Libri

Sui capitoli burleschi di Benedetto Varchi

Domenicale del Sole 24 ore4 Dicembre 2022

La Varchi-Renaissance a cui stiamo assistendo in questi anni (ne dà la misura la bibliografia raccolta da Annalisa Andreoni nella recente voce per il Dizionario Biografico), con nuovi studi sulla vita, monografie sulle opere, nuove edizioni (ma si aspettano ancora, tra le importanti, quelle dei Sonetti e della Storia fiorentina, cui sta attendendo Dario Brancato), ci consegna adesso il più allegro dei testi varchiani, ovvero sequenza di testi: i sei capitoli burleschi che – l’esatta cronologia si deve alla curatrice Selene Vatteroni, così come il testo critico e il commento – Varchi scrive tra il 1532 e il 1536, negli anni in cui risiedeva nella villa di Camerana, sotto Fiesole, durante il governo di Alessandro de’ Medici, primo duca di Firenze: attorno ai trent’anni, insomma, lavorando contemporaneamente su tavoli anche molto diversi (la lirica petrarchista, la poesia latina, le opere di Cicerone).

Si tratta di cinque capitoli in terza rima che fanno l’elogio di altrettanti oggetti (le tasche) o cibi (i peducci, cioè gli zampetti bolliti; le uova sode; il finocchio; le ricotte); e di un sesto capitolo beffardamente palinodico contro le uova sode. La qualità letteraria non è paragonabile a quella del maestro del genere, Francesco Berni, ma i meccanismi che governano la parodia sono più o meno gli stessi, sì da definire una sorta di grammatica del genere. L’elogio si articola spesso come iperbole comica: «Se si potessi, quando l’huomo è morto, / mangiar sempre di queste [le uova sode] a crepacòre, / io harei del morir qualche conforto»; la lode dell’oggetto implica il biasimo degli immaginari detrattori: «Bene è colui nimico della fede / che di fuor non s’allegra e drento gode / quando in un piatto una ricotta siede»; la forma dell’elogio assomiglia talvolta alla priamel classica: si isola cioè l’oggetto elogiato e gli si contrappongono altri oggetti della stessa specie i quali, nel paragone, risultano soccombenti perché meno belli buoni piacevoli: così il lungo esordio del capitolo sulle Tasche (e così, per un confronto, Berni nel Capitolo delle pesche: sono buone le «mele rose, appie e francesche / pere, susine, ciriegie e poponi», ma «non hanno a far nulla con le pesche»).

La Nota ai testi, che occupa metà del volume, fa i conti con una tradizione testuale complessa, anche perché affidata in parte a manoscritti e in parte a stampe: ma Vatteroni dimostra qui lo stesso ammirevole rigore e la stessa sicurezza di giudizio che erano già evidenti nell’edizione critica dei Sonetti del trecentista Ventura Monachi procurata alcuni anni fa (e non è davvero da tutti, specie se si considera la giovane età della studiosa, orientarsi con tanta disinvoltura in tradizioni testuali così diverse e difficili).

Il commento è misurato, non divagante e non pletorico. Non sono convinto che la satira antifratesca del capitolo sulle Tasche – tanto è topica – abbia bisogno per essere spiegata dell’ipotesto dei pamphlet di Erasmo, come si argomenta nell’introduzione: bisogna forse resistere alla tentazione di cercare filigrane colte in una musa tanto pedestre. Mentre – come prova l’elementare grammatica cui alludevo sopra – è giusto concentrare l’attenzione su quella specie di koinè burlesca che si forma e consolida nel corso del Cinquecento e rappresenta il contesto immediato entro il quale i capitoli varchiani vanno compresi: Berni, Molza, Lasca, Franzesi, più indietro Pulci e Burchiello. Ora proprio questo continuo paragone suggerisce la domanda che sempre ci si pone di fronte a testi di questa natura: in che misura il poeta parla di uova, ricotta, finocchi eccetera intendendo in realtà parlare d’altro? Attraverso gli elogi iperbolici di questi e altri alimenti, bisogna credere che il poeta alluda ai piaceri del sesso, a peni, natiche, vagine? Vecchia questione, non solo perché agli studiosi tocca riaffrontarla ogni volta, ma perché questa ambiguità sembra essere attiva sin dagli albori della poesia italiana, dai duecentisti Rustico e Cecco Angiolieri e Dante in tenzone con Forese Donati, ai poeti umbri del Trecento e a Boccaccio, e poi Burchiello e i burchielleschi, e Berni… Ma anche al di là dei tanti casi individuali, esiste un Grande Codice burlesco, nel quale a determinati nomi od oggetti corrispondono determinati termini che appartengono alla sfera sessuale? Mi pare che Vatteroni imposti la questione (che per il commentatore è una questione pratica: come parafrasare il testo) in maniera molto equilibrata: «nei berneschi gli oggetti della lode sono traslati osceni, e le norme per il loro utilizzo e imbandigione si lasciano interpretare come regia di comportamenti sessuali, per lo più di tipo sodomitico; tuttavia, è bene non forzare l’interpretazione ‘a chiave’ […] come invece fa Toscan» nel noto repertorio Le carnaval du langage.

Vale a dire: che in questo genere di letteratura la descrizione-elogio delle pesche (Berni) o delle uova sode (Varchi) adombri una descrizione-elogio delle natiche, e quindi mediatamente della sodomia e dell’omosessualità, è senz’altro vero; che anche i più minuti dettagli di quella descrizione-elogio vadano spiegati all’interno di quel quadro ermeneutico, pare contestabile: o per lo meno non sembra avere sempre la forza dell’evidenza. Perciò anche qui, forse, si sarebbe dovuta raddoppiare la prudenza, evitando di cercare sottosensi là dove l’espressione sembra filare benissimo così com’è. Se, poniamo, in Berni «quel cotale con che si tura» è il pene, non direi che, in Varchi, il semplice dimostrativo cotale debba o possa avere il medesimo significato (Tasche, v. 96), o che ce l’abbia tutta l’avifauna che, in questi capitoli sulle pietanze, non può non saltar fuori con una certa frequenza; oppure che dalla massima «Sanno fino a’ beccai che presso a l’osso / più saporita la carne si truova» si possa dedurre l’allusione oscena al burchiellesco «carne senza osso» (sempre il membro). In casi simili, mi pare, è meglio non vedere che vedere troppo.

Benedetto Varchi, Capitoli burleschi, a cura di Selene Maria Vatteroni, Salerno Editrice, 34 euro.

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