Islanda/1. C’è questo film di qualche anno fa che ha come protagonisti un giovane uomo e una giovane donna (lui è Will Ferrell) che sin da bambini sognano di rappresentare l’Islanda all’Eurovision Song Contest e di vincerlo. Lei è piuttosto dotata ma timida, lui è un po’ scemo, non sono mai usciti dal villaggio nord-islandese dove sono nati, Húsavík, rinomato per la pesca e l’avvistamento delle balene, si presentano alla pre-selezione del Söngvakeppnin (una specie di Sanremo ancora più casereccio) ma non hanno lo straccio di una chance. Solo che per un caso fortunato (o è un sabotaggio?) tutti gli altri concorrenti islandesi muoiono in un incidente, così tocca a loro. Partono per la finale a Edimburgo e qui succedono tante cose, e fra le tante c’è da far fronte all’insidia di un cantante avversario molto affascinante ma mellifluo, invadente, aggressivo, probabilmente pericoloso… E indovinate di che nazionalità è questo villain annidato nel cuore del Sogno Europeo? Indovinate un po’? Esatto.
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Islanda/2. Ho sempre saputo dell’esistenza di una cosa chiamata Eurovision Song Contest (ESC), ma non le avevo mai dato molta importanza finché una decina d’anni fa, una sera, trovandomi a Reykjavík, sono uscito dall’albergo e ho trovato le strade vuote. Non era proprio come quando la famiglia Fantozzi sale in macchina nella Roma deserta per andare a vedere la Corazzata Kotiomkin al cineclub mentre in TV danno Inghilterra-Italia, nessuna voce di telecronista usciva dalle finestre sigillate delle case, tra l’altro perché in Islanda la sera fa freddo anche a maggio, ma certo qualcosa, qualcosa di importante, di catalizzante, stava succedendo. Raggiunti i miei ospiti islandesi per cena, una cena in cui pensavo che sarei stato io – un nuovo italiano di passaggio in Islanda – l’attrazione principale, ho ricevuto una forchetta e un piatto di plastica e l’invito a riempirlo con quello che volevo del poco di cucinato che c’era sul tavolo del soggiorno, dopodiché quello era l’angolo di tappeto su cui potevo sedermi col piatto sulle ginocchia, in terza fila dietro una selva di bambini eccitati ma molto composti, quello era il bagno se ne avevo bisogno, e quello era il maxi-schermo su cui tra poco sarebbe cominciato l’ESC. Felici di avermi con loro, ma nelle successive tre ore non sarei stato io il centro dell’attenzione.
L’ESC era una cosa grossa, una grande occasione. Il fatto è che non c’erano ancora stati gli Europei di calcio del 2016, l’Islanda non era ancora arrivata ai quarti battendo l’Austria e l’Inghilterra, e poi uscendo con onore contro la Francia, era di là da venire tutta la mistica della nazione-Davide contro le nazioni-Golia, del popolo rude ma civile temprato dagli inverni sub-artici, di quella baracconata del geyser sound… E si era poco dopo il 2008, l’Islanda aveva fatto default, bisognava mostrare la propria faccia migliore all’Europa, recuperare la dignità perduta, vincere qualcosa o almeno fare bella figura. Sul tavolo del soggiorno ingombro di sedani, rapanelli e patatine garrivano le bandierine. Inutilmente, perché Greta Salome & Jonsi, i rappresentanti dell’Islanda a quell’edizione dell’ESC, avevano una canzone banalotta, e sono arrivati soltanto settimi. But still.
Al rientro in Italia parevo matto. L’ESC – mi dicevano gli amici – era roba da Toto Cutugno, da Ricchi e Poveri, da eliminatorie di Sanremo, perché uno avrebbe dovuto dedicargli un secondo d’attenzione? Lo guardassero quei fanatici di periferia degli islandesi, o gli azeri, gli armeni (perché l’Azerbaigian e l’Armenia fanno parte del circuito ESC, come altre nazioni certamente non-european: ci torneremo). Poi è successo qualcosa se si vuole di non tanto diverso rispetto a ciò che è successo al Festival di Sanremo, solo in meno tempo. Anche il Festival di Sanremo era diventato una cosa ridicola, a un certo punto, una specie di balera per cantanti a fine corsa e presentatori improvvisati (per dire, 1979: primo Mino Vergnaghi, secondo Enzo Carella, terzi i Camaleonti, quinto Enrico Beruschi). Ma poi, negli anni, la lenta risalita, con quello che sembrava il culmine, lo zenit nel 2021, quando vincono i Måneskin con Zitti e buoni; e invece era un pre-zenit, perché nel 2022 Sanremo lo vedono e ne parlano, alla lettera, tutti, e nel frattempo i Måneskin hanno vinto l’ESC, sono andati in America, hanno cantato al Late Show di Jimmy Fallon, hanno aperto i concerti dei Rolling Stones eccetera eccetera.
