Il paesaggio che sta scorrendo fuori dal finestrino del treno Montreal-Québec è più o meno quello che Flaiano ha visto mezzo secolo fa durante il suo ultimo viaggio canadese: boschi di aceri, casette in legno, campi coltivati a perdita d’occhio. Non dev’essere cambiato molto da allora, in questo semi-vuoto.
Era l’estate del 1971, un lungo soggiorno, da fine luglio a fine settembre. Tornato in Italia, Flaiano riprese a lavorare ai tanti progetti aperti. Era uscito da poco Il gioco e il massacro, stava mettendo insieme i pezzi che avrebbero formato Le ombre bianche. Ma nel novembre del 1972 ebbe un secondo infarto, a distanza di due anni dal primo che lo aveva costretto a riposo per settimane ma che gli aveva anche donato, come scrive all’amico Aldo Tassone, un’inattesa lucidità: «storia penosa», l’infarto appunto, «che ha portato dapprima disordine ora chiarezza nella mia vita». Solo che stavolta non si riprese. Dopo una decina di giorni d’ospedale ebbe un terzo attacco e il 20 novembre morì. Così, il documentario Oceano Canada girato insieme a Andrea Andermann, cinque puntate di una quarantina di minuti per la Rai, è stata probabilmente l’ultima cosa che questo virtuoso del frammento e del nonfinito è riuscito a concludere.
Pochi scrittori italiani della sua generazione hanno viaggiato tanto quanto lui, soprattutto nell’ultimo decennio della sua vita, quando la fama di sceneggiatore di Fellini – che non lavorava più con Fellini – faceva sì che lo chiamassero a collaborare registi, sceneggiatori e produttori, soprattutto in Francia e, appunto, in Canada. Nel 1965 ci era andato un paio di volte, prima a febbraio e poi in estate, prima a Noranda poi a Montreal, invitato da Gian Vittorio Baldi e dall’Office National du film du Canada per lavorare a un film che non verrà mai realizzato, Le voyageur. Poi, nuovo soggiorno nel febbraio del 1966: «Sabato prossimo, 12, partirò per il Canada e l’America (S.U.) a finire un odioso lavoro di cinema, vi starò una ventina di giorni, forse un mese, non so» (lettera del 9 febbraio a Dianella Selvatico Estense). E infine questo documentario per la Rai, girato nell’estate del 1971, prodotto tra 1971 e 1972 e mandato in onda all’inizio del 1973, quando lui era già morto.
Pochi hanno viaggiato tanto, ma pochi meno di lui hanno amato viaggiare, almeno se si dà retta ai lamenti che punteggiano i diari e le lettere: «Viaggiare? Comincio a sentirne il fastidio: non cambierei d’umore cambiando luogo. I musei, le bellezze artistiche… Allora i buoni alberghi, le trattorie famose! Oh, il guaio dell’albergo, dove bisogna disfare la valigia, e ci si ritrova in un letto sconosciuto con i frivoli giornali e le riviste che abbiamo preso per viltà, per non restare soli. E le trattorie. Tutto bello, piacevole, all’inizio. A metà del pranzo l’incanto è sfumato, non resta che finire presto e andarsene». È il genere di stanchezza e di disillusione che si avvertono anche nelle sue ultime prove narrative, Oh Bombay! e Melampus, che sono appunto storie amare di espatriati somigliantissimi a lui.
Il fatto è che, com’è ben noto, non amava neppure la stanzialità, non gli piaceva stare a Roma, che pure era la sua città da quand’era ragazzino (era nato a Pescara nel 1910, si era trasferito a Roma per studiare nel 1922, proprio nei giorni della Marcia): «Roma mi respinge. Dappertutto una diffusa volgarità, facce che invecchiano senza grandi vizi, per una accettazione abitudinaria alla vecchiaia, come deve essere in un campo di concentramento […]. Ma Roma, soprattutto, questa città che non mi riguarda assolutamente, che non riuscirò mai a capire, perché non mi piace. Non è una città, un bivacco sulle rovine, aspettando tempi migliori, che non vengono mai».
Lasciare Roma, allora, tornare in Abruzzo, esiliarsi nella casetta di Fregene? Non sarebbe stato possibile, per il lavoro; e non sarebbe bastato. Il fatto è che più invecchiava più gli pesava il rapporto con gli altri («Mi piacerebbe essere un vulcanologo o un etruscologo, vivere tra le tombe etrusche o sui vulcani, con uno stipendio modesto, senza conoscere niente di quel che conosco e che non posso fare a meno di disprezzare»: lettera a Giambattista Vicari, 20 gennaio 1956), specie se questi altri erano italiani. E la famiglia non era una consolazione. Il suo bisogno di solitudine consumava il rapporto con la moglie; amava teneramente la figlia disabile, ma la sua disabilità – come potrebbe essere diversamente – lo riempiva d’angoscia.
