Di “scoperte”, sullo stile di Dante, sul suo modo di raccontare, non se ne possono più fare: qualcuno da qualche parte, in un qualsiasi momento della storia della dantistica, avrà già detto più o meno quello che noi ci apprestiamo a dire illudendoci di essere originali. Così, senza appunto avere la pretesa di sollevare il velo su verità nascoste dall’anno 1321, il commentatore può limitarsi a mettere accanto al testo un po’ di quelle maniculae che i copisti medievali disegnavano accanto ai passi più interessanti o più densi di significato, cioè insomma a suggerire al lettore di prestare particolare attenzione a questo o quell’aspetto dell’opera di Dante, quando gli capiterà di riaprire le Rime o la Vita nuova o la Commedia. Suggerimenti per la prossima rilettura, perché certi dettagli non vadano perduti. Ecco un esempio.
Quando si parla del realismo della Commedia, a che cosa si pensa? Soprattutto al modo in cui Dante traduce in parole la crudezza dello spettacolo infernale, con tutti quei lamenti e quelle grida, e gli uncini dei diavoli, e i lusingatori tuffati nello sterco (e non sterco qualsiasi ma, splendida finezza, sterco «che da li uman privadi parea mosso», cioè prelevato dai cessi degli uomini, giacché – come annota Benvenuto da Imola – «stercora humana sunt fetidiora aliis»)… Oppure si pensa alle tante splendide similitudini domestiche che costellano il poema, e che rievocano subito l’atmosfera della campagna toscana specie in coloro che, come osservava Contini, sono «iscritti all’anagrafe di Firenze»: «Quante ’l villan ch’al poggio si riposa […] come la mosca cede a la zanzara, / vede lucciole giù per la vallea, / forse colà dov’e’ vendemmia e ara» (If xxvi 25-30). E che dire del geniale realismo nella caratterizzazione psicologica di certi personaggi (l’altero Farinata, il pigro Belacqua), o di Virgilio (il pagano virtuoso che in Purgatorio iii evoca il desiderio di conoscenza dei grandi spiriti del passato condannati al limbo e – lui stesso membro di quella famiglia sventurata – rimane «turbato») o, si capisce, dello stesso Dante-personaggio.
Esiste però nella Commedia una forma di realismo meno visibile, meno facile da notare, e di fatto in genere non notata, ma altrettanto preziosa, che potremmo definire “realismo della percezione”.
Consideriamo il finale del canto xv dell’Inferno. Parla Brunetto Latini, il maestro che Dante ha ritrovato dopo tanti anni:
Di più direi; ma ’l venire e ’l sermone
più lungo esser non può, però ch’i’ veggio
là surger nuovo fummo del sabbione.
Gente vien con la quale esser non deggio.
Sieti raccomandato il mio Tesoro,
nel qual io vivo ancora, e più non cheggio».
Poi si rivolse, e parve di coloro
che corrono a Verona il drappo verde
per la campagna; e parve di costoro
quelli che vince, non colui che perde.
«Parlerei ancora» dice Brunetto, «ma non posso più farlo, né posso più accompagnarti, perché vedo che laggiù si solleva una nuova nuvola di polvere dalla sabbia», la sabbia sulla quale camminano i dannati di questo girone. «Arriva gente con cui io non ho il permesso di stare». Dopodiché raccomanda a Dante il Tresor, l’enciclopedia compilata durante l’esilio parigino, nella quale Brunetto vive ancora. Poi se ne va, e Dante chiude il canto con lo strano e un po’ misterioso paragone col «drappo verde» che si corre a Verona.
