Libri, Senza categoria

Su “Dal giardino all’inferno” di Mara Fazio

Domenicale del Sole 24 ore5 Marzo 2023

«L’ultimo treno di bambini ebrei tra i 6 e i 15 anni diretti in Inghilterra parte da Francoforte il 25 agosto [1939]. Venti di loro venivano da Monaco».

Questa – questa notizia che arriva a pagina 107 del libro di Mara Fazio Dal giardino all’inferno. Lettere di una nonna ebrea dalla Germania, 1933-1942 (Bollati Boringhieri) – è la lastra tombale che si chiude sopra l’allora sedicenne Anneliese Treumann. Lei naturalmente non lo sa ancora, non sa che le restano due anni e mezzo scarsi da vivere prima di essere deportata a Piaski, sud-est di Lublino, e poco dopo venire inghiottita da un campo di sterminio. Il lettore invece lo sa, nella premessa al volume Mara Fazio lo ha messo rapidamente al corrente dei fatti.

Il libro riunisce, legandole in racconto, le lettere che Lina Moos e Anneliese Treumann hanno spedito a Lore Lindner, la mamma di Mara, negli anni che vanno dalla presa del potere di Hitler all’estate del 1942. Lore si trova in Italia, a Genova, perché nel 1928, quando lei aveva quattordici anni, il padre Ludwig era stato nominato console tedesco a Genova (una carica a cui rinuncerà quando si tratterà di scegliere se «restare fedele al proprio paese» sfigurato dai nazisti oppure alla donna che aveva sposato, Elisabeth). Lore e i suoi genitori si salveranno. A un certo punto, all’inizio degli anni Trenta, Ludwig e Elisabeth pensarono di tornare in Germania. Ludwig va a Norimberga per iscrivere la figlia al liceo scientifico della città. Ma succede qualcosa che gli fa cambiare idea: «Quando mio padre – scrive Lore – entrò nell’Hotel Deutscher Hof di Norimberga, si scontrò nella hall con un piccolo gruppo di persone in mezzo alle quali riconobbe Hitler e accanto a lui Julius Streicher», il futuro Gauleiter della Franconia, uno dei più abietti tra i gerarchi nazisti, inviso ai suoi stessi camerati. «Il contatto con l’atmosfera nazista e la fatale apparizione di Hitler nella hall dell’albergo convinsero mio padre a portarmi via». Apparizione davvero fatale, ma per una volta in senso buono. I Lindner finiscono per rimanere in Italia. Lore studia a Zurigo, poi rientra a Genova e qui conosce Cornelio Fazio, un giovane neurologo piemontese, «antifascista per educazione familiare». Si sposano nel 1943 e nello stesso anno Cornelio entra nella Resistenza nelle brigate Giustizia e Libertà. Nel 1946 nasce Mara.

Invece Lina, la nonna di Lore, e Anneliese, la cugina di dieci anni più giovane, restano in Germania, a Monaco, private prima dei loro risparmi, poi della casa, quindi della libertà. E dalla Germania non usciranno più se non per andare a est, in uno di quei Transport o ‘trasporti di trasferimento’ la cui ultima stazione era la camera a gas. Lina forse si uccide col Veronal in un centro di smistamento, come tanti altri deportati (le caramelle degli ebrei: «come farà – si domanda Victor Klemperer nei suoi diari – tutta questa gente a procurarsi il veronal?»). Anneliese scompare.

