero peggiore sia perché a trent’anni si è spesso ancora un po’ stupidi (Larkin diceva che «quanto più sei lontano dalla nascita, tanto migliore sei come essere umano»: come si sarà capito, io sono sempre d’accordo con Larkin), sia perché venivo dalla Scuola Normale, che è un bellissimo posto, ma anche un posto che può darti una falsa idea di te stesso e del mondo, un’idea che poi è faticoso scrollarsi di dosso. Ecco, gli anni che ho passato a Trento credo mi abbiano aperto gli occhi, che mi abbiano umiliato non nel senso negativo della parola, ma nel senso che mi hanno insegnato a capire meglio la realtà (humilis vuol dire anche ‘vicino a terra’, come avrei osservato distrattamente trent’anni fa) e a dubitare delle idee che avevo nella testa, che a volte erano idee balorde.
Dunque credo di essere migliorato, in questi anni, e questa mi pare sia una cosa non unica forse ma rara, nella vita professionale, perché lavorando si imparano, sì, delle cose, ma non capita spesso di cambiare carattere (in meglio, ripeto). Il merito di questo miglioramento è in parte mio, in parte delle persone che ho incontrato qui: in dipartimento, nell’ateneo, in città. Sono persone che nella larga maggioranza sono felice di aver conosciuto, e che mi addolora adesso dover lasciare: e non dico solo le persone che per carattere sono state e sono più vicine a me, i chiaramente simpatici, ma anche quelle diverse da me, i non chiaramente simpatici, persino quelli con cui mi è capitato di avere delle frizioni o – raramente – delle liti. Ecco, tra le cose che dimentichiamo di lodare, quando parliamo dell’università, e dell’università di Trento, c’è questa: quali altri ambienti di lavoro o di vita sono così propizi al perfezionamento individuale?
Quindi avrete capito che la lista delle persone che vorrei salutare con affetto sarebbe troppo lunga, e non posso farla qui. Però voglio dire almeno che in più di vent’anni io ho avuto come presidi o direttori di dipartimento sempre delle persone perbene; con alcuni mi sono trovato più in sintonia, con altri meno, ma credo che tutti abbiano lavorato con grande coscienza, e con una dedizione alla causa della quale io non sono stato e non sarei capace. Voglio dire anche che il mio lavoro è stato non solo facilitato ma reso piacevole, persino allegro, da un gruppo di impiegati e impiegate amministrativi che ho sempre guardato con una certa incredulità, perché fatico a pensare che esistano altrove tante persone che fanno così bene il loro lavoro, e per bene intendo soprattutto il modo in cui il lavoro viene fatto: con intelligenza, buon umore, ironia. Io entro sempre negli uffici del piano terra di Palazzo Prodi o in quelli del terzo piano con molto piacere, e ne esco in genere col sorriso sulle labbra – forse anche perché non sono mai stato direttore di dipartimento: il segreto è non vedere le cose troppo da vicino. Ma insomma: perdere me è doloroso; perdere Rita Rizzi and co. sarebbe fatale, quindi stateci attenti.
E voglio dire infine che a Trento ho trovato ciò che raramente si trova una volta passati i trent’anni, e cioè un certo numero di amici-amici, di persone che, ne sono sicuro, saranno con me (fisicamente, telefonicamente, telematicamente) per gli anni che mi restano da vivere: alcuni sono qui dentro, alcuni sono fuori di qui, perché questa è un’università che consente di incontrare facilmente colleghi o collaboratori che studiano e insegnano cose diverse dalle proprie, ed è una cosa splendida, che non si trova facilmente altrove. Ma insomma, io vado via da Trento non solo con molti cari conoscenti ma con sette-otto veri amici che non avevo quando sono arrivato qui. Di nuovo uno si domanda quale altro ambiente di lavoro offre una possibilità del genere.
E poi ci sono stati gli studenti. Io non ho una speciale vocazione per l’insegnamento. Cioè, faccio lezione meglio che posso, ma potrei anche non farla: tra fare lezione e stare in biblioteca da solo a studiare preferisco la biblioteca. E non mi piace accompagnarmi ai giovani, quello che hanno da dirmi non mi interessa molto. Ma in questi anni a Trento ho incontrato dei ventenni meravigliosi, e tutti i dubbi che ho sulla mia professione (e ne ho) si sono dissolti davanti al maturare della loro intelligenza. Anche questo è un privilegio che ben pochi altri lavori concedono.
