Da ragazzino, d’estate, facevo un po’ di montagna e un po’ di mare insieme ai miei genitori: la montagna, cioè la mezza montagna in Val di Susa, nella linda cittadina di Coazze; il mare nella casa dei nonni paterni, vicino a Messina, nell’entroterra ma non lontano dal mare. L’evento clou dell’estate a Coazze era la festa del paese, che aveva luogo in un giorno specifico che non ricordo, ma era preceduta da una preparazione di settimane, con mercatini di cibi tipici e cianfrusaglie varie, tombole, riffe, tornei di calcio amatoriale, iniziative benefiche e, soprattutto, le giostre.
Erano giostre elementari, niente a che vedere con i colossi multipiano di oggi. Arrivavano con le loro roulotte due o tre famiglie di girovaghi, si mettevano al lavoro e in capo a un giorno e a una notte ecco che sulla piazza del paese venivano montati il bruco, la pista per gli autoscontri, un minuscolo ottovolante, il calcinculo, oltre naturalmente agli stand col tirassegno, il punching-ball, le bocce coi pesci rossi. In questo minuscolo luna-park si passavano ore, tutte le sere. Cosa facessimo, cosa ci dicessimo, soprattutto, in quelle compagnie di ‘amici’ tutti poi presto dimenticati, non saprei dirlo: è incredibile quanta vita si dimentichi, durante la vita, anche molto prima che sulle sinapsi scenda il velo della vecchiaia.
Le giostre in realtà non contavano molto, già allora sembravano, a noi ragazzi di città, giostre buone per gente di campagna che non aveva mai visto il mondo (le TV private e internet hanno piallato le differenze tra cittadini e provinciali, ma quarant’anni fa queste differenze si percepivano ancora ben nette nel modo di parlare, di vestirsi, di pensare alla vita): si compravano i gettoni, ci si saliva, in genere a coppie, con l’aria blasé di chi d’accordo, ormai che è lì si abbassa a partecipare a questo rito sociale, ma sia chiaro che… Le cose che contavano – e che infatti restano memorabili anche a distanza di anni – erano altre due: le canzoni che uscivano dagli altoparlanti, tra un «altro giro altra corsa» e l’altro; e le occasioni d’incontro tra ragazzi e ragazze che l’Evento-giostre favoriva.
Le ‘canzoni dell’estate’, insomma, le decidevano i giostrai. Perché, come sa chi c’era, durante l’anno le canzoni non è che si ascoltassero molto. C’erano i dischi, che però costavano; i juke-box, costosi anche quelli, e non aggiornati; i passaggi alla radio o in TV, che però non erano recuperabili una volta, appunto, passati; non altro. Sentire una canzone ad alto volume in uno spazio pubblico era una cosa abbastanza rara da essere attivamente cercata, e da radunare un pubblico. Così c’è stato l’anno in cui i giostrai hanno spinto Non sono una signora della Bertè, quello in cui hanno spinto Da-da-da dei Trio, l’anno in cui mettevano sempre On my own di Nikka Costa (che nelle serate coazzesi diventò subito Oh mmado’) eccetera.
Ora, non la canzone ma una delle canzoni dell’estate 1980 fu Io ti voglio tanto bene di Roberto Soffici. Bella, bisogna ammetterlo, proprio no. La musica era un motivetto da pianola Bontempi; le parole erano «io ti voglio tanto bene» in loop, con vari «nananà» d’appoggio, e una trama che dire asfittica è poco: lui le vuole tanto bene e la prega di stare sempre insieme a lui, fine. Ma chi conosce le vie del cuore, quando s’intersecano con quelle del mio orecchio ineducato di novenne? La canzone mi sembrò subito bellissima, poeticissima, e soprattutto (vedi sopra: la seconda cosa che contava) mi pareva fornisse l’occasione perfetta per dichiararmi a Clara (bel nome antico), la novenne o decenne della quale ero teneramente innamorato. Il piano era questo: incontrarla per caso davanti agli autoscontri, temporeggiare fino al successivo passaggio di Io ti voglio tanto bene negli altoparlanti della giostra e poi, al ritornello (ma la canzone era praticamente tutta un ritornello), indicare l’altoparlante facendo una faccia significativa. E poi ovviamente bacio, fidanzamento, matrimonio.