Ed ecco che l’ESC diventa una cosa seria, prestigiosa, una bella passerella, un bel trampolino, parla pur sempre al più ambito dei pubblici, i teen-ager europei di medio cattivo gusto. E ci riguarda direttamente, perché il regolamento vuole che la nazione che vince l’ESC l’anno dopo lo organizza a casa sua: ed eccoci qui.
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Tra la fondazione della CECA (Comunità europea dell’acciaio e del carbone) nel 1951 e la fondazione dell’EURATOM (Comunità europea dell’energia atomica) nel 1957 cade la fondazione dell’Eurovision Song Contest (1956). L’iniziativa è dell’European Brodcasting Union (EBU: l’Eurovisione, insomma), cioè del suo direttore Marcel Besançon, dal 2002 eternato dai «Marcel Besançon Awards» che giurie ristrette assegnano ogni anno a latere della votazione ufficiale. Ma l’idea, il germe dell’idea pare sia merito di un italiano, uno dei tanti italiani di genio che nessuna statua commemora, l’allora direttore della RAI Sergio Pugliese, che propose ai direttori delle altre TV nazionali una specie di Festival di Sanremo continentale. Proposta accolta, prima edizione (radiotrasmessa) al teatro Kursaal di Lugano, sette nazioni partecipanti, presenta Lohengrin Filipello, voce storica della Radiotelevisione svizzera, vince la canzone Refrain della svizzero-tedesca Lys Assia. Su YouTube si trova il video dell’esibizione di Lys e, per quanto possa suonare banale, uno resta senza parole constatando quanto la specie umana sia cambiata in così poco tempo: da Lys Assia in lungo, onusta di fiori (1956), alla barba di Conchita Wurst (2014). Ben scavato, vecchia talpa del gender.
Da quell’anno in poi il famoso «processo di integrazione europea» si svolgerà su due binari scarsamente comunicanti.
Il primo è quello delle istituzioni politico-economiche e dei trattati: un’invenzione mai tentata nella storia, un processo d’importanza epocale, prima sei poi nove poi quindici infine (per ora) ventotto paesi che rinunciano a un pezzo della loro sovranità e la trasferiscono a organismi sovranazionali, con virtuale abolizione delle frontiere, coordinamento nella politica economica ed estera, moneta comune eccetera; il tutto però purtroppo calato in un contenitore di mostruosa complessità e di ancora più mostruosa noia – una calotta di noia densa come nebbia, un crampo ai polpacci che ti afferra ogni volta che riapri dossier soporiferi già nel titolo come Il progetto europeo o Come funziona l’Unione Europea, o vagamente iettatori come Un futuro per l’Europa, e poi scaffali pieni di massacranti libri del Mulino o di Laterza, e le supercazzole di Habermas che poi finiscono nei discorsi di Renzi o di Letta – noia e mal di testa per chi, da profano, si provi a orientarsi nel dedalo delle commissioni, dei consigli, dei comitati, delle corti, delle agenzie, e infine del parlamento, che sta a Bruxelles ma, non scherzo, ogni tanto va in trasferta pagata a Strasburgo, e però il segretariato generale sta a Lussemburgo. Morire, dovete.
Il secondo binario del «processo d’integrazione europea», nonché l’unico che ci interessi in questa sede, è il pop. Avete ancora nelle orecchie la voce di Elisabetta Gardini e Fabrizio Frizzi che telefonavano alla gente a casa e se il tizio o la tizia rispondeva «Europa Europa» vinceva una cospicua somma in, lo sa dio perché, «scudi d’oro»? Quello era un frammento di «integrazione europea». E da ragazzini avete aspettato il mercoledì sera per vedere in TV i due svizzeri – c’è un’inflazione di Svizzera, in questa storia – Gennaro Olivieri e Guido Pancaldi che conducevano Giochi senza frontiere? Vi ricordate trois deux un e poi il fischio? Il fil rouge? Ecco, anche quello era un frammento di «integrazione europea», anzi era l’Europa che volevamo e che sempre vorremmo: niente banchieri in giacca e cravatta, niente esercito comune per fronteggiare chissà quale fantomatica aggressione da est, niente «processo di Bologna» che ha devastato l’università; solo allegri gruppi di sciroccati di Rouen, Albacete, Pizzighettone vestiti da pupazzi che dentro scenografie felliniane si agitano al ritmo dei fischietti di Guido e Gennaro.
