Istruzione

Contano quasi soltanto i soldi

Bollettino Generali1 Gennaio 2023

Vale per l’istruzione come vale per tutto il resto: i soldi contano; i soldi sono quasi l’unica cosa che conta.

Non è strano che se lo dimentichino gli apologeti del mondo come è. Uno dei saggi sull’educazione più influenti degli anni Dieci è stato Il ruggito della madre tigre, nel quale Amy Chua, che insegna Legge a Yale, spiegava quale fosse la ricetta per avere figli bravi a scuola, performanti, competitivi, una ricetta riassunta nella prima pagina del libro: «Alle mie figlie Sophia e Louisa non è mai stato permesso di: (1) andare a dormire dalle amiche; (2) andare a giocare dalle amiche; (3) partecipare a una recita scolastica; (4) guardare la televisione o giocare con i videogiochi; (5) prendere una voto inferiore a 10; (6) non essere la migliore in ogni materia». Era il 2011. Nel frattempo Sophia e Louisa sono cresciute e – a giudicare da quello che si legge in rete – hanno riscosso il successo al quale mirava l’educazione prussiana impartita dalla loro madre. Alla quale madre, tuttavia, nel corso di tutto il libro non sembra venire mai in mente che il suo modello educativo funziona non perché riesce a calare il rigore dell’educazione cinese nella Terra delle Opportunità che è l’America, ma perché lei – Ivy Leaguer sposata con un Ivy Leaguer – dispone del capitale economico e culturale per fare delle sue figlie le perfette, predestinate matricole di Harvard. L’esistenza precede la coscienza: vale a dire che prima di capire l’importanza delle lezioni private di violino bisogna potersi permettere le lezioni private di violino.

È più curioso che sull’importanza del denaro sorvolino spesso coloro che hanno più a cuore l’eguaglianza e il buon funzionamento dell’ascensore sociale. Ma così è. Da qualche anno a questa parte, anche per una forma di contagio rispetto a ciò che accade nel mondo anglosassone e in quei paesi che hanno avuto un vero passato coloniale, il dibattito tra i progressisti tende a concentrarsi su altre forme di diversità e di discriminazione: etnia, fede, genere, inclinazione sessuale, disabilità. Tutte cose serie, naturalmente, tutti potenziali ostacoli che è giusto abbassare o eliminare; solo che non serve aver passato le notti su Marx, basta aver vissuto abbastanza a lungo per sapere che il denaro ha il potere di medicare o di rendere quasi irrilevante e quasi invisibile qualsiasi tara che la natura o il destino abbiano voluto infliggerci. Essere egualitari su tutto tranne che sul denaro potrebbe essere il motto di quelle multinazionali le cui policies riescono ad adoperare persino l’etica come volano per gli affari; ma non è una posizione che si possa definire progressista, o giusta.

I soldi contano: non solo perché permettono di acquistare computer e connessioni veloci e lezioni private di violino ma perché danno accesso a mondi mentali e reali che ai poveri sono preclusi. Ne deriva una ricetta semplicissima: far diventare benestanti i poveri.

Dato che questo non è possibile subito, bisogna avere pazienza, provare a raggiungere l’obiettivo nella o nelle generazioni successive, e assecondare in maniera efficace il processo. Un’istruzione pubblica decente è forse lo strumento migliore che le democrazie occidentali abbiano saputo inventarsi a questo scopo: l’ascensore sociale dovrebbe partire da lì (ammesso e niente affatto concesso, naturalmente, che tra i compiti della scuola ci sia quello di essere un «ascensore sociale»: ma di ciò un’altra volta).

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Questa era la teoria. La vita vera sembra essere andata e andare, come capita, in una direzione non opposta ma diversa. Fine della scuola come agenzia educativa parificante, fine delle chance di emancipazione che essa consentiva, fine dell’ascensore sociale. Di questa discrasia tra teoria e pratica sono state date molte descrizioni e molte giustificazioni, e a me pare che la più convincente sia la descrizione-giustificazione che dice che in sostanza la scuola non ha mai contato granché, ma che un sistema economico vivace, anche vibrante come quello che l’Occidente ha conosciuto nel corso del Novecento, e in ispecie nel terzo quarto del secolo, è stato il vero responsabile della mobilità sociale e del miglioramento di status che ha benedetto le generazioni vissute in questo tratto di storia. Insomma, la scuola ratifica l’esistente: e, se l’esistente è immobile, o regressivo, la scuola non potrà farci molto.

Può darsi che alla fine il risultato debba essere questo, ma mi pare difficile negare che ormai da decenni, sull’onda lunga delle riforme degli anni Settanta, la scuola, quanto a sé, si sforzi di non ratificare l’esistente, e che insomma il sistema dell’istruzione si sia addolcito e si sia fatto più gentile, più disposto ad aiutare i non privilegiati. Ho nitido il ricordo di uno degli ultimi giorni della terza media, con la professoressa di italiano che ‘consigliava’ a me e ai miei compagni, in ordine alfabetico, la scuola superiore che avremmo potuto o dovuto fare: io certamente il liceo classico, il mio compagno di banco, figlio di immigrati meridionali che avevano una rivendita di pane, «un anno di Arte Bianca, ma non più di questo!». Oggi cose del genere, atteggiamenti del genere – e non sono passati quarant’anni – non sarebbero tollerati, ed è un bene che sia così.

