In poco più di un decennio, Guido Vitiello ha modellato davanti al suo pubblico di happy few la sagoma di uno scrittore ormai ben riconoscibile nel panorama italiano. Mi sembra quindi venuto il momento di provare a fargli il ritratto – magari a partire da La lettura felice, il suo libro nuovo e in un certo senso riassuntivo stampato dal Saggiatore.
Per dirla sbrigativamente, le pietre confinarie del terreno d’indagine del nostro scrittore sono da un lato la Mistica e la Fede, dall’altro il Cinema e l’Amore: in mezzo, a collegarli, si stende il ponte dell’emblematica, o dell’antropologia di De Rougemont e Girard. Ma lo strumento e il tema con cui Vitiello saggia il terreno è sempre quello della lettura: non solo in queste sue “Conversazioni con Marcel Proust sull’arte di leggere” (così recita il sottotitolo del volume), né solo quando, in passato, ci si è presentato spiritosamente nelle vesti del “bibliopatologo”, o quando ai suoi esordi si è dedicato a un’analisi etno-teologica del genere del giallo. Studioso versatile e coltissimo, Vitiello interpreta il Mondo attraverso il filtro della Biblioteca: poco importa che si tratti dei sentimenti più intimi, della giustizia forcaiola o di una manovra politicienne alla buvette di Montecitorio.
L’abitudine, senza dubbio, ha anche un’origine generazionale: come molti coetanei, questo autore teme la nudità, e avverte il bisogno di esibire le carte in regola al cospetto di una cultura per la quale il peccato più grave consiste nel mostrarsi ingenui. Ma detto ciò, occorre subito precisare che Vitiello non è un citazionista comune, ossia uno dei tanti pubblicisti risolvibili nella somma ‘Accademia più Pop’, e ipnotizzati da quella brillantezza che negli ultimi decenni è stata troppo spesso confusa con l’intelligenza. Non lo è, tautologicamente, per il suo talento. Ma non lo è anche perché, nei suoi scritti, gli innumerevoli strati del suo patrimonio culturale si legano quasi sempre a una più profonda e direi religiosa esperienza della lettura. Intendo qui la lettura come meditazione, come preghiera o luogo di una weiliana attenzione che se applicata secondo rigorose leggi fisiche trasporta chi vi resiste su un più alto livello di coscienza – il contrario, cioè, di quell’immersione nelle pagine che sfuma in ipnosi e inerzia, producendo fantasticherie irreali.
Vitiello, che all’università insegna Teoria e storia del linguaggio cinematografico, legge perfino i film, come dimostra la sua ingegnosa monografia di qualche anno fa su Psycho. In verità, infatti, nei paragrafi ammiccanti di Una visita al Bates Motel non si parla della reale esperienza che fa lo spettatore del capolavoro hitchcockiano, cioè del flusso d’immagini in cui Psycho consiste, ma s’invita a fissare lo sguardo sui fotogrammi quasi fossero emblemi o quadri. Il cinema, dunque, come sincretistica Biblia pauperum? Viene da pensare che Vitiello, erede di una tradizione che annovera tra i suoi rappresentanti Élemire Zolla, voglia esorcizzare il sonnambulismo ingannevole e antimeditativo indotto da quest’arte, ovvero combattere il nemico smontando la sua montatura.
Tutto insomma, nella sua opera, si presenta come una decifrazione mediata. Da un lato, la sua lettura getta sui materiali profani una luce esoterica; dall’altro i frammenti sapienziali, i riti sacrificali avvolti in un’aura ermetica rivelano all’improvviso l’aspetto prosaico o laicizzato del giallo: e così il nostro scrittore, formatosi anche su Sciascia, da monacale decifratore di testi sacri diventa a sua volta detective. Prima o poi, si pensa allora, doveva per forza comporre un libro in cui il paradigma indiziario oscillasse tra il senso stretto dell’inchiesta poliziesca e quello dell’inchiesta metafisica, e in cui i due sensi s’incontrassero alla fine in una Lettura che come unica soluzione degli enigmi ha appunto il Libro.
