Prima la tv di fine ‘900, poi in modo più totalitario il web, hanno offerto una beffarda concretizzazione del principio filosofico secondo cui “tutto è in tutto”, o meglio tutto si combina con tutto. Eventi, paesaggi, oggetti, volti che sembrano appartenere a mondi non comunicanti si giustappongono sfacciatamente, si concatenano, si sostituiscono l’uno all’altro. E da molto tempo l’effetto non è più di choc primonovecentesco, bensì di assuefazione blandamente nauseata, di trista ma irrespingibile ipnosi. Queste cornici che decontestualizzano e ricontestualizzano tutto di continuo, o che a tutto incessantemente mettono e tolgono le virgolette, possono mai produrre una specie di autocoscienza? Se sì, non sarà certo un sovrastante Nous, ma appunto una mente formatasi attraverso una particolare disposizione e illuminazione, una callida e impassibile giuntura dei pezzi che si trovano già dentro quelle cornici – oltre le quali, come fuori dal dizionario di Flaubert, sembra non esserci più nulla. Per la tv, si direbbe che questa mente è stata Blob (ma cosa oggi non è blob? E fino a quando la mente non viene riassorbita dall’incosciente, torpido corpaccione mediatico?). Per l’epoca dei social, luoghi illimitati dove si parla come se si fosse tra amici, e dove invece nelle parole e nelle immagini ognuno coglie un senso tutto suo, occorre invece un situazionismo più acrobatico.
Leggendo i racconti che Alessandro Gori, già noto con lo pseudonimo jacovittesco di Sgargabonzi, ha riunito da poco in “Confessioni di una coppia scambista al figlio morente”, il suo ultimo libro uscito da Rizzoli Lizard, si ha l’impressione di avere tra le mani una traduzione saggistico-narrativa o lirico-teatrale di quella ipotetica autocoscienza. Questo Achille Campanile splatter rappresenta un mondo capillarmente mediatizzato, in cui è sparita ogni differenza tra riferimenti reali e inventati, o ne è rimasta appena una minima che permette di sfiorare la soglia della battuta senza però sostarvi, perché la battuta presuppone di per sé una volontà sforzata, un gesto ormai troppo pomposo. I particolari più ‘tecnici’ di merci, specialità o costumi sono descritti qui con un’acribia che dall’esattezza voluttuosa e quasi pedante sfocia nell’invenzione più scatenata senza soluzione di continuità né attriti.
Ai suoi lettori, che a seconda degli interessi o dell’età coglieranno un numero minore o maggiore di sfumature, di allusioni e trabocchetti, Gori dimostra così che tutto intorno a loro è verosimile e inverosimile insieme – che tutto è fungibile. Si può ridere o meno, sentendo rimescolare o arricchire argutamente le bibliografie o filmografie di alcuni autori, ma il punto non è questo. Il punto è che se non è vero che il tale regista ha girato quel film lo avrà fatto qualcun altro, o lui ne avrà girato uno altrettanto improbabile; e se non è vero che la tal marca ha messo sul mercato il tal gadget, se ne troverà sugli scaffali del supermercato uno ancora più simile a una macchina celibe (tornano in mente i dialoghetti anni ’80 in cui Piergiorgio Bellocchio citava un Alberto Eco e un Umberto Asor Rosa, e alla voce che lo accusava di confondersi ribatteva: “sono loro che si confondono”). Cosa mai non si può attribuire a chiunque, nel mondo dove uno youtuber adolescente propone i video della sua colazione e subito dopo intervista Gratteri? E in questo stesso mondo, l’apparente passione di Matteo Messina Denaro per i magneti di Masha e Orso di cui c’informano i giornalisti non è forse una purissima pagina di Sgargabonzi-Gori?
Ma allora perché mai, come accade nei siparietti che nell’ultimo libro sostituiscono quelli su Bowie malato del precedente “Jocelyn uccide ancora”, il presidente del Consiglio Superiore di Sanità Franco Locatelli non potrebbe scambiare messaggi d’amore con la cantante degli Scissor Sisters e rimanere incastrato in un mezzo catfishing organizzato dal suo collega Giovanni Rezza? O perché mai Casa Vianello non dovrebbe essere ricordata come la serie memorabile nella quale Sandra Milo e Ciccio Ingrassia fanno squatting in casa di Vianello Edmondo, trascinandosi dietro un prolisso gioco di equivoci sui cognomi e i nomi? E date le immagini ridicole che i media usano per descrivere la guerra al virus, perché poi non prenderli in parola e disegnare il Covid come un grosso animale da cui gli ospedali si proteggono con “mille grate di ferraccio”?
