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Su un’antologia di saggi di Gianfranco Contini

Domenicale del Sole 24 ore23 Luglio 2023

Uberto Motta ha curato un’antologia dei saggi di Gianfranco Contini e prima ancora di aprirla vengono spontanee due domande: come mai ci si è pensato soltanto adesso, a più di trent’anni dalla morte del grande studioso? E come mai a stamparla non è il suo editore storico Einaudi, l’editore per il quale Contini ha lavorato anche come consulente e direttore di collana, bensì Carocci?

Come che sia, Una corsa all’avventura. Saggi scelti (1932-1989) riporta in libreria uno dei più grandi critici letterari del ventesimo secolo, e lo fa appunto non nella forma della sezione cronologica (così i volumi di Esercizî sgranati tra il 1939 e il 1998, anno d’uscita dei Postremi) né in quella della monografia (così i volumi dedicati a Dante, Montale, Gadda) bensì in quella dell’antologia: ciò che è meglio e – insieme e soprattutto – ciò che è più idoneo a rappresentare, a testimoniare la straordinariamente versatile attività critica di Contini.

L’introduzione di Motta illustra largamente, e in maniera esemplare, l’uomo e l’opera. Esemplare nel senso che in meno di cento pagine Motta articola con sicurezza, e con un ammirevole dominio della bibliografia, un discorso che si svolge su tre piani: i fatti della biografia di Contini, la sua formazione intellettuale, il significato della sua opera. Su tutti e tre i piani si potrà ancora molto riflettere, anche per dissentire, ma non prima di aver sostato a lungo su questa Introduzione. Un ritratto di Contini a figura intera non era facile da scrivere; meno facile ancora scegliere i saggi da antologizzare, ma anche qui Motta ha avuto la mano felice. Cosa manca all’appello, tra i necessari? Pochissimo: forse qualcuno dei magnifici cappelli introduttivi ai Poeti del Duecento (perché Contini era capace non soltanto di grandi analisi ma anche di grandi sintesi, e per esempio ha – se non proprio coniato – portato a perfezione il genere della nota introduttiva, del ‘cappello’ al testo: dalle Rime di Dante ai profili d’autore nella storia della letteratura scritta per la Sansoni); forse i Preliminari sulla lingua del Petrarca (meglio del saggio sulle correzioni del Petrarca volgare); forse il saggio su De Sanctis premesso alla scelta degli Scritti critici del 1949: non altrettanto significative le pagine occasionali su Croce e De Sanctis del 1952 (mentre non si sentiva il bisogno delle pagine su Pizzuto: ma d’accordo, a documentare un ‘caso’). Ma ciò che è fondamentale del Contini critico c’è, e così si riaffacciano ben note ma anche talvolta dimenticate ragioni d’ammirazione. Per esempio: non ci si ricordava, ad anni di distanza dalla prima lettura, quanto è rigorosa e in fondo per una volta limpida l’argomentazione che fa procedere il saggio su Pascoli da un’acquisizione critica all’altra, sempre più acuminata; non ci si ricordava con quanta intelligenza e misura, nei saggi danteschi, viene maneggiato il concetto di polisemia, in seguito abusato da critici più corrivi. Ma è chiaro che non si finirebbe più di citare.

L’unica seria riserva che si può fare a questa antologia è che l’amplissima bibliografia che vi si cita è praticamente tutta apologetica (una buona parte con toni di devozione persino un po’ comica), e che anche le parole del curatore si arrestano sempre un po’ prima che una riserva su questa o quella pagina del Maestro possa essere formulata. Scelta ben legittima, naturalmente, mentre si confeziona un monumento. Ma quella di Contini è una critica fortemente dialettica, non solo quando affronta i suoi contemporanei ma anche quando opera per reimpostare il discorso sui classici: Dante, Petrarca, Ariosto, ovviamente, ma anche i duecentisti, che ancora in buona misura leggiamo attraverso le sue lenti, lenti che – non è un paradosso – si sono rivelate anche più potenti di quelle del primo ‘sistematore’ della poesia di quel secolo, non altri che Dante Alighieri. Dunque una critica nei confronti della quale il lettore è sollecitato a prendere posizione, anche a eccepire.