«I’ veggio / là surger nuovo fummo del sabbione». Il fumo prodotto dai dannati che si avvicinano a Dante e Brunetto è uno di quelli che Agostino nel De doctrina christiana chiama segni naturali («Dei segni alcuni sono naturali, altri intenzionali. Sono naturali quelli che, senza alcuna intenzionalità e volontà di significare, fanno conoscere, a partire da sé, qualcos’altro oltre sé, come il fumo significa il fuoco»: II i 2). Ma al di là delle etichette scolastiche, ciò che è interessante osservare qui è che… le cose vanno proprio così, o meglio andavano così prima che le strade fossero asfaltate. Il fumo, il polverone annunciava l’arrivo di un gruppo di persone a piedi, o a cavallo, o in carrozza. È uno spettacolo inconsueto, oramai; ma pensiamo ai film western: si vede in lontananza una nuvola di polvere e da quella nuvola si deduce che stanno arrivando dei cavalieri, o una diligenza. Esperienza personale: a me è capitata una cosa simile in Islanda, dopo l’eruzione dell’Eyjafjöll nel 2010: camminando, le comitive di turisti sollevavano la polvere del vulcano, una polvere così fitta da annunciare l’arrivo di uomini minuti prima che questi uomini si palesassero allo sguardo. Ma senza andare a cercare in Islanda o nel vecchio West, ecco una testimonianza molto più prossima a Dante nel tempo e nello spazio. Nel 1157 – racconta il notaio piacentino Giovanni Codagnello – i cremonesi attraversano l’Adda per portare la guerra verso Milano, ma all’improvviso vedono un polverone sollevarsi dalla pianura e pensano che siano i milanesi che stanno muovendo verso di loro con le medesime cattive intenzioni, perciò se la danno a gambe. Invece… era solo un branco di animali selvatici: «Eodem die Cremonenses, cum transissent Adduam, viderunt quendam pulverem ex grege belluarum levatum, cogitantes quod Mediolanenses advenirent, inhoneste fugerunt» (Iohannis Codagnelli Annales Placentini, recognovit Oswaldus Holder-Egger, Hannoverae-Lipsiae, impensis Bibliopolii Hahniani 1901, p. 27). Lo stesso «segno naturale», avrebbe detto Agostino, lo stesso polverone: l’unica differenza è che i cremonesi sbagliano a interpretare il segno, Brunetto no.
A parlare, nel caso appena considerato, è un personaggio della Commedia, ovvero Dante-autore attraverso la voce di un personaggio della Commedia. Ma naturalmente la peculiarità più caratteristica della Commedia è quella di essere il racconto di un personaggio che dice io e che – non importa adesso attraverso quali filtri – s’identifica in sostanza con l’uomo che scrive il poema. La Commedia è il resoconto di un’avventura occorsa a Dante Alighieri. Questa circostanza ha delle ovvie conseguenze anche in ordine all’aspetto che qui c’interessa, cioè al modo in cui Dante-personaggio percepisce la realtà a lui ignota – e spesso sorprendente, e spesso spaventosa o sublime – che si apre ai suoi sensi a mano a mano che procede nel suo viaggio ultraterreno.
Canto xvii. Dante e Virgilio sono saliti in groppa a Gerione e hanno preso il volo, e tra poco atterreranno in Malebolge.
… vidi ch’i’ era
ne l’aere d’ogne parte, e vidi spenta
ogne veduta fuor che de la fera.
Ella [la belva Gerione] sen va notando lenta lenta;
rota e discende, ma non me n’accorgo
se non che al viso e di sotto mi venta.
Io sentìa già da la man destra il gorgo
far sotto noi un orribile scroscio,
per che con li occhi ’n giù la testa sporgo.
Aria, aria da ogni parte; la terra è invisibile perché il burrone è profondo, e ci troviamo nelle cavità dell’inferno, quindi al buio. Di fatto, nonostante Dante-poeta insista sull’atto del vedere (vidi… vidi… veduta nel giro di appena tre versi) Dante-personaggio intravede soltanto l’aria scura tutto intorno e il corpo di Gerione sotto di sé. L’esplorazione non può dunque (ancora) passare dagli occhi. Da dove allora? Prima dal tatto, con la sensazione dell’aria che preme sul volto; poi dall’udito, che viene sollecitato dal suono di una cascata… Ma ecco che, dopo questa percezione incerta, contrastata, è come se si accendesse la luce all’improvviso o la nebbia si diradasse, e lo sguardo dall’alto afferrasse l’intero girone, e qui lo spettacolo tremendo di una valle piena di torturati e di torturatori. Malebolge si annuncia tra lacrime e fiamme:
Allor fu’ io più timido a lo stoscio,
però ch’i’ vidi fuochi e senti’ pianti;
ond’io tremando tutto mi raccoscio.
E vidi poi, ché nol vedea davanti,
lo scendere e ’l girar per li gran mali
che s’appressavan da diversi canti.
Le cose vanno proprio così, abbiamo detto commentando il dettaglio del polverone che annuncia la masnada dei dannati in Inferno xv. Potremmo dire la stessa cosa qui, salvo il fatto che in questo caso il volo (è il caso di dirlo) della fantasia di Dante è ancora più vertiginoso, perché riferisce un evento del quale né Dante né i suoi lettori potevano avere diretta esperienza. «Rota e discende, ma non me n’accorgo / se non che al viso e di sotto mi venta»: una notazione così minutamente realistica trova posto nella più irrealistica delle cornici – la descrizione di un mostro volante che plana nel cielo dell’inferno.
