Tale auisi biuirello biuire manducare.
Queste cinque parole si leggono nei margini di un manoscritto databile alla seconda metà del nono secolo, proveniente dal monastero di San Colombano di Bobbio, uno dei più importanti centri monastici d’Europa, e ora conservato nella Biblioteca Ambrosiana di Milano. In realtà, consumate dai secoli, quelle parole si leggono a fatica sotto luce naturale, e per decifrarle occorre esporle alla luce ultravioletta, tant’è vero che sono rimaste sconosciute sino ad oggi, quando Nello Bertoletti, che insegna Storia della lingua italiana all’Università di Torino, ne ha comunicato la scoperta in un saggio – esemplare anche e soprattutto sotto il profilo metodologico – sull’ultimo numero degli «Studi di filologia italiana».
Il brevissimo testo, secondo la perizia paleografica di Antonio Ciaralli, è con ogni probabilità di poco successivo alla confezione del codice: prima metà del decimo secolo, sicché, osserva Bertoletti, esso «si colloca, per altezza cronologica, al livello delle testimonianze primordiali dell’italoromanzo», ovvero qualche decennio prima del placito capuano del 960 Sao ko kelle terre per kelle fini que ki contene, un secolo più tardi rispetto all’iscrizione della catacomba di Commodilla («Non dicere ille secrita a bboce»), e all’incirca negli stessi decenni del frammento di ‘canzone di donna’ Fui eo, madre, in civitate, vidi onesti iovene segnalato pochi mesi fa su questo stesso giornale da Vittorio Formentin (e pubblicato nell’ambito del medesimo progetto di ricerca relativo ai testi italiani delle origini: Chartae Vulgares Antiquiores).
Come interpretare il testo? Secondo Bertoletti, esso può essere trascritto in questo modo: Tale avisi, Bivirello, bivir’e manducare, dove Bivirello e bivire, in linea con abitudini grafiche altomedievali, andranno pronunciati Beverello e bevere. Il senso sarebbe il seguente: ‘Avessi, Beverello, tale bere e mangiare’. Se questa è la lettura corretta, a che cosa allude l’aggettivo dimostrativo tale? Qui entra in gioco il testo in margine al quale è stata vergata la nostra postilla. Il manoscritto bobbiese trasmette infatti la Regula pastoralis di Gregorio Magno, opera fondamentale per la formazione dei religiosi durante tutto il Medioevo. Ebbene, nelle ultime due righe della pagina in cui cade la postilla la Regula gregoriana mette in guardia dalle gravi conseguenze dell’ingordigia: «Saepe enim quis a ciborum se ingluviae minime temperans iamiamque pene superantis luxuriae [stimulis premitur]…» (‘Spesso infatti qualcuno, che non si controlla dall’ingordigia dei cibi, è assalito dagli stimoli della lussuria sino ad esserne quasi sconfitto…’). Si tratta dunque, verosimilmente, di una postilla faceta, di un ironico commento che un lettore della Regula (forse un allievo della scuola monastica insofferente nei confronti della frugalità del regime di vita imposto dai monaci o, più probabilmente, un monaco che deplora l’indigenza dell’abbazia in quegli anni) ha rivolto a se stesso, giocando anche sul proprio soprannome: ‘Magari tu che sei soprannominato Beverello avessi una simile disponibilità di vino e cibo (bere e mangiare), tale da esporti, come si paventa nella Regula, al rischio dell’ingordigia (ingluvies)’. Invece, si sottintende, questa disponibilità di cibo e bevande non c’è, e il povero Beverello non ha davvero da combattere con le tentazioni della gola…
L’interesse del testo risiede intanto nella sua antichità, dal momento che, come ho accennato, ci troviamo all’altezza delle primissime testimonianze di scrittura in volgare; inoltre, a giudizio di Bertoletti, la frase di Beverello presenta un’impostazione ritmica e una misura «che paiono congruenti col profilo d’un tipo di verso ben familiare all’innografia monastica», ovvero il settenario trocaico, secondo un tipo d’adattamento ritmico-sillabico di questo verso classico in voga in ambienti di cultura irlandese e quindi, in Italia, a Bobbio. Si tratterebbe insomma non di prosa bensì di un verso ritmico (e anche per questo aspetto tornerebbe pertinente il confronto con il grossomodo coevo frammento Fui eo, madre, in civitate, anch’esso un settenario trocaico).
Inoltre, venendo al contenuto, il piglio ironico o autoironico della postilla, in rapporto dialettico con un passo della (serissima) Regula gregoriana, «da un lato è garanzia dell’intenzionalità del ricorso al volgare, dall’altro fornisce una bella prova del fatto che nella fase delle origini l’antitesi fra seria e ludicra [cioè tra cose serie e cose scherzose] era uno dei possibili moventi della messa per iscritto delle varietà romanze, in quanto la sostituzione eccezionale del latino con la lingua viva era probabilmente avvertita come parte integrante dell’arguzia, come un artificio espressivo non sconveniente a brevi ed estemporanei esercizi di versificazione»: vale a dire che le parole in volgare trovavano la via della registrazione scritta con più facilità quando veicolavano brevi messaggi ironici o scherzosi – così (ma un secolo e mezzo più tardi, e in area toscana) nella celebre Postilla amiatina che recita «Ista cartula est de Caputcoctu»; ma così in certo senso già nell’ancor più celebre Indovinello veronese, nel quale un anonimo scriba, alcuni decenni prima del nostro monaco bobbiese, gioca sull’antica metafora della scrittura come aratura. Con la differenza che il nostro postillatore si firma, consegnandoci il nome o il soprannome di uno dei primi scribi (il nome di poeta sarebbe eccessivo) del volgare italiano: Beverello.