Istruzione

Arrendersi serenamente a ChatGPT

Il Foglio20 Marzo 2023

L’altro giorno è girato in rete un video con una penna manovrata da una stampante 3D e la scritta «3D Printer does homework ChatGPT wrote», cioè più o meno «Una stampante 3D scrive (materialmente, con la penna) i compiti dettati da ChatGPT». Risparmiarsi la fatica di scrivere – uno dice – perché no? È una fatica del corpo, non è male che la faccia la macchina. Ma far creare a una macchina un testo e firmarlo noi – non è, oltre che una scorrettezza, un’abdicazione, una rinuncia all’esercizio dell’intelligenza nonché, per chi insegna a scuola o all’università, il segnale che tutto è finito e si chiude baracca?

Naturalmente è sempre saggio essere pessimisti, ma in questo caso, a parte qualche difficoltà evidente (quanti testi ancora più banali degli attuali dovremo leggere in rete o sulla carta? Quanti ‘creativi’ perderanno il lavoro? Chi avrà più il coraggio di assegnare un riassunto come compito a casa?), può persino darsi che ChatGPT e i suoi simili (c’è già pieno di app che promettono di essere «better than ChatGPT») aiutino a rendere l’insegnamento della scrittura e delle materie umanistiche un po’ meno irrazionale.

Per la mia esperienza, agli studenti non dispiace scrivere. Soprattutto, non gli dispiace scrivere insieme, con un insegnante che per esempio gli mostri come una frase mal congegnata o un periodo zoppicante possano essere trasformati in una frase e in un periodo non solo corretti ma eleganti. Vale un po’ quello che vale per la lettura: soprattutto quando si è più piccoli, si apre un libro più volentieri se qualcun altro lo apre insieme a noi, se lo legge con noi. Non essere lasciati lì da soli, con la pagina bianca o la pagina scritta davanti a noi, è forse questo il primo requisito per diventare lettori e/o scrittori (o meglio, senza esagerare: scriventi).

Ciò che mi pare allontani gli studenti dalla scrittura (come dalla lettura, dallo studio in generale) è da un lato l’obbligo, dall’altro la valutazione. Nessuno è contento di spendere un paio d’ore del suo tempo cercando di mettere insieme due o tre pagine su un argomento del quale ignora tutto (Petrarca, la storia d’Italia, la Costituzione), adoperando un linguaggio lontanissimo dal linguaggio che spontaneamente parla e che spontaneamente metterebbe per iscritto. Lo si fa, a scuola, ci si assoggetta a questa tortura non per imparare qualcosa su Petrarca o la storia d’Italia o la Costituzione, o per imparare a scrivere, ma solo perché qualcuno darà un voto a quel penoso esercizio. Se lo studente troverà il modo di aggirare l’ostacolo, cioè di evitare la corvée del tema o della ricerca o del riassunto, lo farà. Lo si faceva prima di internet (chi poteva), facendosi aiutare da un ripetitore; lo si faceva fino all’altro giorno scopiazzando testi dalla rete; lo si fa ora con ChatGPT.

Che fare, dunque? Come regolarsi con queste ultime diavolerie, queste lastre tombali che la téchne sta per deporre sul tema, la tesina, la relazione? La resistenza è futile: arrendiamoci. E, dopo la resa, (1) scriviamo un po’ di più insieme, in classe, facendo vedere agli studenti come si fa (naturalmente bisogna sapere come si fa, e qui non sono tanto ottimista); (2) smettiamo di chiedere agli studenti di improvvisarsi consumati saggisti e di fingersi esperti di cose che ignorano; chiediamogli invece di parlare, di scrivere di cose che conoscono e che gli stanno a cuore («Dite perché odiate vostro padre, perché odiate la scuola, perché odiate me», era il tipo di tema che secondo Paul Goodman bisognerebbe assegnare agli studenti, e credo che avesse una buona parte di ragione); (3) cominciamo a ragionare sulla possibilità di farla finita coi voti, specie con quelli assegnati per i ‘compiti a casa’; (4) cominciamo a ragionare sulla possibilità di farla finita con i ‘compiti a casa’. (Lo so: insegno all’università, parlare è facile).

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