Spettacolo

Su “Armageddon” di Ricky Gervais

Domenicale del Sole 24 ore31 Dicembre 2023

La verità la dice il jester, il buffone di corte, il guitto assoldato dal ricco e potente per divertirlo, e nel dire la verità ha anche il diritto di mancargli di rispetto, perché la verità non è sempre piacevole da ascoltare. Lo sapevamo per aver letto le antiche storie dei cavalieri, o le avventure di Bertoldo, ma da una decina d’anni a questa parte lo sappiamo meglio, per diretta esperienza, perché quelli che di mestiere fanno ridere dal palco di un pub o di un teatro (stand-up comedian: non c’è equivalente italiano) sempre più spesso si sono assunti il compito di enunciare scomode o dimenticate verità davanti a un pubblico che è lì per divertirsi, sì, ma più ancora di una buona battuta apprezza una lezione morale (o, che è lo stesso, anti-morale) interpretata con brio, intelligenza, umorismo.

Fenomeno interessante, che ha dato agli stand-up comedian un rilievo anche culturale, uno standing, se ci si passa il gioco di parole, del tutto inedito nella tradizione del genere comico (tra persone informate, le citazioni dai monologhi di Louis CK o Dave Chappelle o Bill Burr hanno preso il posto delle citazioni dai poeti e dai filosofi letti a scuola e all’università: come pochi altri prodotti del pop – qualche film o serie TV, qualche canzone – sono ormai parte di un linguaggio mondiale). Interessante: ma bisogna poi vedere, primo, se questa declinazione del genere permette ancora di raggiungere quello che è pur sempre l’obiettivo principale del jester, che è far ridere; secondo, se l’enunciazione di scomode verità, ammesso e non concesso che ce ne siano ancora, non scolori in quella morte del riso che è il moralismo. Di tal genere sono i pensieri dello spettatore di Armageddon, il nuovo monologo comico di Ricky Gervais uscito a Natale su Netflix. Ma prima di entrare nel merito facciamo, come si dice, un passo indietro.

Ricky Gervais (pronuncia gervèis) si è imparato non ad apprezzarlo ma ad adorarlo ormai vent’anni fa, quando uscì la breve serie comica The Office. Non c’era ancora lo streaming, YouTube era un embrione, perciò gli anglofili si munirono di un oggetto ormai mitologico, il COFANETTO coi dvd, e con l’aiuto dei sottotitoli presero nota di questa rivoluzione comica: un falso documentario, una specie di ibrido tra un gonzo-movie e il Grande Fratello televisivo (che era stato inventato da qualche anno) in cui si mostrava la ‘vera vita’ vissuta in un deprimente ufficio di una deprimente azienda cartaria sita nella deprimente provincia londinese (precisamente a Slough; l’anglofilo colto imparò allora i primi versi di una poesia di Betjeman: «Come friendly bombs and fall on Slough! / It isn’t fit for humans now»). Gervais, che aveva scritto la serie insieme all’amico Stephen Merchant, recitava la parte del capoufficio David Brent. Goffo, insicuro, arrogante, velleitario, spigoloso ma affamato di riconoscimento e di affetto, completamente privo di intelligenza sociale, imbozzolato insomma nel suo Falso Sé, Gervais-Brent costringeva lo spettatore a un esercizio di 7 ore (30’ per 14 episodi) di imbarazzo vicario, esercizio estenuante – la tensione non nasceva dall’attesa della punchline ma della gaffe che Brent avrebbe commesso nei successivi trenta secondi – ma anche terribilmente divertente: non si era mai vista su uno schermo una serie comica così originale e intelligente. Gli americani la rifecero subito in un milione di puntate mettendo Steve Carell al posto di Gervais.