Naturalmente, in quel sereno classismo c’era molto buon senso: restate dove siete, fate quello che hanno fatto i vostri genitori, riconoscete i vostri limiti, cioè i limiti che vi siete trovati nel corredo della nascita, non cercate di superarli, e tutto andrà bene. La scuola non faceva differenze tra gli studenti, o lasciava la differenziazione, cioè la difesa dei più deboli, al buon cuore degli insegnanti: non c’erano programmi di recupero per i meno bravi, non c’erano insegnanti di sostegno, assistenza psicologica, tempo pieno. Non era più la scuola descritta da don Milani, quella che cura i sani e respinge i malati; ma quasi.

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Nel secondo semestre di quest’anno accademico farò un corso dal titolo Leggere, scrivere e portarsi da galantuomini. Questo era, nell’Ottocento, l’obiettivo della scuola dell’obbligo (non è del tutto vero: c’era anche il «fare di conto»: fare di conto e portarsi da galantuomini; ma io non so fare di conto). Sarà un corso universitario, in una delle migliori università italiane, Trento, e non lo farò a Ingegneria o Informatica ma a Lettere, perché ce n’è bisogno.

L’impressione è che la scuola non respinga più i malati, per fortuna, ma anche che non dia loro veramente gli strumenti per guarire, cioè, fuor di metafora, quelle competenze di base che dovrebbero formare la cultura non dello studente universitario ma del cittadino medio: saper leggere e scrivere decentemente, orientarsi nella storia e nella storia delle idee soprattutto degli ultimi due secoli, avere qualche nozione relativa alla Bibbia, conoscere la storia del proprio territorio, e oggi soprattutto saper usare la rete in maniera consapevole e cavarsela con l’inglese. Naturalmente la mia è una visuale parziale: potrebbero essere lacune dei soli studenti di Lettere, e del resto certamente non di tutti; ma da una decina d’anni giro nelle scuole italiane per presentare i miei manuali di letteratura, e mi pare che questo genere di lacune interessi un po’ tutti, e sia un elemento non secondario nella costituzione di quelle asimmetrie su cui qui si è inteso richiamare l’attenzione: perché mentre i poveri non hanno altre risorse, i benestanti colmano tali lacune tra le mura di casa o attraverso esperienze parallele alla scuola, onde quella svalutazione del ‘sapere scolastico’ che è stato invece eloquentemente difeso, mezzo secolo fa, da Bourdieu e Passeron: «La trasmissione delle tecniche e delle attitudini di pensiero richieste dalla scuola è opera, prima di tutto, dell’ambiente familiare. Ogni reale democratizzazione richiede dunque che esse vengano insegnate là dove i meno abbienti possono acquisirle, cioè a scuola; richiede che si allarghi il campo di ciò che può essere razionalmente e tecnicamente acquisito con un apprendimento metodico, a spese di ciò che viene abbandonato alla casualità delle capacità individuali, vale a dire, di fatto, alla logica dei privilegi sociali» (Pierre Bourdieu e Jean Claude Passeron, I delfini. Gli studenti e la cultura, nuova edizione, Rimini, Guaraldi 2006, p. 134).

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Apprendere metodicamente è un programma intelligentemente conservatore. Non significa ‘imparare il metodo di studio’ o, peggio, ‘imparare il senso critico’, che non vuol dire niente, ma imparare le discipline scolastiche secondo un ordine e un progetto. Ho l’impressione che quest’ordine e questo progetto si vadano facendo sempre più evanescenti a mano a mano che la voce della scuola viene sovrastata dalla voce dei media e a mano a mano che, anche nella coscienza degli insegnanti, crescono i dubbi sulla reale utilità cioè spendibilità del sapere scolastico.

Abbiamo impostato il sistema dell’istruzione su un set di discipline scolastiche che potevano sembrare in armonia con lo stato del mondo fino a qualche decennio fa. Oggi, a torto o a ragione, molti le considerano obsolete. Meglio parlare bene l’inglese, magari ignorandone la grammatica, o fare dei bei temi d’italiano? Meglio cavarsela bene con il coding o con il greco antico? Sospetto che molti genitori, anche illuminati, sceglierebbero il primo corno delle due alternative, non il secondo. Ed è chiaro che è un’opzione sensata, anche se forse non lungimirante, perché le discipline tradizionali, specie quelle umanistiche, hanno un contatto pur sempre labile con la vita quotidiana, e perché l’Italia privilegia una formazione scolastica molto tradizionale, che guarda con sospetto all’istruzione pratica, che venera le lingue morte, l’astrazione dei concetti – quanta filosofia fatta male, nei licei italiani, quante parole in libertà, quanti concetti che tutti, insegnanti compresi, fanno finta di capire!