Queste lettere, «scritte in un antiquato corsivo tedesco (Sütterlin)», e oggi perciò leggibili solo con difficoltà, sono rimaste in un cassetto per decenni, e sarebbero certamente finite nell’immondizia se prima di morire nel 2009 la novantenne Lore non avesse deciso di salvarle dall’oblio e di trascriverle al computer (non lo sapeva usare sino ad allora: ha imparato apposta). Elisabetta Villano le ha tradotte (molto bene, per quanto posso giudicare) e Mara Fazio le ha sistemate dentro una cornice che è, in sintesi estrema, la storia della Germania nel decennio terribile 1933-1942. E può sembrare futile notarlo – se si pensa alla forza di questo libro, alla forza che gli viene dalle voci sommerse di Lina e Anneliese – ma per il suo racconto Fazio trova una misura e un passo da autentica scrittrice. Anche con le migliori intenzioni il tono poteva alzarsi più del dovuto, un narratore meno prudente o meno intelligente, trascinato dalla tragicità dei fatti via via riferiti, avrebbe invaso la scena, avrebbe ceduto forse anche alla tentazione della glossa moraleggiante. Qui questo non succede mai, tutto è visto e detto con una sobrietà esemplare, una sobrietà – se è concessa questa piccola malignità circa il carattere nazionale, così propenso alla retorica, alla predica – che suona quasi poco italiana.

Che cosa impariamo, leggendo ciò che scrivono, di Lina e di Anneliese?

Come fanno le madri, Lina non vive e sopravvive per sé ma perché la nipote Anneliese possa salvarsi. La madre di Anneliese era morta nel 1937 dopo una lunga malattia invalidante. Il padre Martin era partito da solo per la Palestina e non si era fatto più sentire. Rientrerà in Germania alla fine della guerra e morirà nel 1957. L’autrice non spende altre parole su di lui, che evidentemente non le merita. Il profilo di Lina, invece, scrive Fazio, «esce chiaro dalle lettere. Era una donna piena di dignità, energica e franca, il cui senso di adattamento al destino era sostenuto da un forte senso morale». Non si potrebbe dire meglio. Ma, leggendo, ci si domanda se questo «senso di adattamento al destino» non abbia finito per scolorare nel fatalismo (e so bene che è una questione delicata, e che più volte si è posta: ma nella mia limitata esperienza di lettore mai l’avevo vista emergere così nitida dalla testimonianza delle vittime). La persecuzione degli ebrei tedeschi è una lunga lenta tragedia: ci si aspetterebbe qualche segno di ribellione, di resistenza a questo generale impazzimento; un tentativo di fuga, per quanto disperato. Invece niente. Si ha persino l’impressione che le occasioni per lasciare la Germania in tempo avrebbero potuto essere sfruttate meglio, se anziché seguire le istruzioni, i protocolli, si fossero tentate vie traverse. Forse un passaggio in Palestina si sarebbe potuto trovare, almeno per Anneliese; forse una fattoria in Gran Bretagna o negli Stati Uniti avrebbe finito per accogliere anche chi non aveva tutte le carte in regola per essere accolto. Forse. O forse chi legge di queste vicende dopo tanto tempo, al sicuro, non ha proprio – come diceva Levi del dottor Müller, uno dei chimici tedeschi che lavoravano alla Buna – keine Ahnung, nessuna idea di come andassero davvero le cose. Comunque sia si sopporta, ci si rassicura a vicenda, ci si fa forti della «consapevolezza che soffriamo senza avere colpa» (lettera di Lina, 19 aprile 1942). Quando Lore va a trovare Lina per l’ultima volta nella sua stanza nel ‘pensionato’ di Monaco in cui ha dovuto riparare, si rende conto che non c’è più il materasso: la madre dorme su un divanetto. «È vero – si sente rispondere – e sopra si dorme davvero bene […], prima credevamo di poter dormire solo su un letto». Il 30 marzo del 1942 la Gestapo preleva Anneliese e la trasferisce nel campo di smistamento di Milbertshofen, poco a nord di Monaco (per le Olimpiadi del 1972 ci costruiranno l’Olympiapark). Da lì Anneliese riesce a spedire una cartolina: «Andrà tutto bene, vedrai. Perciò tutte e due vogliamo tenere la testa alta, vero?». Non hanno fatto niente di male, sono dalla parte della ragione: come se un dio giudicasse davvero le ragioni e i torti.

