Ho avuto da ragazzo una grande passione per i libri di Bret Easton Ellis. Oggi, dopo aver terminato il suo nuovo romanzo, vorrei provare a capire perché mi sia piaciuto e mi piaccia così tanto; nel sospetto che le ragioni del mio amore possano almeno in parte coincidere con quelle di chi invece non lo sopporta, e certo non sopporterà questo mattone di quasi settecentocinquanta pagine: un Ellis al quadrato, autoreferenziale e manieristico, purissimo Ellis che si rilegge, riscrive e riscopre.
Proprio Le schegge può costituire un buon banco di prova per mettere a fuoco l’identità formale e psicologica del suo autore. È un romanzo che mobilita, in un esercizio di autocitazione esplicita, tutto il repertorio formale e l’immaginario che Ellis aveva sciorinato nei suoi libri precedenti: una cosa che capita a volte agli scrittori bolliti, oppure ai grandi scrittori. Da Meno di zero e Le regole dell’attrazione vengono il tempo e lo spazio narrativo – Los Angeles, inizio anni Ottanta – come pure l’idea di un affresco o meglio di una foto di gruppo (tra adolescenza e giovinezza, tra liceo e università). Da American Psycho viene la figura del serial killer, che in Ellis sempre allude al consumo compulsivo e al desiderio insoddisfatto (possiamo chiamarlo capitalismo, se ci fa sentire meglio); da Glamorama l’idea di personaggi che sembrano agire recitando, come inchiodati a parti ben rodate, fissate in sceneggiature, alcune segrete, altre contraddittorie; protagonisti che si sdoppiano, suggerendo diversi livelli di realtà. Bianco, d’altra parte, aveva collaudato (insieme al dialogo tra libro da scrivere e podcast da registrare) gli inserti di critica di costume, culturale e politica narrativo – lo sguardo sociologico, impietoso sul presente, che nelle Schegge è integrato al racconto del passato. Infine, Lunar Park e Imperial Bedrooms avevano predisposto l’impalcatura autofittiva che anche nelle Schegge fa di uno scrittore di nome Bret Ellis il personaggio, il protagonista, il narratore stesso di vicende che sembrano rubare dall’esistenza empirica dell’autore un numero imprecisabile ma apparentemente elevato di dettagli (a cui però puntualmente si mescolano episodi straordinari, esorbitanti, in qualche caso esplicitamente soprannaturali: una realtà dettagliatissima di nomi propri, marchi e toponomastica esatta è sempre impregnata di sogni, incubi, visioni – e viceversa).
Ma l’attrazione per Ellis, e per le Schegge in particolare, non dipende certo dal meccanismo citazionistico (anzi, sospetto che gli adepti di questo scrittore non siano particolarmente sensibili ai giochetti metaletterari). Piuttosto il primo e più superficiale motivo del mio trasporto attiene forse al piano banalissimo dei contenuti. Nei romanzi di Ellis, e le Schegge non fa eccezione, trovo interessanti innanzitutto gli oggetti poetici. Alcuni generali e per così dire categoriali: la bellezza fisica come qualità suprema (e come condanna); le dipendenze – dalle droghe, dall’alcool, dagli psicofarmaci, dal sesso – come spia di una lacuna che niente può colmare; la perversione (nel senso etimologico di allontanamento dalle norme sociali e morali riconosciute e condivise). Ma sono attraenti anche altri oggetti meno strutturali e più concreti, spicciolati nell’arredamento del racconto. Luoghi fotogenici come le piscine e le spiagge, gli hotel e i club. Certi vestiti, certi accessori, certe macchine sportive (nelle Schegge ad esempio hanno un forte rilievo una Porsche 911 nera e una Nissan Datsun rossa, se penso ai Suv e ai crossover che si vedono in giro adesso mi viene da piangere). Altri ancora sono oggetti prettamente culturali: alcuni film (soprattutto New Hollywood), alcuni brani musicali (soprattutto New Wave) apparsi tra la fine degli anni Settanta e i primissimi Ottanta: tutto un new che il tempo ha reso molto vecchio, ma che aveva, e conserva, una precisa identità spirituale:
All’epoca i film erano una religione, potevano cambiarti, alterare la tua percezione, potevi protenderti verso lo schermo e condividere un istante di trascendenza, in quella chiesa tutte le delusioni e le paure venivano spazzate via per qualche ora (…). Eri un voyeur seduto nel buio a guardare cose segrete, perché questo erano i film – scene che non avresti dovuto vedere e che nessuna delle persone sullo schermo sapeva che stavi guardando.