Siamo entrati in Malebolge, ci siamo lasciati alle spalle i ruffiani e i seduttori. Ora Dante e Virgilio attraversano il ponte che sovrasta la seconda bolgia. Da qualche parte lì in basso, nel buio più profondo, una seconda classe di dannati, gli adulatori, sconta il suo peccato. Un poeta meno raffinato avrebbe fatto sì che l’io narrante li riconoscesse senz’altro al fondo della bolgia: ecco il lucchese Alessio Interminelli, ecco la prostituta Taide… Invece Dante segue, per così dire, l’ordine sensoriale corretto. Nell’oscurità di Malebolge il senso che viene sollecitato per primo non è la vista ma l’udito: in piedi sul ponte, Dante e Virgilio sentono voci soffocate, lamenti che ricordano il grugnito dei maiali e rumore di schiaffi:
Quindi sentimmo gente che si nicchia
ne l’altra bolgia e che col muso scuffa,
e sé medesma con le palme picchia.
Il secondo senso è l’olfatto: prima di vedere i dannati, Dante ne avverte il puzzo, un puzzo tanto forte da non offendere soltanto il naso ma persino le mucose degli occhi:
Le ripe eran grommate d’una muffa,
per l’alito di giù che vi s’appasta,
che con li occhi e col naso facea zuffa.
Adesso, finalmente, è il turno della vista: Dante aguzza lo sguardo e cerca di capire da chi provengono quelle voci e quei rumori, e finalmente vede i dannati immersi nello sterco:
E mentre ch’io là giù con l’occhio cerco,
vidi un col capo sì di merda lordo,
che non parëa s’era laico o cherco.
Quei mi sgridò: «Perché se’ tu sì gordo
di riguardar più me che li altri brutti?».
E io a lui: «Perché, se ben ricordo,
già t’ ho veduto coi capelli asciutti,
e sè Alessio Interminei da Lucca:
però t’adocchio più che li altri tutti».
Il succedersi delle impressioni sensoriali corrisponde a un progresso nella comprensione della scena, vale a dire che solo quando Dante vede i dannati a mollo nello sterco si rende ragione del baccano che lo ha accolto mentre percorreva il ponte che sovrasta la bolgia e del fetore che esalava dal suo fondo. È, se si vuole, una forma peculiare di ritardamento: il poeta sposta in avanti, anche solo di qualche verso, l’informazione che illumina il particolare rimasto oscuro, ma lo fa non per gusto d’artificio retorico (come in Paradiso xi, quando tace fino a metà canto i nomi di Francesco e della Chiesa) bensì per comunicare al lettore il proprio stesso smarrimento (in maniera analoga all’inizio dell’ultimo canto dell’Inferno intravediamo – noi insieme a Dante-personaggio – un misterioso «dificio», forse un mulino a vento, che poi si rivela essere nientemeno che Lucifero).
Alla fine del nono canto del Purgatorio, l’angelo guardiano ammonisce Dante e Virgilio: nella loro ascesa non dovranno mai voltarsi indietro («Intrate; ma facciovi accorti / che di fuor torna chi ’n dietro si guata»): la stessa raccomandazione che nelle Metamorfosi gli dei degli inferi fanno a Orfeo sceso nell’Ade per riprendersi Euridice. Ma qui nella Commedia è chiaro che il senso morale è: “chi non persiste nella strada del bene non merita la redenzione”. Il canto x inizia in perfetta continuità col precedente (1-6):
Poi fummo dentro al soglio de la porta
che ’l mal amor de l’anime disusa,
perché fa parer dritta la via torta,
sonando la senti’ esser richiusa;
e s’io avesse li occhi vòlti ad essa,
qual fora stata al fallo degna scusa?
Qui il realismo della percezione non investe più la vista, come nei casi precedenti, ma l’udito. Dante non dice semplicemente che la porta si è chiusa alle sue spalle, né può dire di averla vista chiudersi (l’angelo gli ha proibito di girarsi!); dice di aver sentito la porta sbattere, e il verbo sonando andrà inteso nel senso in cui andava inteso l’aggettivo sonanti che definisce gli «spigoli di quella regge sacra» (dove regge = porta) alla fine del canto precedente (Pg ix 135): immaginiamo non il chiudersi di un uscio ma lo sbattere fragoroso di un portone.