La reazione a questo assedio non può essere però la resa, o l’alleanza con gli assedianti. E invece. Messi di fronte a ragazzi che passano le loro giornate dentro un flusso ininterrotto di parole e immagini, i professori, anche i più coscienziosi, finiscono per ricorrere a una terapia simile a quella che in psicoanalisi si chiama ‘prescrizione del sintomo’. Scoppia un’epidemia d’influenza? In classe si parla di epidemie d’influenza convocando l’esperto, o più spesso pescando a strascico informazioni da internet. I ragazzi passano ore su TikTok? Si parla di TikTok raccogliendo esperienze e idee, o in altre parole i ragazzi insegnano al docente l’abc di TikTok. Come resistere, del resto? Accadono troppe cose, e con troppa forza, perché le si possa tenere fuori dalla scuola. Essa è quindi chiamata a un lavoro di continua esegesi che può prendere la forma della conversazione su TikTok o quella più ordinata della giornata sulla mafia, sulle foibe, sull’ambiente, sul Covid, o su qualsiasi fatto di cronaca che affiori sui media o intasi le timeline dei cellulari – l’esatto contrario di quel distacco dall’hic et nunc che secondo Oakeshott costituisce la ragione stessa dell’istruzione scolastica (Michael Oakeshott, The Voice of Liberal Learning, Indianapolis, Liberty Fund 2001, p. 11).

Immagino che questa scriteriata adesione alle mode culturali faccia meno danni nel campo dell’istruzione tecnico-scientifica, anche se i libri di Lucio Russo non lasciano tranquilli neppure su quel versante. Nel campo dell’istruzione umanistica mi pare si tratti di qualcosa di molto simile a una truffa, perché da un lato priva gli studenti del sapere accumulato che solo la scuola è in grado di comunicare, e dall’altro dà loro l’illusione di poter giudicare il presente, di poter agire nel presente, senza la mediazione della cultura, grazie a una sorta di istintiva sintonia con la realtà circostante. Di qui, tra l’altro, quella specie di grottesca infatuazione che travolge molti adulti progressisti quando si trovano di fronte alle ragioni degli adolescenti, specie se queste ragioni si presentano sotto i colori della virtù o dell’impegno politico, o della soddisfazione di esigenze culturali insomma più ‘attuali’.

In un ambiente di apprendimento così complicato – e torno alla questione delle ‘asimmetrie’ tra chi ha un pc e chi non ce l’ha, chi ha una famiglia benestante e chi no, chi ha una stanza tutta per sé e chi solo il tavolo del tinello – la prima e forse l’unica cosa che conti è la qualità degli insegnanti. «Durante il periodo in cui fu ministro, W. von Humboldt emanò un solo editto: per una seria selezione degli insegnanti» (Fritz Blättner, Storia della pedagogia moderna e contemporanea, Roma, Armando 1968, p. 236). Più di due secoli dopo, non pare che siano state trovate ricette migliori. Ma neppure mi pare si sia trovato il modo di selezionarli non dico seriamente ma decentemente, perlomeno in Italia. Non solo constato in continuazione che l’università licenzia molti laureati inadatti all’insegnamento o per indole o per incultura, e che pure potranno accedere alle graduatorie e finire prima o poi in classe; non solo ho assistito direttamente, qualche anno fa, agli esami farseschi che concludevano i percorsi di abilitazione (farseschi perché al termine di un corso lungo e costoso per i candidati ‘non si poteva non promuovere’, e chi si rifiutava di promuovere esponeva sé e l’università all’alea terrificante del ricorso); ma dopo trent’anni di studio e lavoro all’interno del sistema dell’istruzione non ho ancora capito come si diventa insegnanti, posto che i requisiti variano a ogni cambio di ministero cioè più o meno ogni due anni. Può forse sorprendere il fatto che ben pochi, tra i giovani migliori, vogliano passare anni della loro vita persi in questo labirinto, e in questa compagnia (nonché, certo, ma non è il primo dei problemi, con questi stipendi)?

Le ‘asimmetrie’ si curano non stando dalla parte degli insegnanti – come suona lo slogan di praticamente tutte le case editrici scolastiche, la mia compresa: perché sono loro a scegliere i libri di testo – ma dalla parte degli studenti, specie di quelli più svantaggiati: il che significa formare gli insegnanti con rigore, selezionare con scrupolo, continuare la formazione durante l’intera carriera, premiare i meritevoli, allontanare gli inadeguati (e non cambiarli ogni anno di sezione affinché, come soavemente mi confessò una volta un preside, «il danno venga condiviso»). Quello che, senza grave scandalo, accade più o meno in ogni ambiente di lavoro: ma non nella scuola. Chissà perché, verrebbe da commentare; se non fosse che il perché lo si sa benissimo.

 

 

 

 

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