La vicenda principale delle Schegge si apre così, in un cinema di Los Angeles, con la proiezione di Shining, il film di Kubrick del 1980. Impossibile non registrare che molte delle opere, oggetti e situazioni di cui stiamo parlando sono legati a un’epoca precisa, e che guarda caso è l’epoca della mia infanzia. Le schegge – lo ha notato Paolo Landi – è anche, a suo modo, un romanzo storico. Il che può spiegare una forma di fascinazione per così dire generazionale, un effetto-nostalgia in chi è nato tra la fine dei Sessanta e i primi Ottanta. Eterno rimpianto di quando si era giovanissimi, ricordo preciso di un momento in cui – come dice il narratore delle Schegge – «erano il sesso e i romanzi e la musica e i film a rendere la vita sopportabile – non gli amici, non la famiglia, non la scuola, non la scena sociale, non le relazioni».
Chissà se è così anche oggi. Ma di sicuro i contenuti del romanzo non bastano a spiegare – non sono loro la vera ragione del mio amore. Tantissimi scrittori (boomer?) nel corso del tempo hanno parlato più o meno delle stesse cose di cui parla Ellis, ma per me solo lui – oltre ad Andrea Pazienza, che a Ellis sento molto vicino – lo ha fatto così bene. È chiaro che questi oggetti, personaggi, luoghi o situazioni ricorrenti non sarebbero ai miei occhi veramente e letteralmente poetici se a rappresentarli non ci fosse uno stile individuale, riconoscibile, insostituibile. In una recente intervista a «Le Monde» proprio Ellis, dopo aver sottolineato che che nei romanzi «tutto è nello stile», dichiara di sentirsi ormai proprio per questo parte di una minoranza di scrittori e lettori. E tra parentesi: anche la poetica di Ellis mi interessa e mi appassiona – questa sua fede nella forma che ricopre come uno smalto le cose e le passioni che ci interrogano di più, mentre le rende al tempo stesso eccitanti e spaventose. Non consiste proprio in questo lo stile di Ellis, alla fine? Fuori freddo, dentro caldo; «un misto di arrapamento e paura». Non credo sia un caso che alcune delle sue migliori performance stilistiche germoglino intorno a situazioni attraenti ma pericolose – come può essere pericoloso un corpo molto bello («Non si trattava tanto del fatto che desideravo conoscere Robert Mallory quanto della sensazione che lo conoscevo già»), un falso sé («Tu lo sai che mio marito è frocio?»), uno psicofarmaco («un breve moto di soddisfazione – la fioritura iniziale del Valium»). Questa è sicuramente una delle ragioni del mio amore per Ellis: fin dall’inizio ci ha regalato alcuni splendidi – nel senso di attendibili e profondi – paesaggi contemporanei. Paesaggi fisici: «la giornata sarebbe stata liquida, ogni cosa luccicante nel bagliore del Quaalude». Ma anche paesaggi psicologici, per conseguire i quali ha speso la virtù somma del romanziere, ovvero la voglia e la forza di dire la verità – una verità che non necessariamente coincide con quelle del giornalismo, della filosofia, della morale corrente; che non coincide, soprattutto, con le banalità convenzionali dei romanzieri scarsi.
Ad esempio, mi piace molto che il diciassettenne protagonista e narratore delle Schegge venga abbordato dal padre della sua fidanzata, un produttore cinematografico di fama che lo attira in hotel con la scusa di comprargli una sceneggiatura, e ne derivi quella che oggi verrebbe definito non so bene se un ‘rapporto non negoziato’ o una ‘molestia’ o addirittura una ‘violenza sessuale’. Quanto a Ellis (per inciso, uno dei migliori narratori di sesso della letteratura occidentale), beh, per lui l’eros è violento per definizione. E quindi il narratore si riveste, fa un salto in bagno e reagisce così:
Bagnai un Kleenex e mi pulii di nuovo finché non ci fu più sangue. Mi lavai la bocca con acqua tiepida e poi mi guardai allo specchio. Avevo un’aria non solo notevolmente composta, ma come se avessi portato a termine qualcosa – non era quello che volevo ma non era stato neanche così male. Era stato okay.