Ma più di Roma, più del lavoro ingrato di sceneggiatore, più dell’infelicità domestica, lo tormentava l’idiozia circostante. Ci sono quelli che la notano e si divertono a vivisezionarla, come Arbasino o Fruttero & Lucentini o la sua quasi coetanea Camilla Cederna; ci sono quelli che reagiscono con rabbie apocalittiche, come Ceronetti, uno dei suoi corrispondenti degli ultimi anni. In Flaiano, invece, l’assedio dell’idiozia generava piuttosto una disarmata afflizione. Possibile che fossero tutti così fessi? Possibile. Forse l’unico posto che gli andasse a genio, dopo i cinquant’anni, era la Svizzera: linda, ordinata, sottopopolata, il paradiso del misantropo. Il 31 dicembre del 1971 parte per Montreux solo per evitare di essere assordato dai botti di capodanno. Non ci sono taxi, un amico si offre di portare i Flaiano alla stazione. Non ci sono facchini, un abusivo gli spilla una cifra esorbitante per portare le valigie al treno. È pomeriggio, ma il concerto degli spari è già cominciato. Partono, passano la notte di Capodanno in treno. «Alle undici della mattina dopo arriviamo a Montreux […]. La città è deserta. Un sole pallido sfiora la nebbia del lago. Cigni, anatre e gabbiani lungo la riva. Passeggio tranquillo».
*
La sigla di Oceano Canada è Avalanche, una delle canzoni più belle di Leonard Cohen, già allora gloria canadese che però nel 1971 in Italia non conosceva quasi nessuno. Adesso anche Cohen è morto, e la sua faccia gigantesca sorride dal muro di un condominio di venti piani di Montreal, tra il Museo delle Belle Arti e la nuova sede della Concordia University. Lo sfondo della sigla è fisso: ombre nere su fondo bianco nelle quali, allargandosi l’inquadratura, si riconosce un branco di bovini sorvegliati da un cowboy a cavallo. Dai titoli di testa e di coda molto scarni, in tutto sei o sette nomi di collaboratori, non si capisce chi l’abbia realizzata, ma pur nella sua semplicità questa sigla è alto artigianato, e prepara benissimo al tono e al sentimento dominanti nel documentario: gli ampi spazi deserti, la forza della natura, la piccolezza degli esseri umani, la lentezza. Non si riesce a capire neanche chi ha curato il commento musicale delle varie puntate ma, chiunque sia stato, anche lui sapeva il fatto suo: a parte Avalanche e Teachers di Cohen, ci sono Where Do the Children Play? di Cat Stevens, Rhymes and Reasons di John Denver, Me and Bobby McGee di Kris Kristofferson e Janis Joplin, ma con arrangiamento country e – splendida finezza, nella puntata dedicata agli Inuit canadesi – Little Wheel Spin and Spin della nativa americana Buffy Sainte-Marie (un paio d’anni prima era uscito il suo disco più famoso, Illuminations).
Dopo la sigla arriva lui, Flaiano. Basso, tarchiato, baffoni come non se ne vedono più, se non sotto il naso degli eccentrici. Porta bene i suoi 61 anni. Siamo nella Gaspésie, la regione che costeggia il lungo estuario del fiume San Lorenzo, nel punto in cui il fiume diventa Oceano Atlantico. Si chiama – dice la voce simpatica, un po’ trascinata di Flaiano – Capo delle Rose, perché «il primo europeo che lo superò, Jacques Cartier, vide che vi fiorivano delle strane piccole rose settentrionali. Su questi scogli hanno fatto naufragio decine e decine di navi». A sud-ovest c’è il Québec, la cittadina di Nicolet, fucina di seminaristi e preti cattolici, poi il capoluogo della regione Quebec City, o Ville de Québec, a seconda. (A elencare regioni e città si fa in fretta ma, apro questa piccola parentesi personale, il fatto è che il Canada è davvero molto grande. Per saperlo non è strettamente necessario andarci, basta l’atlante DeAgostini. Ma neppure l’atlante è sufficiente quando, com’è il mio caso, non si è bravi coi numeri o si è distratti, e si fatica a mettere a fuoco la scala delle distanze, cioè il rapporto tra la mappa del territorio e il territorio medesimo. Bref, sbarcato a Quebec City mi figuro di ‘fare un giro’ nella Gaspesie sulle tracce di Flaiano, e anziché affittare una macchina mi butto sugli autobus, come farebbe Alessandro Di Battista, per avere un contatto autentico con la gente del posto, e se non con gli ultimi coi penultimi, perché qui in autobus tra città e città ci vanno solo i bambini o i vecchi o i poverissimi. Solo che le distanze sono, appunto, continentali, e per spostarsi di un pollice sulla cartina ci vogliono giornate intere, e alla fine l’autobus ti scarica in un parcheggio in mezzo al niente, a cinque chilometri dall’agognato lungofiume. E insomma alla fine vedo quasi solo alberi).