Perché in questo modo, si sa, è fatta la Recherche, e anzi tutta la prosa matura di Proust: cioè dell’unico autore moderno che offrendoci un percorso insieme narrativo e iniziatico, e trasformandolo in una metafora poetica totale, somiglia un po’ a Dante – quel Dante che in una civiltà a differenza della sua ancora compatta, ancora al di qua della frammentazione e del relativismo, ritrovava estaticamente “legato con amore in un volume / ciò che per l’universo si squaderna”. Il Libro del dantesco Proust non è quindi il Livre di Mallarmé, che pure non smette di affascinare Vitiello. E’, invece, l’opera di chi ha rifiutato sia le soluzioni naturaliste sia quelle speculari del simbolismo, sia le convenzioni di chi vuole legare l’esperienza umana al “tipico” sia le astrazioni di chi, “pretendendo di trascurare gli ‘accidenti temporali e spaziali’ per mostrarci solo verità eterne (…) disconosce un’altra legge della vita: che è di attuare l’universale o l’eterno, ma solo in individui”.
Per non cadere nelle due trappole, lo scrittore in lotta con il Tempo ha dovuto abbandonare un’idea idolatrica o mondana dello stile, e arrivare a identificarlo con una determinata qualità della visione. Questa consapevolezza, com’è noto, gli è costata un lungo errare. E descrivendo il suo rapporto con Proust, sommo parodista, Vitiello ne parodia a sua volta l’itinerario: lo riflette cioè nel proprio percorso di bambino, di adolescente e di giovane smarrito, che tra le altre insidie, per ironia della sorte, deve schivare anche quella di un proustianesimo troppo precoce e dunque potenzialmente illusorio. A questo punto, però, sarà bene avvisare che la sua parodia si modula anche su un tono differente.
Nel suo intrattenimento autobiografico, mimetico e critico, l’autore versa infatti una buona dose di Gozzano. Lo fa per mantenere un vigile distacco, certo, e mettere le mani avanti da ‘minore’; ma non solo. Avanzando in questa lettura sulla lettura, ci si accorge presto che Vitiello è più sensibile agli aspetti cupi delle epifanie proustiane, anziché a quelli trionfali: più della gioia del ritrovamento, avverte lo sconforto di una perdita irreparabile. Perché le madeleine e i selciati sconnessi ci confermano che non siamo contemporanei di noi stessi, ovvero che ci comprendiamo troppo tardi. Del resto le tracce della cupezza percorrono l’intera Recherche, innervandone anche la sintassi: col suo passo indugiante o ritardante, e col suo trepido abbozzo a spirali, Proust non sembra solo voler tirare a galla quanto più passato è possibile, ma anche rimandare un godimento che sa non poter essere mai completo. Di qui deriva tra l’altro la suspense retrospettiva, l’avvincente detection di chi prova a rivivere una vicenda come se la vivesse per la prima volta – un carattere che Edmund Wilson riconduceva alla matrice di Michelet.
Però il detective proustiano non ha più una trama storica o criminosa data. Ce l’ha invece Vitiello, appunto perché almeno in parte gioca sull’imitatio; nella quale, come accennato, coinvolge lo stesso Proust. Se lo ha letto tardi, ci confessa, è perché per molto tempo ha dovuto sottrarsi a un autore che faceva corpo unico con la vita della sua mamma “proustiana infaticabile” (ora morta: come la madre di Marcel, quando lo scrittore iniziò a elaborare il suo opus magnum). Nella formazione del saggista della Lettura felice, il francese simboleggiava quindi uno strumento pericoloso di seduzione intima e sociale, o magari di castrazione: non a caso, nel romanzo di Marcel indica acutamente la profonda e pervasiva radice parsifaliana.
Ecco allora che, all’interno del percorso di Vitiello, il nome di Proust affiora come una di quelle tracce lasciate cadere all’inizio della Recherche, e destinate a trovare un senso solo dopo un lungo periodo di latenza o di equivoci. E’ un percorso opposto a quello dell’amatissima mamma: a cui il figlio, con inconscia perfidia, regala un computer che a poco a poco l’attira in tutt’altra rete di intermittenze, priva di stratificazioni e punti di fuga, finché la donna si perde nei “mille bisticci effimeri” della mondanità virtuale e smette di leggere, incamminandosi verso una ben più perversa “parte di Swann”.
Ma il primo Proust a entrare in gioco, nel discorso di Vitiello, è quello che terminata la traduzione di Ruskin si avvia a preparare i materiali per il proprio capolavoro (in un certo senso la sua traduzione suprema), e lo fa scrivendo il memorabile saggio sulla lettura. Il saggio è riportato per intero al centro del volume; ma in altre parti, e con altri brani proustiani, viene invece citato e commentato a pezzi in un botta e risposta paratestuale a due colori che l’autore paragona a un progressivo scrolling sul display. Il suo tema, infatti, è anche la lettura all’inizio del ventunesimo secolo, legata a quella dell’inizio del secolo ventesimo da un analogo mutamento di tecnologie e supporti mediatici. Vitiello comincia inquadrando l’epoca delle “sedute spiritiche” e delle “centraline telefoniche”, la Belle époque in cui le nuove invenzioni permettono di catturare le voci facendo apparire vivi e presenti gli esseri umani distanti o i morti.
