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Su “La lingua di Petrarca” di Roberta Cella

Domenicale del Sole 24 ore14 Gennaio 2024

Se si domanda a ChatGPT in che lingua parlava Francesco Petrarca, la risposta è la seguente: «Egli parlava e scriveva in lingua latina, che era la lingua predominante per le opere letterarie, filosofiche e scientifiche dell’epoca». Tutto giusto, ma naturalmente tutto anche parziale, quindi un po’ fuorviante. Quanto al parlare, è chiaro che Petrarca il latino lo avrà adoperato in mezzo agli stranieri dotti che incontrava all’università o nelle corti signorili; in famiglia e con il suo maestro Convenevole da Prato avrà parlato non certo il seletto «fiorentino trascendentale», come l’ha chiamato Contini, che leggiamo nel Canzoniere, ma una varietà mescidata del toscano (Migliorini: «toscanità già composita»); ma poi, essendo vissuto per quasi trent’anni nel sud della Francia se la sarà cavata benissimo con il provenzale, forse anche col francese (benché, invitato a parlare alla corte di Giovanni il Buono a Parigi abbia pronunciato la sua orazione in latino, premettendo con modestia che «linguam gallicam non scio»). Avrà alternato gli idiomi a seconda del luogo e dell’occasione, come altri clerici vagantes della sua epoca. Per iscritto, invece, si sa, una severa divisione dei generi: la prosa solo in latino; la poesia in latino e in volgare, ma un volgare più letto (in Dante, nei lirici duecenteschi, nei suoi contemporanei toscani) che realmente esperito nell’uso quotidiano: un volgare che egli volle letterario, cioè stabile, regolato, tanto quanto la lingua latina; non coltivato in laboratorio, ma quasi.

È questa La lingua di Petrarca a cui è dedicato il nuovo libro di Roberta Cella: il volgare poetico del Canzoniere e dei Trionfi. Non è un argomento nuovo, ovviamente: perché oltre ad essere importante in sé, la lingua di Petrarca – attraverso l’imitazione dei poeti e le Regole di Pietro Bembo – divenne norma per generazioni di suoi lettori e imitatori, sino si può dire ai nostri giorni. Ma il modo in cui Cella affronta l’argomento rende questo libro particolarmente prezioso, e utile non solo per lo studioso di Petrarca ma per chiunque sia interessato ad avere una visione chiara della lingua poetica del Medioevo italiano: e dell’approccio storico-linguistico ai testi letterari.

C’è dunque, da un lato, la descrizione obiettiva dei fatti linguistici, facilitata dalla circostanza che, com’è noto, quanto al Canzoniere disponiamo di una copia completa parzialmente autografa e di un discreto numero di stesure provvisorie; e quanto ai Trionfi disponiamo di ampi brani anche questi in stesure autografe. Nel solco degli studi di Vitale, Belloni, Manni, Patota, Cella dà di questo materiale una descrizione ammirevole non solo per competenza e rigore ma anche per chiarezza. Ci sono profili linguistici tanto irti da risultare incomprensibili al non specialista; e ce ne sono in cui sembra che la nomenclatura tecnica venga adoperata più per impressionare che per spiegare. Didatta davvero eccellente, Cella ha la capacità di sciogliere il tecnicismo in un discorso sempre perspicuo. Chi – come lo scrivente, hélas! – impara e purtroppo dimentica in fretta la nomenclatura linguistica (incapsulatori, enjambement anaforici e cataforici, tematizzazione, modalità deontica vs anankastica) trova qui non un glossario, che serve a poco, ma un’argomentazione nella quale tale nomenclatura è messa a partito per una più esatta comprensione della lingua poetica di Petrarca. Inoltre, sempre per la parte didattica, questa ‘lingua d’autore’ non è osservata nel vuoto. La mappa dei volgari nell’Italia del Trecento su cui si apre il libro dà al lettore tutti gli strumenti necessari per misurare la portata dell’innovazione (o della conservazione) petrarchesca: di rado mi è capitato di veder trattata con tanto nitida capacità di sintesi una materia così complessa.

Ma saremmo ancora, con ciò, nell’ordinaria amministrazione, per quanto egregiamente gestita. Il libro ha però due altre caratteristiche degne di nota.

La prima è un’attenzione particolarissima ai fatti grafici e grafico-fonetici: sfruttando gli studi recenti, e in particolare l’edizione del codice degli abbozzi di Laura Paolino e un memorabile saggio di Livio Petrucci sulla scrittura del Vaticano latino 3195, Cella spiega con tutta la chiarezza necessaria usi grafici petrarcheschi che hanno messo in imbarazzo anche studiosi provetti (la nota tironiana 7 che si può sciogliere con et ma che va letta e o ed; sequenze come belli occhi, li arbor, che andranno lette begli occhi, gli arbor, senza falsi effetti arcaizzanti, insomma).

La seconda caratteristica fa tutt’uno con quella che mi pare essere una peculiarità non del libro ma della studiosa, e cioè una sensibilità allo stile fuori dell’ordinario (specie se l’ordinario è il linguista medio, diciamo). Vale a dire che la descrizione obiettiva della lingua è sempre messa al servizio dell’analisi dello stile poetico di Petrarca, con risultati che mi paiono non solo illuminanti ma spesso originali, cioè tali da migliorare la nostra conoscenza non della lingua ma della poesia di Petrarca. Esempi. Le pagine in cui Cella mette a confronto l’andamento «ragionativo o sillogistico» della lirica stilnovista, tutta fondata su connettivi (‘dunque’, ‘perciò’, ‘laonde’, ‘così’) che articolano il ragionamento in «termini di causa-effetto oggettivi», con la forma del discorso petrarchesco, che procede «per accumulo e per associazione, o è scandito da brusche svolte contrappositive segnate dal connettivo testuale ma». Oppure i paragrafi (pp. 100-102) in cui si riflette sulla petrarchesca «polisemia per associazione», ovvero sulla creazione di giunture verbali che sfruttano in maniera inedita il potenziale metaforico di un determinato termine. Oppure un parere sintetico come questo, nel quale, proiettando sul livello psicologico il dato dell’analisi linguistica, si corregge un noto giudizio di Contini: «Nel complesso, il comportamento sintattico dei Fragmenta rivela non una “fioca potenza speculativa” dell’autore (Contini), ma piuttosto la difficoltà dell’io poetico a stringere gli eventi in nessi logici oggettivi (da qui la frequenza della coordinazione e della subordinazione debole), e al contempo il tentativo di definirli (da qui l’alta frequenza delle relative e l’abbondanza dell’aggettivazione, anche in dittologia) e di ordinarli secondo il proprio punto di vista (da qui l’uso insistito delle consecutive e dei periodi ipotetici)».

Come si vede, non è, né potrebbe essere, un’analisi che scarti le spiegazioni tecniche; ma – e torniamo all’aspetto didattico – il volume ha una seconda sezione antologica di testi commentati, e l’annotazione riprende distesamente nozioni e concetti introdotti nel profilo linguistico. Prese insieme, le due parti formano, mi pare, uno dei migliori tra i libri che in questi anni sono stati dedicati alla poesia del Medioevo.

Roberta Cella, La lingua di Petrarca, Il Mulino, 18 euro.

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