Invece Flaiano viaggiava più rilassatamente, e con larghezza di mezzi: la Rai evidentemente non badava a spese, a quei tempi. Due mesi pieni con la troupe in Canada. Treni e aerei e alberghi e pasti ed extra pagati… Siamo nati tardi.
A Québec città Flaiano alloggia allo Château Frontenac, il vecchio albergo costruito dalla Canadian Pacific sulla linea della ferrovia, oggi un cinque stelle molto lussuoso. Dalla finestra della sua stanza avrà visto la città enorme e deserta, verdissima, le ciminiere sullo sfondo, il lungofiume coperto dai capannoni del porto. Non era un fan dell’arte contemporanea («Rapida visita alla Quadriennale. La buona volontà sostituisce spesso l’ingegno. I giovani hanno quasi tutti il coraggio delle opinioni altrui. Nella maggior parte, non hanno niente da dire ma lo dicono lo stesso e corrono avanti per non restare indietro, fastidiosamente, come i cani nelle passeggiate»: Diario notturno); perciò è probabile che, se fosse stato vivo in questo autunno 2022, non avrebbe apprezzato granché le bizzarrie e la politically-correctness della mostra America al Musée des Beaux Arts. Invece avrebbe molto riso, nella splendida cornice del Musée de la Civilisation affacciato sul San Lorenzo (realmente splendido, uno di quei tanti musei contemporanei che sarebbero una gioia per l’occhio se l’occhio non inciampasse ogni tanto in installazioni assurde che sembrano prelevate da Da dove vai in vacanza?), avrebbe molto riso vedendo questa mostra dedicata alla merda, Oh Shit!, frutto come si dice della sinergia tra storici dei costumi e ingegneri-biologi: un occhio al passato (come, dove si defecava) e uno al futuro (che faremo di tutta questa merda quando saremo dieci miliardi? Ma già adesso che siamo otto).
Dopo i grandi spazi della Gaspésie e del Québec, la concitazione delle grandi città, Montreal e Toronto.
A Montreal, in mezzo a Rue Sainte-Catherine, col sigaro in bocca, Flaiano snocciola statistiche su etnie e religioni, intontito dal famoso melting pot: «su cento passanti che incontro, le statistiche mi dicono che 46 sono protestanti, 45 cattolici, 3 ortodossi, 3 ebrei, 1 feticista, 1 buddista e 2 agnostici. Questo Paese ha 9 milioni di anglosassoni, 6 di francesi, 1 milione di tedeschi, mezzo milioni di ucraini, 600mila italiani, altri 600mila olandesi e altrettanti scandinavi, 400mila polacchi, 200mila ebrei, quasi altrettanti russi e 1 milione di altri europei. Aggiungetevi 100mila cinesi, e poi 200mila indiani, che assieme ai 20mila esquimesi sono i canadesi da sempre, forse gli unici canadesi». Per verificare come funziona questa società così mescolata va a vedere le scuole di lingua per gli immigrati (deliziose riprese di interni con i deliziosi vestiti degli anni Sessanta e Settanta, le acconciature, gli arredi ufficio, i telefoni in bachelite), poi naturalmente focus sulle comunità italiane, l’abruzzese in particolare.