A questo proposito, l’autore ricorda nell’Ulisse la fantasia di Bloom, che immagina di piazzare un grammofono nelle tombe. Ma nello sfruttare i temi del progresso tecnico, Joyce si mostra al solito un figlio fedele del naturalismo. Proust, invece, va molto più in là: solo lui, commenta Vitiello, sa mostrarci ad esempio, rovesciando le apparenze, che il telefono “ci fa sentire i vivi come fossero già morti”. Io qui aggiungerei Kafka, l’altro grande decostruttore ebreo della narrativa moderna. In una famosa lettera a Milena, commentando proprio la relazione epistolare, Franz la definisce “un contatto con fantasmi”, del mittente non meno che del destinatario, e osserva poi che “A una creatura umana distante si può pensare e si può afferrare una creatura umana vicina, tutto il resto sorpassa le forze umane”. Secondo l’autore del Castello, ogni contatto indiretto produce solo irrealtà, nutre i demoni. L’umanità li combatte con ferrovia, automobili, aeroplano, telegrafo, telefono, ma senza esito: “la parte avversa è molto più calma e più forte (…) Gli spiriti non moriranno di fame, ma noi periremo”.
Ho citato questo passo perché spiega bene ciò che, nelle tecnologie tramite cui si esprimono nuove forme di rappresentazione, sembra anche a Proust irreparabilmente triste. Da molti punti di vista, l’evocazione consentita dal telefono è l’opposto del suo recupero animista dell’esperienza vissuta – così come lo sono la fotografia e il cinema, che Kafka giudica con ostilità angosciata. Il fatto è che a differenza del talentuoso ma volontaristico Joyce, Kafka e Proust, nella loro ascesi connotata dalla passività e dall’attesa, sono anche dei sapienti, e in ogni materialistica trascrizione del flusso della vita umana percepiscono qualcosa di demoniaco appunto perché irreale. Ora, Vitiello parla oggi di Proust da un’epoca (da una generazione) che è di nuovo divisa tra due secoli e due universi tecnologico-mediatici. Proust aveva verificato subito che il telefono offre un’estrema via di fuga dalle fatiche della conoscenza solitaria e della lettura profonda.
Ma adesso, chiosa Vitiello, libri e telefono e film confluiscono sullo stesso schermo. E quando la scrittura migra dalla pagina (mentre il quadro migra… dal quadro) produce una sorta di nube inquinante, indefinita, favorendo una lettura non meditativa ma drogata: lo scrolling serve a scrollarsi da sé. Oggi che tutto è racchiuso nel telefono – la cui funzione più marginale è anzi proprio la vecchia telefonata, sostituita dai monologhi narcisisti dei vocali – di fatica non vogliamo più saperne. Siamo vampirizzati da una magia potentissima, da un Apriti Sesamo irresistibile perché troppo facile da pronunciare. Ma i miracoli facili, Proust insegna, non sono veri: prova ne sia che quasi nulla di ciò che leggiamo/guardiamo/ascoltiamo si deposita più in noi come esperienza vissuta, e dunque quasi nulla si potrà in futuro ritrovare.
Un’esperienza straordinaria e integra, nonché destinata a svolgersi su più piani, è invece quella descritta in Giornate di lettura. Qui Proust mette in scena l’atto del leggere e il suo contesto nei suoi tratti più materiali e più spirituali, analizzando l’influenza degli uni sugli altri. Per esempio, osserva che si può forse mangiare sfogliando il giornale, ma non immergendosi in un libro: infatti “l’atto di mangiare e l’atto di leggere sono incompatibili perché si somigliano troppo” (Simone Weil dirà che molti peccati si spiegano col tentativo d’inghiottire ciò che si deve contemplare soltanto). Ma soprattutto, nelle Giornate lo scrittore spiega meravigliosamente le ragioni per cui i giorni d’infanzia trascorsi nella lettura, cioè in apparenza in esilio dal mondo, si rivelano a posteriori i più ricchi di vita. Ciò che allora, al margine del campo visivo, sembrava inutile, importuno e distraente, si è infatti fissato nella memoria con una vividezza quasi sensoriale: e proprio a causa della marginalità, inestricabilmente legata all’attenzione per una vicenda letteraria della quale al contrario non si ricorda più nulla.