Dato tutto questo, uno si potrebbe domandare perché vado via, e la risposta è semplice: perché non potevo dire di no all’Università di Torino, perché Torino è la mia città, che mi piace moltissimo e in cui ho molti amici, e in cui si possono fare delle cose interessanti, e conoscere persone nuove; e in più ci vive mia madre, che è piuttosto anziana. In più (ma questo non sarebbe bastato a farmi lasciare Trento), credo che sia bene cambiare paesaggio, dopo un certo numero di anni, avere più vite dentro l’unica vita che abbiamo (non uso la formula un po’ scema ‘mettersi in discussione’, perché mettersi in discussione vorrebbe dire cambiare mestiere: io sono entrato nel sistema dell’istruzione a sei anni e ne uscirò da morto: le scelte coraggiose sono altre).
Come ho detto, continuerò a impegnarmi nel dottorato, e in ogni altra iniziativa in cui i miei colleghi trentini intenderanno coinvolgermi, e lo farò mosso, oltre che dall’affetto, anche da una certa preoccupazione. Come ci siamo detti più volte, la nostra università sembra essere arrivata a un punto di sviluppo avanzato, oltre il quale sembra difficile andare: per le dimensioni della città, per l’economia, per la demografia, eccetera. E il nostro dipartimento naturalmente è coinvolto in questo processo, e per di più vivrà tra poco un cambio generazionale molto profondo. In più, le nostre discipline sono o sembrano essere quelle che hanno una minore utilità immediata, una minore presa sulla realtà.
Qualche anno fa ho scritto un libretto che s’intitolava E se non fosse la buona battaglia?, riflettendo sulla possibilità che noi – noi che ci ostiniamo a difendere la causa della buona musica, della buona letteratura, della storia, della conoscenza delle lingue e del pensiero – che noi ci stiamo sbagliando, e che abbia ragione il mondo come è, e abbia poco senso voler raddrizzare il legno storto dell’umanità con iniezioni di disinteressata cultura universitaria. In realtà io credevo e credo che questa sia la buona battaglia (e a confermarmi nell’opinione è stato anche il fatto che ben pochi hanno riconosciuto in quel titolo la citazione da san Paolo: la gente non frequenta più i testi sacri…). Non so se sarà possibile vincerla, nel medio-lungo periodo, vincerla nel modo giusto, senza trasformarci al punto da snaturarci, cioè senza smarrire la ragion d’essere dei nostri studi, che non è – e se mi avete seguito unanimemente fin qui temo che adesso saremo meno unanimi – che non è quella di essere una terapia a beneficio dei viventi ma quella di richiamare in vita, cioè di dialogare con l’arte, il pensiero, il linguaggio prodotti da chi ci ha preceduti sulla Terra, cioè con i morti, un debito pagato ai morti, proprio nello spirito della poesia di Larkin che ho citato prima, che finisce così:
Perché qualcuno sorprenderà sempre in sé
il bisogno di essere più serio,
ed è qui che porterà quel suo bisogno,
in questo luogo che, qualcuno gli ha detto,
era propizio un tempo a crescer saggi
anche solo perché tanti morti giacciono intorno.
A dire la verità sono abbastanza pessimista, e se dovessi scommettere scommetterei contro di noi; però io sono pessimista di natura, ma in realtà ho avuto e ho una vita molto fortunata, in cui il mio pessimismo è stato sconfessato più di una volta: e può darsi che quelli che a me adesso paiono problemi insolubili siano solo increspature su cui i futuri abitanti di questa casa seria in una terra seria sapranno scivolare senza troppe difficoltà. Ma lasciando il futuro alle sue incognite, oggi volevo solo dire che vivere questi vent’anni insieme a voi è stato un privilegio: ho imparato un’infinità di cose, ho conosciuto persone interessanti, e mi sono anche molto divertito, ho sorriso e riso parecchio. Se incontrassi il genio della lampada gli chiederei tutte e tre le volte la stessa cosa: farmi ricominciare da capo.