Lo si aspettava, scettici, alla seconda prova. Come creare qualcosa che fosse all’altezza di The Office? E invece, un paio d’anni dopo, la nuova miniserie Extras (due stagioni da sei puntate l’una) era all’altezza, e a tratti persino meglio. Storia di due scalognatissime comparse per la TV e il cinema (una era Gervais), Extras sfruttava in modo intelligente un’idea che allora non era ancora stantia: in ogni puntata, ospitare un cameo di un attore famoso costretto a cavarsela in una situazione comicamente imbarazzante. Lo star-system angloamericano diede una mano, con sapienza e ironia (Kate Winslet faceva la suora anti-nazista, Orlando Bloom il seduttore, Bowie faceva Bowie: in Italia si sarebbe gigioneggiato), ma alle spalle c’era la perfetta scrittura di Gervais e Merchant. Nel quindicennio successivo sono venute altre cose eccellenti: un paio di film geniali (Ghost Town, Il primo dei bugiardi), vari altrettanto geniali monologhi teatrali, fino al successo mondiale (grazie a Netflix) della serie After Life, con cui Gervais ha cominciato a ‘fare sul serio’, cioè a contaminare commedia e tragedia (il protagonista è un giovane vedovo che medita sul suicidio: After Life fa piangere più di quanto faccia ridere).

Lo si preferiva forse comico integrale, indifferente alle meditazioni sul senso della vita, almeno lui (Isherwood: «Il nostro errore tremendo è stato quello di aver creduto nella tragedia: il punto è che la tragedia ai nostri giorni è impossibile. Dovremmo mirare a diventare essenzialmente scrittori umoristici»), ma è comprensibile che maturando, invecchiando (Gervais è del 1961) si vogliano tentare strade diverse, da scrittore, diciamo, completo. Ma adesso questa nuova ora di stand-up su Netflix, Armageddon, mi sembra incappi nelle due nemesi del jester a cui accennavo sopra: non fa tanto ridere; e la sua antimorale si converte in una forma solo più intelligente di moralismo, dove per moralismo intendo non la pruderie, ovviamente, ma il mettersi – sé e il proprio pubblico – su un piano di più elevata consapevolezza rispetto al volgo.

Il fatto è che Gervais si è fatto dettare l’agenda dallo spirito del tempo, cioè soprattutto dalle idiozie del tempo: le pose più sciocche del politically correct, il culto della fragilità, l’ossessione puritana per il sesso, il narcisismo etico degli abitanti di Facebook e Twitter, il fanatismo della cancel culture, il dogmatismo dei discorsi sull’identità di genere, lo zelo puerile intorno al buono o cattivo uso che si fa delle parole, la retorica della fine del mondo (l’Armageddon, appunto)… Tutte le risposte che Gervais dà a questo repertorio delle idiozie correnti sono ovviamente spiritose (parliamo sempre di un fuoriclasse), e sono giuste: ma sta appunto qui il problema.

Da un lato, il pubblico che va a vedere Gervais o che lo guarda su Netflix non solo si aspetta quei rant ‘scorretti’ che gli vengono rovesciati addosso ma ne condivide lo spirito, e anzi è abituato a sentire o leggere ben di peggio in rete, sicché fa persino tenerezza sentire Gervais che avvisa: «Questa non la dico perché è troppo forte… Qualcuno rimarrà turbato…». Ma chi ancora resta turbato da qualcosa? Non è chiaro che fanno tutti finta, tanto i fanatici della correttezza quanto i fanatici della scorrettezza?

Dall’altro lato, avere ragione e volerla spiegare a un pubblico consenziente («Ci sono solo due sessi», applauso; «Un dogma per definizione non è progressista», applauso) finisce per fare sì che l’umorismo si colori del suo contrario e diventi oratoria, predica. Forse lo spirito del tempo dovrebbe proprio sempre rimanere fuori dalla porta. Forse – almeno in quest’epoca così satura di presente, e così rumorosa – la commedia dovrebbe adottare lo stesso vincolo della tragedia, ignorare il contingente e riflettere, comicamente, sui pochi fondamentali della vita umana: nascita, morte, sesso, corna, deiezioni. Una volta, negli show comici più triviali, arrivava il momento dei fart jokes. Non tutti, certo, ma alcuni erano bellissimi.

 

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