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Sulle “Rime” di Gano da Colle

Domenicale del Sole 24 ore22 Gennaio 2023

La storia della poesia del Trecento è piena di «corrispondenti di Petrarca» dei quali si sarebbe persa memoria non solo dell’opera ma persino del nome, se essi non avessero avuto appunto la ventura di scambiare lettere o sonetti con il loro grandissimo contemporaneo. Nato all’inizio del Trecento in una delle famiglie prominenti di Colle Valdelsa, i Pasci, Gano da Colle è uno di questi carneadi.

Pare – la cosa non è sicura – che quando, nel 1353, Petrarca andò a vivere a Milano, ospite dei Visconti, suscitando l’indignazione degli amici toscani (Firenze, che lo voleva con sé, era nemica giurata dei signori milanesi), Gano gli abbia mandato un sonetto (perduto) che mirava a dissuaderlo, e che glielo abbia fatto recitare da un giullare di nome Malizia Barattone, sonetto cui Petrarca rispose con la Dispersa 24: ‘sono a mio agio non solo nella bellissima Milano – questo il succo della lettera – ma starei benone anche in qualche sperduto angolino dell’Asia, perché la mia patria è il mondo’. E insomma, il provinciale Gano doveva farsi i fatti suoi.

Sin qui gli aneddoti. La cosa più interessante per lo storico della letteratura è però che a Gano i manoscritti attribuiscono quattro canzoni, un capitolo ternario e due sonetti, cui va forse aggiunto un serventese in persona di donna che è, a dir la verità, poco più di uno scipito centone di versi ovidiani. Si tratta di rime sparse, non di un canzoniere, cioè di testi composti in occasioni ed epoche verosimilmente molto diverse, e però simili nel richiamarsi a una poetica che appare distinta e anzi quasi opposta rispetto a quella di Petrarca. Raffaele Cesaro, il giovane filologo che ha curato il volume, la descrive molto appropriatamente in questo modo: essa «partecipa a un orientamento poetico sviluppatosi intorno alla metà del Trecento tra Umbria e Toscana», e «risente di elementi culturali autoctoni, in primis l’eredità della lauda iacoponica, e dei fermenti religiosi, spesso di ispirazione pauperistica, originari o comunque fortemente radicati in quell’area».

Dunque poesia che non vuole evocare, emozionare, commuovere, secondo il paradigma stilnovistico-petrarchesco, bensì insegnare, correggere, moralizzare; ed ecco dunque la canzone sul tema tradizionale dei sette peccati capitali, ecco la canzone sulla volubilità della Fortuna, ecco la perorazione contro la lussuria e – caso raro nella poesia laica del Medioevo – in favore dell’amore coniugale: «L’amor del matrimon seguire ognuno / dè con ragion, come legge comanda, / perché ’l seme si spanda». Ed ecco la corrispondenza in versi con un altro ‘amico di Petrarca’, Antonio Beccari, anche lui però versato più nel genere morale-parenetico che in quello lirico. Insomma, una koinè non anti- ma, diciamo, a-petrarchesca entro la quale Gano sa trovare accenti originali, se non veramente ispirati.

Coerentemente, il commento di Cesaro mira, più che a documentare, in Gano, la memoria della lirica due-trecentesca, dai siciliani a Petrarca, a tratteggiare una mappa culturale più ampia e più varia, che coinvolge i satirici latini (impressionante, nell’incipit Udirò tuttavia sanza dir nulla?, il calco dalla prima satira di Giovenale, «Semper ego auditor tantum?»), i padri della Chiesa, i rimatori del Trecento iscrivibili nella koinè suddetta, nonché il Dante della Commedia e delle poesie morali.

Quanto a quest’ultimo, non darei troppo peso al ricorrere di certe serie rimiche inconsuete; sono più significative certe congruenze nella forma nel contenuto e nel repertorio delle metafore. Quando, per esempio, nella canzone I’ son la donna che volgo la rota la Fortuna evoca «colu’ che tien la suo mano alla gota», non importa che – come annota Cesaro – la rima rota : gota si trovi nel canto xv dell’Inferno: conta che la figura dell’uomo che porta la mano alla guancia sia tradizionalmente emblema della melancolia, e che si trovi in memorabilissimi versi danteschi: «L’altro vedete ch’ha fatto a la guancia / de la sua palma, sospirando, letto» (è Enrico di Navarra in Pg VII; ma è il medesimo atteggiamento sconsolato di Drittura all’inizio di Tre donne: e ’n su la man si posa / come succisa rosa»). E quando nella canzone Favole d’Elicona il poeta apostrofa il peccatore («O peccator, che fai? / Non perder tempo mentre basta il giorno, / che l’uom che non rauna quand’è state / sentirà nel verno dolori e guai. / Così tu averai / s’al tempo eletto tu farai soggiorno»), non tanto è rilevante notare che la rima (non rara) giorno : soggiorno si trova nel Paradiso, quanto ricordare il passo della dantesca Doglia mi reca in cui il peccatore viene investito da analoga apostrofe: «Dimmi, che hai tu fatto, / cieco avaro disfatto?». Ma sono dettagli che non diminuiscono in nulla l’importanza del lavoro di Cesaro, che si affianca a quello di altri filologi delle ultime generazioni sui corpora di minori come Fazio degli Uberti, Sennuccio del Bene, Ventura Monachi, Matteo Frescobaldi, Bruzio Visconti. Nel giro di pochi anni, la mappa della poesia italiana trecentesca ha cambiato aspetto, arricchendosi e precisandosi: a più di mezzo secolo dai Rimatori del Trecento di Giuseppe Corsi, i tempi sembrano ormai maturi per una nuova selezione antologica e per nuove proposte di sistemazione storiografica.

Gano da Colle, Rime, a cura di Raffaele Cesaro, Salerno Editrice 2022.

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