E per restare alla dicotomia accennata sopra, tra il Contini analitico e il Contini sintetico. Quanto all’analisi, una volta assodato che sua è la teoria e sue le applicazioni più convincenti della critica delle varianti, si dovrebbe entrare nel merito degli esercizî in tema pubblicati negli anni Trenta e Quaranta, anche criticamente, come hanno fatto di recente Irene Cappelletti (Petrarca), e Ida Campeggiani e Simone Albonico (Ariosto). E una volta riconosciuto l’acume con cui la lirica di Dante viene fatta dialogare con quella dei suoi contemporanei, si dovrebbe meditare su certi eccessi nell’impiego di quegli arnesi ermeneutici che sono l’intertestualità e la metaletteratura, per esempio nel saggio su Dante e Cavalcanti, o in quello anche più celebre sul personaggio-poeta, qui antologizzato (onde, sulla scorta di tanto esempio, decenni di letture sulle ‘fonti’ – etichetta continiana – di defatigante, e un po’ vacua, sottigliezza).

Quanto alla sintesi, ci si deve domandare se – adopero le parole di Motta – «la propensione idiosincratica a leggere, e giudicare, sempre i fatti letterari del passato alla luce delle situazioni moderne e contemporanee» non comporti anche forzature e petizioni di principio, come a mio avviso avviene nei saggi che illustrano la linea espressionistica nella letteratura italiana, dalla canzone del Castra a Gadda. Ancora più in generale, ci si deve domandare se l’ipotesi che sta al fondamento della critica continiana, che «ogni posizione stilistica, o addirittura direi grammaticale, [sia] una posizione gnoseologica» non porti talvolta il critico a trascorrere con troppa fiducia dai fatti di lingua ai fatti d’ideologia, di visione del mondo: per esempio nella lettura del primo canto dell’Inferno raccolta negli Esercizi postremi, ma anche nel grande saggio pascoliano.

E c’è infine – pertinente per il nuovo lettore cui quest’antologia si rivolge – il vecchio problema dell’ermetismo della scrittura continiana. Si potrebbe forse riferire a Contini, scrive Motta «quel che egli stesso, nel 1965, aveva argutamente, e paradossalmente, osser­vato a proposito di Dante: e cioè “cominciare dalla semplice e drastica do­manda”, se si legga ancora Contini, “non, naturalmente, per obbligo sco­lastico o per dovere culturale; ma per la libera e ilare scelta di chi s’induca a ripercorrerne” l’opera da un capo all’altro». Ora, ilare scelta non è una formula che venga davvero alla mente, leggendo o rileggendo Contini, perché il piacere della scoperta si sconta quasi sempre con la fatica del decifrare; e pazienza: ma resta il sospetto che se fossero formulate in un italiano più intelligibile, o in una forma meno scorciata, anche le sue proposte interpretative sarebbero state accolte con meno tacito ossequio.

Ma un’antologia che, come questa, ‘faccia il punto’ su una figura così importante della cultura italiana del Novecento ha precisamente il compito di sollecitare domande come queste, obiezioni come queste, o migliori. Quindi, complimenti a tutti: a Uberto Motta, che ha fatto un lavoro enorme e molto difficile, giacché misurarsi con la latitudine d’interessi di Contini significa giocoforza appropriarsi dell’immenso campo letterario che Contini aveva familiare, e non so quanti altri sarebbero stati all’altezza di farlo. Complimenti all’editore Carocci, che si è imbarcato in questa piccola impresa commercialmente, credo, non proprio pagante (forse pubblicare il libro in brossura avrebbe consentito di dimezzare il prezzo, e lo si sarebbe potuto adottare in qualche corso universitario, così invece non si può). E complimenti soprattutto ai responsabili della saggistica Einaudi, che alleggeriscono il loro catalogo di questa zavorra erudita e fanno spazio a saggi che più di quelli di Contini siano in sintonia con lo spirito del tempo.

Gianfranco Contini, Una corsa all’avventura. Saggi scelti (1932-1989), a cura di Uberto Motta, Roma, Carocci.

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