Perché, si domanda giustamente il lettore, stando sempre nel genere ‘dichiarazione d’amore’, Io ti voglio tanto bene e non invece Ti amo di Umberto Tozzi, che era uscita tre anni prima ed era stata il disco dell’estate e aveva venduto e avrebbe venduto vagonate di dischi? Perché Ti amo, come avevo confusamente capito, forse a seguito di una vaga spiegazione datami dai miei genitori, era una canzone sessuale. Per prima cosa, ‘amare’ era una cosa che facevano gli amanti, ti amo se lo dicevano gli amanti, non i figli ai genitori e i genitori ai figli: tra loro si volevano bene. Nei film, la frase ti amo preludeva allo stendersi insieme su un letto, o almeno al limonare (non era ancora l’epoca dell’inglese non doppiato, e nemmeno della sdolcinatezza di massa, nei telefilm americani non c’erano ancora i bambini che dicevano I love you alle mamme prima di prendere il bus per la scuola). E di fatto, alcuni passaggi della canzone di Tozzi alludevano indubitabilmente a qualcosa che aveva a che fare con l’atto sessuale: il letto («nel letto comando io»), la stanza da letto penombrata («Vesti la rabbia di pace / e sottane sulla luce»), nonché liquidi organici («dammi il tuo vino leggero») e soprattutto – ma l’avrei capito solo anni dopo (ma l’ho capito veramente? O sovrainterpreto per malizia? Parlino gli studiosi) – la penetrazione anale («L’amore che a letto si fa / prendimi l’altra metà»).
Invece il testo di Io ti voglio tanto bene stava serenamente al di qua della linea del sesso. Lui vuole averla sempre vicino («Sarebbe troppo bello sempre averti vicino a me»), al massimo le chiede di stenderglisi accanto la notte, vuole solo accarezzarla («Al buio, di notte, accarezzare te»), soffre ogni attimo che trascorre senza di lei («Mi sento molto male sempre quando tu non ci sei»), e le parole per corteggiarla le sceglie proprio dal più trito repertorio canzonettistico: «bello il sole, ancor più bella tu sei», «rubare gli occhi tuoi», «io vorrei darti il cielo perché il cielo tu sei», «tu sei tutto, più di quanto vorrei». L’unico verso un po’ ambiguo, «Fammi entrare, ti voglio amare, ti voglio tanto bene» era disinnescato dal verso precedente, che toglieva ogni dubbio: «Dentro casa tua ci verrei». Vuole entrarle in casa, non pensate male.
Ora, tutto questo immaginario, assemblato da un uomo di trentaquattro anni, era ovviamente l’immaginario naturale, nativo del pre-adolescente che ero, onde il rispecchiamento su scala 1:1, onde la convinzione che le parole di Roberto Soffici, insieme alla mia faccia significativa, mi avrebbero dischiuso le porte del petting. Come andò? Come doveva. Clara non si presentò alle giostre né la prima sera né la seconda; la terza era l’ultima utile, ma il giostraio non aveva messo Io ti voglio tanto bene in scaletta. Il quarto giorno partimmo per il mare – i miei genitori, io e il mio cuore spezzato – e l’anno dopo chissà quali altri fantasmi mi sono messo a inseguire: non Clara, comunque, che però saluto caramente, se ancora campa. (È sicuramente un segno, e come tutti i segni andrà interpretato, il fatto che dopo quarant’anni e passa Clara ritorni, non in carne e ossa ma come puro nome, nella canzone dell’estate 2023, Aranciata, di quel giovane prodigio che è Madame).