Questa intuizione racchiude già in sé il Leitmotiv del Proust maturo, quello secondo cui le verità non si raggiungono con uno sforzo astratto del volere ma si accolgono: spesso una condizione casuale e provvisoria, o un evento imprevisto, ci regalano una rivelazione che mai avremmo potuto acquistare elaborando un progetto (così, dice Vitiello, in vacanza la gioia della lettura non viene dai libri che ci si è portati in valigia dopo una ponderazione da maniaci, ma dai libri trovati per caso su una polverosa bancarella del lungomare).
C’è però nel saggio un altro motivo non meno importante, e anzi in quel contesto decisivo. Come poi davanti a Sainte-Beuve, l’autore trova qui la sua originalità per contrasto. La fenomenologia proustiana della lettura come meditazione si delinea in rapporto alla concezione di Ruskin, e la smentisce. Per l’esteta e moralista britannico, leggere equivale a immergersi in una conversazione sublime; per Proust, invece, “Al contrario della conversazione, consiste per ciascuno di noi nel ricever comunicazione del pensiero di un altro, ma restando pur sempre solo, ossia continuando a godere della potenza intellettuale che si possiede nella solitudine e che la conversazione dissipa immediatamente; continuando a poter essere ispirato, a rimanere in pieno lavoro fecondo dello spirito su lui stesso”.
La lettura sarebbe dunque, in qualche modo, un’amicizia priva della corruzione che comportano i legami conviviali. E’, insomma, qualcosa di più e di meno di una conversazione amichevole: “si arresta alle soglie della vita spirituale; può introdurci in essa, ma non la costituisce”. Somiglia a un energetico, a uno spunto, o al massimo a un’iniziazione; ma guai a scambiarla per il nascondiglio dove troveremo finalmente il tesoro di sapienza di cui siamo a caccia. Quando “in luogo di destarci alla vita personale dello spirito, tende a sostituirsi a questa”, la lettura diventa anzi pericolosa come un oppiaceo. Anziché spronarci, ci invita ad abbandonare la ricerca; ci convince che la verità non è qualcosa che possiamo tirar su solo dal pozzo della nostra esperienza individuale, bensì una mera cosa materiale, un gioiello prezioso o la soluzione di un giallo annidata in un archivio. E’ così che ci si disabitua ad accoglierla e che si comincia a sostituirla con un surrogato, cadendo in un grave peccato dell’intelletto connesso a tutte le forme di corrività e in particolare al complottismo.
Ma a volte questo peccato ha col complottismo, e con la ‘droga’, un rapporto molto più stretto, e meno pacificamente filisteo. Se la “lettura felice” è quella che introduce a una vita spirituale autonoma, e rende più reale ciò che sta oltre le pagine del libro, la lettura infelice è quella ipnotizzata dalla “gelosia”. Vitiello ha la vocazione dell’etimologista-freddurista, e nel capitolo dedicato a questa ipnosi gioca con evidente voluttà sui diversi significati o echi del termine: sentimento ma anche tipo di finestra, la gelosia riporta nel suo etimo dall’Amore alla Fede (gli zeloti). Prima del Tempo ritrovato, la Recherche racconta la vana ricerca di una verità ‘materiale’ univoca, di una serie di prove che spesso coinvolgono un geloso. Si configura quindi come un “romanzo poliziesco”, sebbene “senza omicidi e forse senza colpevole”. Romanzo che (ci suggerisce l’affabulatore Vitiello, sempre preoccupato di saturare di piccole sorprese ogni poro della sua orazione) presenta alcune svolte decisive del plot nei pressi di certe finestre parigine, proprio come l’archetipo del genere ambientato da Poe nella Rue Morgue: quella di Odette interrogata erroneamente da Swann, e quella della casa in cui il Narratore tiene prigioniera Albertine.