Descrivendo la bolgia degli adulatori in Inferno xviii Dante restituisce scrupolosamente l’ordine delle sue percezioni sensoriali: ciò che è percepito confusamente attraverso un senso si fa chiaro e perspicuo grazie all’apporto di un altro senso, e poi di un altro. Ma – altro paragrafo del realismo della percezione – si dà anche il caso dell’affinarsi, del progressivo perfezionarsi di un’unica impressione sensoriale.
Consideriamo questo passo tratto dal secondo canto del Purgatorio:
Ed ecco, qual, sorpreso dal mattino,
per li grossi vapor Marte rosseggia
giù nel ponente sovra ’l suol marino,
cotal m’apparve, s’io ancor lo veggia,
un lume per lo mar venir sì ratto,
che ’l muover suo nessun volar pareggia.
Dal qual com’io un poco ebbi ritratto
l’occhio per domandar lo duca mio,
rividil più lucente e maggior fatto.
Poi d’ogne lato ad esso m’appario
un non sapeva che bianco, e di sotto
a poco a poco un altro a lui uscìo.
Lo mio maestro ancor non facea motto,
mentre che i primi bianchi apparver ali.
Anche in questo caso l’oggetto sul quale si ferma l’attenzione di Dante-personaggio non si rivela subito allo sguardo per ciò che è. Come accade nella realtà, e come c’è da aspettarsi che accada in una realtà tanto nuova come quella ultraterrena, Dante vede, ma non comprende subito che cosa sta vedendo, perciò non descrive l’oggetto – che scopriremo essere un angelo – una volta per tutte ma, con il consueto scrupolo nella resa della percezione, lo mostra nel suo giungere e nel suo venir messo lentamente a fuoco: prima è una luce fioca che si avvicina rapidissima, poi è una luce più vigorosa, poi la luce – da circolare che era – muta la sua forma, spunta qualcosa di bianco dai lati (le ali dell’angelo), poi in basso (la veste?): infine sia Virgilio sia Dante capiscono di avere di fronte il «celestial nocchiero» che trasporta le anime in purgatorio.
Gli esempi si potrebbero non moltiplicare, certo, ma incrementare sì: e, come dicevo, chi ha in animo di rileggere la Commedia potrà provarsi a farlo, stando particolarmente attento a questa peculiare – e molto realistica – dinamica della percezione. Un test analogo sulla poesia lirica di Dante a che cosa porta? Non al medesimo risultato, naturalmente, perché molto meno varia è la gamma delle cose percepite: quasi solo la donna amata e Amore; e perché la vista oblitera tutti gli altri sensi. Ma anche in questo campo tanto ristretto si nota un’insistenza sulla visione progressiva, sulla progressiva messa a fuoco, che non ammette di essere spiegata come semplice riflesso della langue lirica. Senza poter competere con il brulichio di vita che c’è nella Commedia, anche le poesie di Dante sono singolarmente piene di personaggi reali (poniamo: Cavalcanti e Lapo, Vanna e Lagia nel sonetto Guido, i’ vorrei) o immaginari (poniamo: le ipostasi dell’Amore, della Malinconia nel sonetto Un dì si venne, della Giustizia nella canzone Tre donne) con i quali l’io entra in relazione. Relazione – ed ecco che torna utile il confronto con l’apparizione dell’angelo nocchiero in Purgatorio ii – che Dante concepisce spesso in forma dinamica, con l’oggetto su cui si posa lo sguardo che viene rappresentato in moto mentre il riguardante è fermo, e l’azione di quest’ultimo si sdoppia nell’atto del guardare e poi nell’atto del vedere, come a segnare i tempi di un graduale riconoscimento: «guardando ’n quella parte onde venia, / io vidi monna Vanna e monna Bice / venire inver’ lo loco là ov’io era» (Io mi senti’ svegliar 8-10); «guardai e vidi Amore che venia» (Un dì si venne 8). Scendendo di un paio di decenni, è un modulo che non sorprenderà di ritrovare nella Commedia, là dove l’io narrante, nuovo del posto, fissa la sua attenzione e il suo sguardo su un punto: «E poi ch’a riguardar oltre mi diedi, / vidi genti a la riva d’un gran fiume» (If iii 70-71), «E com’io riguardando tra lor vegno, in una borsa gialla vidi azzurro» (If xvii 58-59). A riprova del fatto già assodato che, pur nella specializzazione dei generi, l’immaginazione di Dante si organizza in costellazioni verbali che quei generi possono trascendere.