Chissà come sarebbe un Giardino dei ciliegi fatto da Antonio Rezza e Flavia Mastrella. O un Amleto. Fino a poco tempo fa era una domanda da non porsi nemmeno, perché sul palcoscenico Rezza era quasi sempre da solo. Ma nel nuovo spettacolo, Hybris, le cose cambiano, la rappresentazione ruota sempre attorno al corpo e alla voce di Rezza ma il palcoscenico è pieno di gente. Perciò non sarebbe così assurdo domandarsi se nella maturità di questo scrittore e performer geniale non ci potrebbe essere una conversione al teatro tradizionale, alle storie scritte da altri, con un cast, un regista, se non altro per condividere la fatica. Solo che la sostanza, il contenuto di Hybris spinge nella direzione opposta.
Hybris comincia con un rantolo e finisce con un fischio, anzi con cinque minuti di fischi che a poco a poco, grazie al talento mimetico di Rezza, acquistano senso. Tra il rantolo e i fischi il monologo è costante e quasi ininterrotto. Rezza non ha mai parlato tanto, e tanto velocemente. Gli altri spettacoli erano successioni di quadri distinti, con certe parole-chiave che ricorrevano qua e là come Leitmotiv. Qui il quadro è unico, lo spazio per le invenzioni di Mastrella è meno grande che in passato, la storia è una sola, salvo il fatto che – come sanno gli ammiratori di Rezza – ‘storia’ non va inteso come un’ordinata successione di fatti ma come una situazione iniziale semplicissima che evolve nei modi più imprevedibili grazie ai movimenti dei comprimari e all’affabulazione del protagonista. C’è una porta, c’è Rezza che se la trascina dietro, ci sono i visitatori-scocciatori che vogliono e non vogliono entrare nella sua casa immaginaria, e c’è Rezza che vuole e non vuole uscirne per incontrare il mondo (questa dialettica tra dentro e fuori, tra chiuso e aperto, tra casa propria e casa d’altri è una delle chiavi dell’opera di Rezza-Mastrella, sin dai tempi dei magnifici sketch di Pitecus: c’è sotto una vocazione alla solitudine che combatte con una voglia anche gioiosa di essere nel mondo: e lo si vede nel foyer, quando dopo lo spettacolo Rezza saluta molto gioiosamente gli spettatori).
I corpi, le parole; e sempre meno trama, sempre meno ‘significato’. È la ricetta rezziana standard, salvo che qui ci sono ancora più corpi e – incredibilmente, per chi ha in mente la logorrea passata – ancora più parole. Hybris corona quell’evoluzione dal figurativo all’informale che sembra essere una delle cifre degli ultimi lavori di Rezza-Mastrella. Nel loro magico pentolone si raffina da anni una surrealtà sempre più pura e immateriale che, più che nel teatro, cerca i suoi termini di paragone (e forse la sua ispirazione) nella musica o nella pittura astratta. È una vera, rara esperienza artistica, di impareggiabile originalità; in più, come sempre, fa molto ridere.