Gori in fondo non fa che prolungare con una linea disinvolta i segmenti del chiacchiericcio che ci avvolge, e ne indica le conseguenze fatali quanto patafisiche. Perché, si chiede ad esempio nell’esilarante pezzo sulla “Napoletanità”, appena entra in studio il concorrente napoletano tutti i presentatori di quiz dichiarano la loro passione per Partenope, e lo fanno solo per quella città? Risposta: perché temono di essere uccisi. Gli abitanti di Napoli hanno infatti un piccolissimo difetto: ammazzano come se non ci fosse un domani; e qui giù col name dropping (un Troisi, una De Sio tagliagole) in cui caratteristicamente, senza battere ciglio, l’autore inserisce l’intruso Bill Pullman. Ma tornando al racconto sul virus, si veda com’è ritratta la receptionist dello Spallanzani, che vigila affinché il Covid non entri dalla porta e “Ci chiede se siamo stati di recente a contatto con un infetto, se siamo stati nella zona rossa, se abbiamo avuto sintomi nelle ultime due settimane, se abbiamo avuto rapporti sessuali, se abbiamo eiaculato e dove, cosa faremmo alla splendida Michelle Ferrari (chiaramente col suo consenso)”. Ecco Gori in sintesi: lo spunto di cronaca, l’elenco che deraglia, la clausola irridente di correttezza politica, il vip seminoto, la logica assurda in prosa forbita.
Il flusso goriano, col suo effetto domino, apre a ogni frase nuove piste e poi torna a mordersi la coda, ma evita quasi sempre di fermarsi sui climax, di cambiare tono, di far sentire le fratture tra i registri della lingua (eccezioni: dove esagera con l’iperbole, secondo una tendenza diffusa nelle ultime due o tre generazioni, pensando già alla performance orale). Questo scrittore attraversa i generi, ma non lo sottolinea. Troviamo qui parodie di fiabe new age in cui la vaghezza salmodiante converge a un tratto sul Raf di “Cosa resterà degli anni ‘80”; troviamo elenchi da manuale cabarettistico; troviamo una parabola degna del ‘900 metafisico sugli effetti di un ban da Facebook; troviamo puntigliosi saggi autobiografico-filologici sulla ricezione di Paolo Villaggio o sull’evoluzione dei telefonini, dei gelati e dei panettoni; troviamo barzellette tradizionali rimaneggiate in modo che facciano ridere proprio perché non fanno ridere; troviamo, come in “Non chiamateci comici”, una parodia del tipico racconto da duro all’americana, forse incrociato con una indimenticata pubblicità dell’Amaro Montenegro; troviamo, ancora, la mimesi di stili generazionali e professionali che si susseguono ben lubrificati senza comprendersi; troviamo variazioni un po’ nerd sui testi di canzoni popolari; e da un racconto all’altro – l’autore organizza le sue raccolte alla maniera degli album musicali – vediamo rispuntare e subito inabissarsi certe figure senza corpo come il Mazzola dell’altro Rezza, Antonio (il teologo Corazzesi, il babbo di Banca Etruria, Mike Olfield).
L’autore diventa un po’ più animoso di fronte alle situazioni e ai tipi che si vogliono sofisticati: si veda la voce di “Balocchi e profumi”, tanto più scioccamente adolescenziale quanto più si esprime per etichette da paper dei gender studies; o si veda il pezzo su Godano e lo pseudoanticonformismo infantile dei gruppi rock anni ’90, che parlano di “un sesso stropicciato, urgente, madido d’umori e consumato di fretta, come quello di animali rapaci braccati dalla Polfer”; ma soprattutto si legga il monologo furibondo su “Le ragazze di Arezzo Wave”, “con il tanga colorato, sporco di terra, che esce dai loro pantalonacci multietnici, con il top colorato anch’esso, che sostiene, senza sospensori, un seno sudato e sporco di fuliggine. Eccole mentre mangiano sotto il sole cocente un cous cous ripieno di cimici vendutogli da una zingara. La testa persa che pensa a Cuba, alla pace nel mondo, al povero Stefano Cucchi e il corpo provocante e sensuale che brama una violenta scopata indorata dalle frasi dei poeti maledetti…”.