Proust afferma che davanti alla gelosia, come davanti alla malattia e alla morte, non c’è riparo, perché sono più antiche dell’intelligenza: giocando ancora con Dupin, potremmo dire che sono la nostra parte da scimmioni, un po’ omicidi un po’ vichiani. Ma non c’è riparo, nel caso, anche perché il responso della realtà esterna è sempre relativo, sempre ambiguo come un oracolo. La finestra a gelosia, così simile a un testo impaginato, si lascia leggere solo “tra le righe”. La sua lettura, come quella di tanti segni per statuto analoghi, è infelice perché scatena la cattiva infinità dell’interpretazione, che sfocia o nella fantasticheria solitaria o nel dialogo inquisitoriale. Di qui la paranoia, il miscuglio opaco di vero e di falso del complottismo; di qui, ancora, il rifiuto di esporsi nudi alla ricettività passiva, e il tentativo velleitario di costruire la verità da sé come il ragno che Swift e Fumaroli oppongono all’ape – in questo caso un’ape sui generis, disposta a lasciarsi raggiungere dalle intermittenze del cuore. Il ‘ragno’ finisce nel delirio di persecuzione o di elezione, che si rovesciano facilmente l’uno nell’altro perché ugualmente non lasciano essere la realtà imprevedibile che ci viene incontro: da un lato proiettano tutto fuori, e dall’altro compiono tutto dentro – mentre al contrario il soggetto integro dovrebbe accogliere ciò che c’è all’esterno per scavare in sé stesso.
Come ha visto René Girard, nella Recherche il geloso è gemello dello snob. Entrambi sono annichiliti dal desiderio mimetico, l’uno attraverso una mediazione connessa all’innamoramento, l’altro attraverso una mediazione che introduce alla mondanità. La vera lettura – la scrittura – si realizza perciò soltanto alla fine del desiderio, o meglio nella sua sempre provvisoria sospensione. Infatti l’intelligenza che nutriamo coi desideri, ovvero la ragnatela bellissima con cui sublimiamo i nostri escrementi, può unicamente aiutarci a compiere un dovere imposto dall’istinto, ma se a questo istinto la sostituiamo ci allontanerà dal vero: “Quanto al libro interiore di tali segni sconosciuti (…) nessuno poteva aiutarmi con nessuna regola a decifrarlo: perché la sua lettura consiste in un atto di creazione in cui nessuno può sostituirci, e nemmeno collaborare con noi. Quanti si guardano perciò da una tale lettura! E a quali duri compiti ci si sobbarca pur di evitarla! Ogni avvenimento – fosse il caso Dreyfus o la guerra – aveva fornito agli scrittori altrettante scuse per non decifrare quel libro; a essi premeva assicurare il trionfo del Diritto, ricostituire l’unità morale della nazione, mancava il tempo di pensare alla letteratura!”.
Come il telefono, come la vita mondana o la lettura drogata, tutte queste scuse fintamente morali sono risorse dell’io sociale contro l’io profondo che solo, e a suo rischio, potrebbe attingere qualche verità. E’ l’io della teoria elaborata da Proust contro Sainte-Beuve, nel brogliaccio da cui è nata la Recherche. Nella forma proustiana, e in altre meno convincenti, questa teoria volta a distinguere con severità il soggetto che vive e il soggetto che crea l’opera ha sconfitto nel Novecento quella del critico ‘biografico’ delle Causeries; ma da un po’ di tempo, anche a causa della trasformazione mediatica cui si accennava, Proust viene a sua volta sconfitto da uno strano Sainte-Beuve 2.0. Oggi il sociale è social, è fantasticheria virtuale e cinema al massimo grado: ci invita a fondere i due io nel ‘profilo’ e a tentare di continuo una lettura infelice, illudendoci ogni mattina di poter saziare il desiderio attraverso qualche simulacro – il che spiega perché, paradossalmente, adesso quando alziamo gli occhi dallo schermo per conversare con qualcuno scendiamo forse a un livello un po’ più profondo.
Come intellettuale e come scrittore, Vitiello rappresenta molto bene le contraddizioni di quest’epoca. Il taglio più congeniale alla sua prosa è quello dell’inquadratura, dell’ecfrasi che provoca e riassorbe in sé le divagazioni narrative e saggistiche. La sua formazione e il suo lavoro gli confermano che spesso, senza il ritaglio del frame, degli eventi non ci si accorge (i reportage, è vero, possono anestetizzare davanti all’orrore: ma senza le loro immagini, anche se l’orrore si svolgesse accanto a noi, siamo sicuri che lo riconosceremmo?). Inoltre, Vitiello è attratto da quella realtà che è pittura perché apre uno squarcio immediato sul passato, perché lo rende davvero presente in un modo più gentiliano o longhiano che proustiano. D’altra parte, però, non ignora che la tattica stilistica del cacciatore di emblemi, coi suoi dettagli concettosi e iperrealistici, può indurre a una serie di montaggi gratuiti quanto autoritari. Accanto alle molte metafore conoscitive, ossia proustiane, la sua prosa ne ospita alcune più impettite e forse meno necessarie, goliardicamente manganelliane. Vitiello sa che in lui c’è anche uno Swann; sa che nella sua mente si combattono il Catalogo e l’Esperienza, le mnemotecniche e la memoria involontaria, il citazionismo e la fragilità arresa dell’ex ragazzino solitario, il libro come muro difensivo e il libro come filtro o telescopio.
