A sessantacinque anni dalla morte (1957) la stella di Eric Auerbach continua a brillare: più di quella dei padri fondatori della filologia e della critica vissuti nella prima metà del Novecento, più di quella di qualsiasi critico letterario venuto dopo. Se ci domandiamo il perché di questo lungo successo viene in mente più d’una spiegazione. La più banale è che Auerbach ha dato alle sue idee sulla letteratura la forma di libri-visione, con Mimesis e con Lingua letteraria e pubblico, o di raccolta organica, con gli scritti su Dante, mentre i suoi grandi contemporanei, e molti successori, hanno preferito la forma del saggio breve o della monografia su questo o quel determinato autore od opera. Mimesis, in particolare, parla di tutta la letteratura europea di tutte le epoche, perciò è un libro che sta bene in qualsiasi syllabus, su ogni scrivania o comodino dello studente di letteratura. D’altra parte, il metodo e il punto di vista di Auerbach sono ecumenici, cioè tali da accontentare (o non scontentare) un po’ tutti: il lettore interessato alla retorica e allo stile ci trova l’explication de texte, il lettore interessato alle avventure nella storia culturale ci trova i concetti-guida e le sintesi coraggiose (la creaturalità, la cesura dei Vangeli nella storia del realismo occidentale, la nozione di figura eccetera). E poi c’è il semplice fatto che Auerbach è straordinariamente abile a spiegare la letteratura: sempre saggio e misurato nell’analisi (mentre Spitzer, poniamo, sembra a volte voler vedere troppo nei suoi campioni testuali: per non parlare dei suoi imitatori); dottissimo, ma con una bella, rilassante voce di didatta (mentre Curtius a volte annoia con l’erudizione). Uno rilegge il primo capitolo di Mimesis, o quello su Farinata e Cavalcante, o il saggio su Dante poeta del mondo terreno, o le pagine su Rousseau, Montaigne, Baudelaire, e resta ammirato da tanta capacità di vedere le cose e spiegarle (in ciò ricorda non un altro letterato ma un grande storico delle idee, Isaiah Berlin, con cui condivideva la devozione per Giambattista Vico).
Che Auerbach sia ancora veramente letto, è un altro discorso. Per gli studenti universitari comincia a diventare indigesto. Si raccomanda Mimesis, lo si assegna come lettura facoltativa, magari solo il primo volume; ma il modo in cui Auerbach maneggia la storia e la storia delle idee è semplicemente troppo difficile. Così si finisce per ripetere a pappagallo, acriticamente, e non solo da parte degli studenti, le due-tre tesi che sembrano innervare il libro (ma questo vale forse per ogni libro importante e complicato). E del resto è probabile che la stella di Auerbach continui a brillare soprattutto in un paese come l’Italia, in cui per ovvie ragioni storiche intorno alla romanistica permane un’aura di rispetto, e in cui la comparatistica non ha (ancora?) preso la strada vacuamente iper-attualizzante e iper-politica che ha preso in altri paesi, e insomma ha ancora a cuore la tradizione umanistica e cristiana, e ciò che nel solco di questa tradizione è stato scritto – diciamo – da Omero alla Seconda guerra mondiale. Ma mi pare che l’aria stia cambiando, anzi sia già cambiata, e temo che la devozione ad Auerbach sia ormai per gran parte lip service: lo si elogia, ma non se ne discutono puntualmente le tesi (con rare eccezioni: di recente, Emilio Torchio sulla applicabilità, ovvero sulla non-applicabilità dell’interpretazione figurale alla Commedia, a mio avviso con piena ragione).
Con tanto maggiore gratitudine si accoglie un volume come questo, che raccoglie saggi minori e recensioni di Auerbach sotto il non modesto titolo Letteratura mondiale e metodo: gratitudine per il piccolo editore Nottetempo, che ha varato questa collana di classici della saggistica, facendo quello che dovrebbero fare gli editori più grandi, troppo impegnati a inseguire le mode, anche quando le mode producono paccottiglia; e gratitudine per Guido Mazzoni che ha scritto il saggio che apre il volume, un saggio come sempre pieno d’intelligenza e dottrina, e scritto con la solita ammirevole chiarezza (il dialogo sarebbe con lui, più che con Auerbach: ma richiederebbe pagine, non righe).