Dopo decenni di surrealismo di massa, cioè di surrealismo ormai sterilizzato, Gori riesce a darcene esempi freschi e plausibili, come in “Quida al bonpino ferpetto”. Ma soprattutto, mentre ci fa slittare da un piano di senso all’altro, il suo zapping levigato e perentorio ci trascina quasi a nostra insaputa in un contesto d’impeccabile realismo. Ci si soffermi a pagina 24 sulla scena coi due ragazzi “mentalmente disabili” che in spiaggia si tengono per mano e che sembrano amarsi. Lei gli regala uno straziante piatto da mercatino; ma intanto lì vicino altri giovani se la ridono, e uno di loro promette al maschio che se rompe il piatto e fa piangere la quasi fidanzata potrà baciare una ragazza bellissima del suo gruppo. Intravedendo orizzonti un attimo prima inimmaginabili, il poveretto esegue con zelo e dà della brutta alla ormai ex amata, ma alla fine la bellissima rifiuta di baciarlo lasciando cadere un perfetto “Cioè raga, della serie… anche no!”. No infatti, non c’è salvezza: a chi non ha sarà tolto anche quello che ha, sembra ripeterci l’autore; e della vittima, per una legge fisica implacabile, si farà una vittima al quadrato o al cubo. Ma anche là dove in superficie prevalgono le immagini più fantastiche e iperboliche, sul piano sociopsicologico il taglio realistico rimane. In apparenza il racconto sulla percezione dell’Aids in un liceo autogestito di trent’anni fa è solo una serie di gag; nella sostanza, al contrario, propone una sequenza di fantasticherie assolutamente “vere”.
Come chi scrive, Gori appartiene a quella generazione: la generazione tagliata a metà dal confine tra i due secoli e cresciuta con gli exogini, i Marlene Kuntz, le madri che leggono Danielle Steel, i padri impiegati, i nonni contadini, e un enciclopedismo arlecchinesco assorbito per osmosi mediatica. I ventenni del Duemila hanno creduto a lungo che il welfare avrebbe confinato alla fiction tutto ciò che sapeva di morte. Di qui il loro strazio crepuscolare, a mano a mano che con la loro giovinezza hanno visto declinare l’Italia, e la Storia ovattata rifarsi cruda Natura. Allora il riso e il pathos si sono fusi in una gelatina informe. Comicità non equivale ormai a tragedia più tempo, perché il tempo è abolito; e così gli altri due termini. Perciò leggendo “Confessioni di una coppia scambista al figlio morente” non si ride come si ride a una sfilza di battute. Il riso semmai è un solletico che cresce e diminuisce a onde.
Perché Gori fa ridere, quando fa ridere? Credo dipenda dal fatto che rimette insieme due nostre metà che nella vita quotidiana si muovono schizofrenicamente. La schizofrenia, in breve, può essere spiegata così: da un lato il mondo ci dice ogni giorno che “tutto è possibile” senza limiti, ma dall’altro lato ci avvisa che “tutto è vietato” dai confini sempre più angusti della balcanizzazione identitaria, delle rivendicazioni corporative, di una burocrazia socioculturale che salda fittiziamente profili pubblici e privati (meno una persona avverte in sé la scissione, cioè meno ha bisogno di attraversare la sterminata foresta di simboli goriana per ritrovare un senso integro nella lingua e nel mondo, meno riderà, pur senza smettere di ammirare la bravura dello scrittore).
Nelle “Confessioni”, al contrario, le parole false della retorica tribunizio-manageriale, quelle altrettanto false della cosiddetta provocazione intellettuale o del politically correct, e quelle falsissime e via via più basiche dell’italiano emotivo, scorrono fluide rivelando la loro essenza senza contrasti – ma insieme, in controluce, ci mostrano i sentimenti indicibili, i terrori arcani, il sadismo che sono chiamate a nascondere. Gori ha scoperto insomma un modo credibile per scaricare energie e istinti che non possono più incanalarsi altrove, non almeno all’interno del “comico” nell’accezione corriva della parola; e facendosi largo nel folto dei gerghi o delle inibizioni culturaliste a colpi di culturalistico machete – a brigante, brigante e mezzo – è riuscito a ritrovare le espressioni e le cadenze di un lirismo da prosa d’arte (leggere “Veleno per topi” e “Letti”), che però incastonate nella sua cornice mantengono uno statuto indecidibile: non possono infatti essere accusate d’impudicizia facile o patetica, eppure spiattellano pateticamente tutto il magone di cui si nutre la raccolta, e denudano gli elementi primi del suo incessante Trionfo della Morte. Come molta letteratura notevole del ‘900, anche quella goriana è un’arte parafrastica. Da una parte Gori costeggia il burrone del superfluo, dall’altra una forma mascherata e raffinata di pompier. Per ora si muove sul filo, da equilibrista ben allenato. Speriamo che la Grande Tautologia Mediatica non lo inghiotta troppo presto.