Mi piace, certamente, questa capacità autenticamente romanzesca di prendere una situazione tipica, a forte rischio di patetismo, e mostrarne freddamente il nucleo profondo, antisentimentale (a Bret il produttore non piace particolarmente, ma gli piace, e molto, il fatto di piacergli; la verità è che finge con la figlia, sua legittima fidanzata, molto più che con il padre, predatore sessuale). Il talento per la verità spiacevoli, Ellis lo ha sempre avuto – ma nelle Schegge è come maturato, narrativamente irrobustito. In Meno di zero c’erano luoghi, oggetti e personaggi, ma non una storia articolata, né una regia complessa; «c’erano scene ma non aveva una vera e propria trama». A essere raccontato attraverso gelidi correlativi oggettivi era soprattutto uno stato d’animo – «un comportamento distaccato che non era esattamente indifferenza; era proprio insensibilità» – e un tono generale della comunicazione interpersonale: un tono «sordo, divagante». Quel sentimento e quel tono tornano nelle Schegge, come torna l’epoca in cui sono nati:
Volevo essere come Susan Reynolds. E volevo anche scrivere in quel modo: l’insensibilità come sentimento, l’insensibilità come movente, l’insensibilità come ragione di esistere, l’insensibilità come estasi.
È forse questo ‘sentimento’ e questo tono, che mi piacciono, in Ellis? Sì, sicuramente, fin da Meno di zero. Ma nelle Schegge ancora di più, perché più di prima quel sentimento informa una psicologia composita, un’autocritica e soprattutto un ritmo.
Proprio il ritmo narrativo – lento, fluido, avvolgente – è una delle cose migliori e più nuove delle Schegge. In una recente, bizzarra stroncatura che in sostanza accusa Ellis di non essere Arminio («invece di offrire un antidoto, un sollievo dalle brutture del mondo, le abbraccia e implicitamente le giustifica»), viene stigmatizzato tra le altre cose il fatto che i personaggi del romanzo siano tutti bianchi, privilegiati e molto ricchi. Ho pensato istintivamente che alla Recherche si potrebbe muovere un’obiezione analoga – ma soprattutto mi sono reso conto che c’è qualcosa di effettivamente proustiano nelle Schegge. Non solo perché descrive un mondo sociale minuscolo per dedurne moventi profondi validi per tutti. Non solo perché documenta, insieme alla caduta delle illusioni («il mondo non si piegherà ai tuoi desideri»), la nascita, proprio contro il mondo, della propria identità di scrittore. Né solo perché racconta, nelle pieghe del racconto, del farsi di un libro è che quello che stiamo leggendo:
Gli avrei spiegato che cosa avevo in mente – un ragazzo, i suoi amici, la vita dei giovani di L.A., seducente, un po’ bisex, droghe, un omicidio, inseguimenti, violenza e spargimenti di sangue, un mistero che il ragazzo risolve oppure no, preferivo un finale pessimista ma potevamo anche farne uno ottimista, gli avrei detto, su quello potevamo trattare.
Proustiano Le schegge lo è anche perché – col suo periodare lento, le ripetizioni volute, il tratto spiraliforme – attraversa un bel po’ di tempo perduto e sprecato per andare al nucleo di una vocazione letteraria, cercando di mettere insieme tutto quel che di sé si è scoperto scrivendo. Come in Lunar Park la trama horror-thriller – che funziona benissimo, e resta avvincente fino alle ultime pagine – non è più che un pretesto per raffigurare dinamiche psicologiche stratificate che un cattivo scrittore non vorrebbe conoscere, e che uno scrittore meno dotato rischierebbe di spiattellare. Invecchiando, Ellis è diventato Bret, più o meno come Proust è diventato Marcel (naturalmente entrambi si affretterebbero a smentire, o perlomeno a precisare che lo sono solo in parte) – il prezzo da pagare per la sincerità è stato rivivere nella scrittura il proprio passato per arrivare a reinventarlo e finalmente dargli senso. In American Psycho, il prezzo da pagare era stato soltanto diventare Patrick Bateman.