Ma se questo suo ultimo libro è riassuntivo, dipende anche dal fatto che l’obiettivo proustiano indica la direzione giusta, il prevalere di una necessità ormai dolorosamente accolta. Mentre mi godevo le sue pagine deliziose, tra la voce dell’autore e quella di Proust me n’è tornata in mente una terza: quella di Franco Fortini. Per le ragioni qui illustrate, Fortini avvisava che Proust non va confuso con gli svenevoli proustiani, e che è un coraggioso lottatore. Poco dopo aver finito di tradurre le pagine su Albertine scomparsa, in un suo saggio del 1953 poi raccolto in Dieci inverni, La biblioteca immaginaria, il nostro marxista critico più originale e cavilloso ha allineato una serie di osservazioni sulla lettura che credo non stonino a conclusione di questo discorso, tanto più che hanno una coloritura evangelica non estranea né a Proust né a Vitiello, passato come Fortini per un’esperienza valdese.
Vi sono – così sappiamo – libri importanti, capitali, inesauribili; libri di immagini grandi, di verità decisive; libri che vogliono quella virtù d’attenzione di cui ci ha parlato la Weil. Quando li abbiamo letti? Sono passati tanti anni. O ci siamo promessi di leggerli; o di rileggerli. Ci siamo promessi di essere calmi, savi; vecchi, o nuovamente giovani; di sfuggire, chissà per quale miracolo e per quale merito, agli ‘impegni’ della esistenza. Una estate di vacanza se non possiamo altro; un pomeriggio, un viaggio, una malattia. Li leggeremo. Quando partiamo, quei libri rischiano di occupare la parte più importante delle nostre valigie. Talvolta accade che li leggiamo davvero. Allora, se saremo riusciti ad accordare per un attimo il nostro cuore a quello delle parole stampate, ci prenderà uno stupore, quale talora innanzi a un paesaggio o un volto. Così quando parla una musica crediamo di sapere che cosa vorrebbero da noi quelle parole: che non perdessimo più la misura d’amore e saggezza, di speranza o dolore, di riso o demenza che sale, grave o sorridente, su dalle pagine. E’ come se ci si mostrasse per la prima volta la distanza fra la pigrizia verso le apparenze del reale e il risoluto vivere cui invita e allude quella forza di parole, che in sé ha saputo stringere tanti oggetti, spazi e tempi. E come di certe promesse di adolescenza abbiamo imparato a vergognarci o a mutarle in private, in sciagurate scommesse col mondo, così abbiamo imparato a trarre dalla lettura qualche rapido gemito; e ad andar oltre. Talvolta, qualche ragionamento un po’ più complesso, qualche frettolosa sistemazione mentale, un segno in margine alla pagina, una scheda, magari uno scritto. Ma il viaggio è finito, il pomeriggio d’estate porta le voci degli amici. Il libro, concluso o interrotto, si allontana sempre più rapidamente da noi. E se vengono, ma sempre più rare e penose, sere che dissipino il tessuto delle cose da fare, quando molto lontana pare la mattina seguente, ci avverrà di percorrere con lo sguardo il cimitero delle nostre letture, allineate sugli scaffali; quasi chiedessimo uno stimolo ad esistere. Ma per parlare i libri hanno bisogno, come le anime dell’Ade, di bere sangue. Allora esitiamo; non vogliamo sacrificare il nostro scarso sangue; e, qualunque sia per essere il libro sul quale stasera ci fermeremo, ci difenderemo da lui, protetti dall’imminenza del sonno; lo impiegheremo come un passaggio, come un ponte su quelle poche ore. Poi dormiremo. Così passano gli anni. E i libri dei morti ci guarderanno sempre più irraggiungibili, con la tristezza di chi ha detto: ‘Così, non siete capaci di vegliar meco un’ora sola?’.