A Montreal c’è la chiesa di Notre-Dame de la Défense con affreschi raffiguranti, in mezzo a Cristo e ai santi, anche i quadrumviri e il Duce (si era all’indomani dei Patti lateranensi). A Toronto, visita all’Ontario Science Center, un museo della scienza super-moderno in cui i visitatori possono interagire, toccare, sperimentare, passando «da un banco all’altro spinti solo dal loro estro» (Flaiano si fa strada tra i bambini e cerca di aprire una cassaforte, ma non ci riesce, e la sua reazione sconsolata mi fa capire, finalmente, anzi mi fa vedere a chi assomiglia, nel corpo e nei gesti: ma certo, l’ispettore Clouseau!). Dopo il museo, visita alla stazione radio CHIN dell’immigrato lucano che ce l’ha fatta, Johnny Lombardi; intervista a Lombardi, reduce della Normandia e del Belgio, che alla fine presenta a Flaiano il padre arrivato lì bambino alla fine dell’Ottocento da Pisticci. Analfabeta, «una volta guardava le pecore». Adesso ha 87 anni, tace ma sembra felice mentre il figlio gli prende affettuosamente la guancia tra le dita. In sottofondo si annuncia una prossima festa italiana con Nicola Di Bari e i Vagabondi, la compagnia di Nino Taranto, Otello Profazio, «le scalpitanti sorelle Kim». Poi s’intravede una delle speaker, qualcuno fa il nome di Luciana Marchionne: che sarà proprio la sorella di Sergio (erano emigrati a Toronto nel 1966, lei era del 1943, morirà prestissimo, nel 1980).
Uno però non guarda un documentario sul Canada per vedere le città, e Flaiano non era lì per questo. Il Canada, annota, è «grande trentaquattro volte l’Italia con poco più di un terzo dei suoi abitanti […]. Fuori delle grandi città la solitudine può essere la condizione normale, la chiave dell’esistenza». Forse è anche per questo che, dopo i mesi inconcludenti che ci aveva passato nel 1965, ha deciso di tornarci: perché a un certo punto la solitudine era diventata la chiave della sua esistenza. «Vado – scrive ad Andrea Emo nel luglio del 1970 – verso una specie di solitudine scandinava, evitando di leggere i giornali, sforzandomi di credermi uno straniero: in modo da trovare non dico piacevole ma anche stimolante il mio soggiorno in questo paese caratteristico» (il «paese caratteristico» naturalmente è l’Italia non il Canada).
Perciò non è strano che le parti più belle di questo documentario siano quelle in cui il Canada offre al viaggiatore qualcosa di simile a questa stimolante «solitudine scandinava»: non la concitazione ma la calma, non le città ma i villaggi, non le scene di gruppo (una particolarmente crudele: la hall di un albergone per villeggianti sul lago Lewis piena di pensionate wasp riprese in primissimo piano, le facce grinzose, grigie, cattive) ma le interminabili, lentissime conversazioni con i canadesi che vivono nel freddo e nell’isolamento delle Grandi Pianure. Andermann, se è lui a girare, ha poi un modo semplice ed efficace di fare le interviste: primi piani sempre, lunghi indugi sulle facce anche quando gli intervistati non parlano, i tempi dilatatissimi che la televisione di una volta concedeva.
Flaiano era attratto dalle vite diverse dalla sua, soprattutto dalle vite più semplici, con meno scelte a disposizione: specie negli ultimi anni avvertiva un disagio della civiltà che lo portava a immaginare alternative, anche quando raccontava storie inventate (non sono a loro modo esperimenti di fuga, Oh Bombay! e Melampus?). In Canada non serve nemmeno inventare, basta allontanarsi dalle città per incontrare gente la cui esistenza – c’è sempre un verso di Larkin che fissa l’essenziale – «viene chiarificata dalla solitudine».
A Cardston, una di quelle cittadine dell’Alberta nate attorno ai silos di grano, va a trovare «un amico conosciuto sei anni fa», il cowboy mormone Wallace (a Cardston c’è uno dei tre templi mormoni americani: «un altro è a Salt Lake City, e l’altro non so»: prima di internet si poteva anche non sapere, e non curarsene, e dirlo). Lui e la moglie hanno fatto la luna di miele a cavallo, in mezzo a orsi, cervi, bisonti: «poi andammo ad abitare in una piccola casa accanto a un fiume. Lì sono nati cinque figli». E qui minuti e minuti di Wallace che doma il cavallo, in groppa al cavallo, a cavallo con i figli; e minuti e minuti di niente, solo silenzio e paesaggi, e alla fine Avalanche di Cohen che accompagna il cowboy Wallace al galoppo accanto al treno che riporta Flaiano e la troupe in qualche città.
Poi ancora verso nord, si resta per qualche giorno nella riserva dell’«indiano» Rufus, che «ha vissuto per trent’anni fra i bianchi» facendo qualsiasi cosa, dallo scaricatore di porto al lottatore, e che adesso ha un rigetto nei confronti della civiltà, e maledice la velocità, l’orologio che ha al polso, la tecnologia, la terra che «sta cominciando a marcire», la devozione al «sacro dollaro». Dice: «Io so che col tempo vinceremo», ma intanto tutta l’attenzione di Flaiano e di Andermann è concentrata su una bambina col moccio al naso che armeggia con un piccolo falò.