In realtà, di metodo e di letteratura mondiale parla solo una parte degli scritti qui raccolti.
Personalmente, non sono mai stato un ammiratore del primo, il più vichiano, che s’intitola appunto alla Weltliteratur e va letto in continuità con l’ultimo capitolo di Mimesis, pubblicato appena sei anni prima; mentre ho sempre trovato esemplari sia gli Epilegomena a Mimesis sia le cinque paginette anteposte alle Quattro ricerche sulla storia della cultura francese – esemplari anche nel loro acuminato buon senso: «la ricerca letteraria possiede tradizionalmente metodi suoi propri, cioè i metodi filologici, gli unici che io consideri indispensabili. Bisogna imparare grammatica e lessicografia, ricerca delle fonti e critica dei testi, bibliografia e tecnica di raccolta; bisogna imparare a leggere coscienziosamente. Tutto il resto non è metodo perché non è insegnabile» (resta misterioso come questo programma così grigiamente vetero-umanistico abbia potuto e possa accordarsi con l’anti-filologia di certa teoria letteraria corrente: ma come accennavo, ognuno si ritaglia l’Auerbach più funzionale ai propri scopi). Questi sono i primi tre saggi. Ma poi ce ne sono ben sette su Vico, che Auerbach aveva tradotto nel 1924 e che per tutta la vita considererà come uno dei suoi maestri, colui che per primo aveva saputo elaborare il tipo di prospettiva storicista entro la quale egli riteneva di collocarsi, una prospettiva – come scriverà in Mimesis – secondo la quale «ciò che è importante ed essenziale non si può rintracciare nelle conoscenze generali e astratte», né soltanto «sulle vette della società […] ma anche nell’arte, nell’economia, nella cultura materiale e spirituale, nelle profondità della vita quotidiana e popolare», e insomma in quel complesso di idee e nozioni eminentemente storiche che il suddetto metodo filologico (o vichiano) dovrebbe provvedere allo studioso capace.
Nel campo degli studi letterari ci si divide – estremizzando, sia chiaro – tra chi va in cerca delle sintesi e perciò si sforza di trovare grandi idee-guida che permettano di guardare dall’alto le mutevoli vicende della storia letteraria, e chi invece pensa che la storia letteraria sia più o meno ciò che è la storia secondo il celebre detto dei nichilisti: «just one damn thing after another».
Il primo genere di lettore raccoglierà quasi con divertimento i tanti passi in cui Auerbach rimprovera agli insigni colleghi che recensisce una certa debolezza o timidezza nell’articolazione concettuale del discorso, contro-proponendo più o meno esplicitamente la propria – come la definisce – «topologia storica»: Spitzer è bravissimo, ma adopera categorie elaborate da Freud, Bergson, Vossler, Wölfflin, Heidegger, Otto, Huizinga, sicché «le leggi secondo le quali ordina la materia non sono sue»; Olschki «ha estrema dimestichezza con i grandi problemi della Geistesgeschichte medievale», ma essi «non giungono a costituire lo spirito della trattazione, perché la costante consapevolezza della varietà della materia impedisce a Olschki di strutturare l’insieme»; la Storia della critica di Wellek «dà al lettore una quantità di insegnamenti e di stimoli» ma «non una visione unitaria, non vera storia».
Il secondo genere di lettore apprezzerà invece la saggia empiria degli scritti metodologici a cui ho già accennato, e la miriade di minute intelligenti osservazioni che Auerbach dissemina nelle sue pagine anche quando guarda i testi dai meandri della filosofia della storia; ma non potrà sottoscrivere programmi reboanti come «La nostra patria filologica è in ogni caso la Terra; la nazione non lo può più essere. La cosa più preziosa e indispensabile che il filologo può ricevere in eredità è […] la lingua e la cultura della propria nazione; ma solo separandosene e superandole queste divengono efficaci». Buona ricetta per Auerbach, forse; viatico al dilettantismo, o alla chiacchiera, per quasi tutti gli altri.
Erich Auerbach, Letteratura mondiale e metodo, Nottetempo, Milano 2022.