Qualche esempio, tratto dalle Schegge. Per raccontare quell’apatia che è da sempre la sua più profonda musa ispiratrice, Ellis l’incarna nella ragazza più attraente del liceo, la più distante e inarrivabile, ossessionata dal controllo, a cui verso la fine del libro fa tranciare di netto il seno destro da un intruso afasico dai denti digrignati. Per parlare dei ‘problemi coi genitori’ – una delle piaghe verbose e melense della narrativa italiana di oggi – decide di eliminarli del tutto dal racconto, senza troppe lagne, facendoli partire in vacanza per un mese (perché se i genitori sono assenti e egoisti e sciroccati e non conoscono i figli, i figli sono più egoisti e sciroccati ancora, e non conoscono neppure se stessi):
Quei lividi sembravano così strani, ma sarà stato il surf». Mi limitai ad annuire, per tranquillizzarla. Sapevo che Matt non surfava, eppure Sheila credeva che suo figlio fosse un surfista, e compresi con una scioccante e intima inappellabilità che Sheila Kellner non conosceva davvero suo figlio. Ma questo mi rammentò che nemmeno io lo conoscevo – non lo conosceva nessuno.
Non solo Ellis non è Arminio, non è neppure Tondelli – a lui la vita non basta; il suo modo per raccontare la fine del suo primo vero amore è quello di farlo massacrare da un serial killer sadico e brutale che la stampa chiama The Trawler (Culicchia traduce «il pescatore a strascico», avrei forse preferito «Il peschereccio»). Costretto a nascondere in pubblico la propria omosessualità, Bret proietta la parte oscura e narcisista che lo tormenta in un ragazzo carismatico, manipolatore, omofobo, insieme aggressivo e autolesionista («era come parlare a uno specchio»); qualcuno da cui è attratto e respinto, qualcuno da abbracciare o con cui duellare («Abbassai lo sguardo e vidi che stringeva in pugno un coltello da macellaio. E poi lui vide il coltello che impugnavo io»). E infine: risalire all’origine del proprio desiderio per i maschi significa per Bret ripercorrere dall’inizio e per intero la storia antica e sempre nuova della propria estromissione – un ragazzo e una ragazza amici suoi, bellissimi, che stanno insieme e sembrano felici e quindi lo trascurano, gli vogliono bene e lo assecondano e quindi lo feriscono. Verrà fuori che quei due, Susan e Thom, non erano poi così felici, ma non per questo la sua esclusione sarà meno reale (da allora per lui desiderare significa odiare la realtà):
Ero giunto alla devastante conclusione che dovevo ancora incontrare un uomo con cui desiderassi di vivere il resto della mia vita come lo avevo desiderato con Thom Wright. Erano passati quarant’anni e non ne avevo mai trovato uno, perché a un certo punto mi ero reso conto che un uomo simile semplicemente non esisteva.
Ecco, questo mi piace soprattutto di Ellis: più delle sue auto e delle sue canzoni, più dei suoi dialoghi perfetti e delle sue perfettissime scene di sesso. Mi piacciono da sempre i suoi fantasmi e quindi i suoi segreti, il modo in cui prendono forma sulla pagina – e adesso mi piace come sono invecchiati, la compassione con cui hanno preso coscienza di sé («Se quelle canzoni parlavano, come un tempo avevo pensato, di un bambino che diventava uomo, ora parlavano anche, per il cinquantaseienne che ero, di un uomo che era rimasto bambino»). Mi piace e anzi mi commuove verificare come al centro e al fondo di questi mondi narrativi ‘per adulti’, corazzati di freddezza e di disperazione, ci sia il mistero di un ragazzino intelligente, bugiardo e molto solo, cresciuto spiando la bellezza dei suoi coetanei e sentendosene sempre dolorosamente escluso.