È l’annuncio del pezzo migliore, dei minuti più ispirati di Oceano Canada. Da Montreal, la troupe parte di notte in aereo per la foce del fiume McKenzie: passeranno il ferragosto tra gli Inuit, nel villaggio di Tuktoyaktuk. C’è un vecchio cacciatore nomade che gli fa da guida e spiega com’è cambiata la vita da quando’era ragazzo: «Mi chiamo Jimmy Walkie, e sono nato nomade in qualche posto nell’Artico». Ora non è più nomade, non va più a caccia per mesi da solo nella tundra; ha una casetta in muratura, otto figli, la moglie lavora in un laboratorio di pellicce come tutte le donne del villaggio, le provviste le comprano all’emporio: «Il divertimento di tutti i bambini e guardare i grandi che fanno le spese». Sullo sfondo s’intravedono i radar di una base NATO, si sta decidendo se autorizzare o no la costruzione di un oleodotto. È chiaro che Flaiano ha sotto gli occhi la rapida fine di un mondo. Ci vuole un’immagine di sintesi, un emblema, ed ecco che spunta un’altra bambina. Laverne ha undici anni, è orfana e di lì a poche ore partirà per andare «a sud», a studiare in un collegio.
Perché sei venuta a trovarci?
Perché ne avevo voglia.
Soltanto per questo?.
Mmm.
La conversazione continua, prima in cucina poi all’aperto, tra le tombe di un minuscolo cimitero. Chi si è ammazzato con l’alcool, chi si è sparato, chi è morto a dieci anni congelato perché l’hanno lasciato all’aperto per distrazione. «Qui – dice Laverne arrampicandosi sulle croci – c’è mia nonna. Vivevo con lei sino a tre mesi fa, quando è morta. Il missionario dice che è andata in cielo, io dico che sta qui, ho visto quando l’hanno seppellita». Altra tomba, altra croce: «E qui c’è il mio fratellino morto a tre anni perché aveva mangiato un fiore di plastica. Come questo».
Il testo di Oceano Canada si può leggere nel volume degli Scritti postumi pubblicato da Bompiani una ventina d’anni fa, ma nella trascrizione non c’è proprio tutto quello che dicono gli intervistati, e naturalmente il racconto di Flaiano non riesce a restituire, sulla carta, le inflessioni di voci tanto diverse: nel caso di Laverne, in particolare, la lettura non rende minimamente l’idea della tenerezza e insieme della forza di queste immagini, bisogna proprio vederle. E la medesima considerazione vale per le battute che chiudono la quinta e ultima puntata del documentario, pronunciate di fronte alle cascate del Niagara. Flaiano fa una barchetta con un foglio di appunti mezzo scritto, ci mette un sassolino dentro perché navighi meglio e conclude: «Niagara. Gli irochesi lo chiamavano Onguiaahra, che vuol dire Tuono divino. Ogni secondo rovescia sei milioni e 180mila litri d’acqua. Lo si può guardare per ore, affascinati, leggermente increduli. E come succede a molti, tentati di buttarcisi dentro».
Nella premessa alle Lettere a Lilli (Archinto, Milano 1986) Giuliano Briganti scrive che «di conoscere più intimamente Flaiano mi accadde solo nel corso dei suoi ultimi anni, cioè verso il Settanta, e il pensiero di aver mancato l’occasione di una più lunga amicizia è ancora per me causa di profondo rimpianto». A giudicare dall’epistolario, è stato un rammarico di molti: non averlo conosciuto o, avendolo conosciuto, averlo potuto frequentare soltanto di rado, e per poco tempo. Il suo vizio dell’absence ne faceva un ospite raro, e anche per questo ambìto. Leonardo Sciascia è uno di quelli che non fecero in tempo ad incontrarlo: «Rimpiango di non averlo conosciuto», scrive in Nero su nero:
Benché avessimo un grande comune amico: Maccari, nel cui studio di via del Leoncino sempre ci sbagliavamo di poco, ad incontrarci. “C’è stato Flaiano”, mi diceva a volte Maccari; oppure: “Flaiano verrà nel pomeriggio”, quando io nel pomeriggio dovevo partire. Dieci giorni fa, incontrando Maccari a Mazzarò, subito gli ho detto che avevo sperato fosse venuto con Flaiano. “È in una delle Americhe, non ricordo quale”, mi rispose Maccari. Forse scherzava, forse davvero Flaiano era andato in una delle Americhe. In questo nostro paese quant’è difficile incontrare le persone che veramente si stimano e si ammirano; e quanto facile, fino all’esasperazione, incontrare invece quelle che profondamente disistimiamo.