Dal canto suo Anneliese è misteriosa, verrebbe da dire, come il personaggio di un romanzo; ma ovviamente è il contrario: Anneliese è misteriosa come lo sono gli esseri umani consapevoli. Sfrattati dalla casa di famiglia, lei e la nonna si ritrovano a vivere in un grande appartamento insieme ad altre sette o otto anziane sconosciute. Informando la zia in Italia, Anneliese dà a questa disgrazia i colori dell’avventura. Qui, scrive, «c’è già una bella sintonia e sono sicura che ne verrà fuori una piacevolissima convivenza. Essendo la piccolina, sono viziatissima, cosa che al momento mi piace veramente tanto! Il mio unico compito qui è rassettare la mia camera, tenere in ordine le mie cose e dopo mangiato, se ho tempo, aiutare ad asciugare. Tutto fila liscio. In più, sto imparando anche stenografia e a scrivere a macchina da una signora molto simpatica di una certa età e spero che un giorno possa servirmi. Forse è meglio che io non sia andata in Inghilterra…» (8 ottobre 1939). La santa ingenuità dei sedici anni? Non proprio, dato che invece, scrivendo al quasi coetaneo cugino Wolfi, si mostra molto meno solare, e ben più consapevole: «La tua fiducia in Dio forse aiuterebbe anche me. Io però non riesco a credere in ‘Lui’ fintanto che fa vivere le persone così di stenti, senza fargli avere anche solo il minimo segno di bontà e clemenza […]. Per il momento almeno non ho ancora perso il mio buonumore, anche se molte volte non è del tutto sincero. Almeno non se ne accorge nessuno e Oma è contenta della mia allegria» (19 febbraio 1940). Ma «Oma» se ne accorge, ovviamente, tant’è che buona parte delle sue lettere di quei mesi comunicano preoccupazioni e speranze circa il futuro di Anneliese. Isolate, costrette a contare soltanto l’una sull’altra, nonna e nipote agivano come si agisce nelle situazioni disperate, ognuna faceva finta di essere serena per non amareggiarsi a vicenda – come Ugolino nell’Inferno di Dante: «Queta’mi allor per non farli più tristi».

Ho detto sopra che il lettore è informato, sa sin dall’inizio ciò che i protagonisti di questa storia neanche immaginano. È preparato alle pagine strazianti in cui Lina e Anneliese smettono di parlare e vengono evocate dalle parole di coloro che per ultimi le hanno viste vive. Dalla lettera di un’amica di Lina, Martha Mussgnug: «Mia cara Lisl, il mio cuore è afflitto e la penna è un peso nella mia mano, perché ieri sera ho detto addio alla tua cara madre, trascorrendo con lei la sua ultima sera qui. La tua lettera le ha dato una tale forza, un sostegno morale e un contegno che si potrebbe quasi definire eroico. Tutto questo, però, non attenua la terribile sensazione di impotenza dinanzi all’arbitrarietà di quanto sta accadendo […]. Come avrai saputo, le persone anziane finiscono a Theresienstadt, vicino Aussig, in Cecoslovacchia. Lì pare che ci sia una vera e propria città ebraica e che questa riceva approvvigionamenti dalla Confederazione, visto che tutta quella povera gente viene portata via senza neanche un soldo…». In questo libro ci sono però anche delle fotografie, il genere di fotografie domestiche che si trovano negli album di famiglia: la casa, il giardino d’estate, i bambini sull’altalena. Ma a pagina 122 c’è l’ultima fotografia scattata ad Annaliese, graziosa e sorridente come si è a vent’anni, ed è un’immagine insopportabile, che resta fissa nella memoria anche molto dopo che si è finito di leggere il libro, e a cui non si riesce a ripensare senza piangere. «Si può ritrovare la calma, ma mai più la felicità», scrive Martha Mussnug a Elisabeth alla fine della guerra, reduce a sua volta da due anni di Lager. Si può ritrovare la calma, ma mai più la felicità. È difficile immaginare una formula che meglio di questa dica ciò che resta dopo aver attraversato con la mente, figuriamoci con il corpo, la storia del ventesimo secolo.

Condividi