Vi ricordate anche dell’Eurofestival, antico nome dell’Eurovision Song Contest? No, vero? È perché i poteri forti ce ne hanno privato.
Non solo gli islandesi: anche la mia amica Alessandra, cresciuta in Germania, non ha mai perso una finale dell’ESC. Laureata, addottorata, docente universitaria, non la perde neppure adesso, ogni primavera, lei il marito e i figli, sul loro divano di Berlino. E non ironicamente, non con lo spirito iconoclasta con cui l’ateo va a Lourdes, o con cui fino a qualche anno fa noi guardavamo Sanremo, no, lo guarda perché vuole che la Germania vinca (solo che non vince mai un po’ per la qualità medio-bassa del pop tedesco, un po’ per colpa del mefistofelico sistema di votazione «che premia certe nazioni che fanno gruppo, un po’ una camorra, diciamolo», ma soprattutto «perché la Germania sta sul cazzo a tutti»). Di fatto, al di là delle Alpi l’ESC ha funzionato sempre, come ascolti e poi come vendite, e più a nord si va più funziona: insomma, nel 1974 hanno vinto gli ABBA con Waterloo, e la vittoria gli ha dato le chiavi del mercato mondiale, centinaia di milioni di copie vendute, una decina di primi posti nella classifica inglese, la disseminazione planetaria del camp scandinavo: senza l’Eurovision Song Contest non avremmo avuto il musical Mamma mia!, per dire.
In Italia no, in Italia siamo stati a lungo distratti, o schizzinosi, d’altra parte eravamo i detentori del brand originario, il Festival di Sanremo, che bisogno c’era di fare questa famosa gita a Chiasso?
O meglio. Agli inizi anche gli italiani sembravano abbastanza coinvolti, soprattutto in qualità di ambasciatori del belcanto contro il pop maleducato di presuntuose meteore come i Beatles o i Rolling Stones. Nel 1964 in Danimarca vince la nostra Gigliola Cinquetti, non ancora diciassettenne, con Non ho l’età (mercoledì 11 la si celebra alla Cavallerizza Reale, e sabato dovrebbe essere tra gli ospiti della finale, cinquantotto anni dopo), e «La Stampa» saluta la vittoria con un bell’articolo nella pagina degli spettacoli ma con richiamo in prima: Gigliola Cinquetti vince a Copenaghen. La fine degli urlatori? «Si è imposta con una voce limpida, serena, innocente. È stata una tappa negativa per gli urlatori, forse l’inizio della fine. Torna il canto spontaneo e ingenuo delle nostre nonne. La vittoria della Cinquetti è il trionfo della grazia». Indeed. «Mostrando i due dentini aguzzi come quelli dei castori singhiozzava, sorrideva, confusa, commossa, impacciata […]. In prima fila, accanto agli ospiti d’onore e alla mamma che la segue ovunque, applaudivano i colleghi stranieri, contenti di essere stati sconfitti da una ragazza alla buona». Un idillio: che il solito sovversivo, ce n’erano anche allora, ha provato a guastare con un gesto sconsiderato, ma è bastato dirottare le telecamere: «Un piccolo incidente ha turbato per un attimo lo spettacolo: un dimostrante danese è riuscito a salire sul palcoscenico mostrando al pubblico un cartello su cui era scritto “Boicottate Franco e Salazar”. Le telecamere sono state dirottate sul volto della bella presentatrice Lotte Waever, il cui sorriso ha rassicurato gli spettatori in ansia». L’Eurofestival era trasmesso sul Canale Nazionale; sul secondo, «valida alternativa alle canzoni», una conversazione con lo scrittore francese André Maurois.
Insomma, non ampia, magari, ma puntuale copertura sulla stampa e in TV.
Poi l’impressione è che l’Eurofestival si sia inabissato, scomparendo dai radar. Quando nel 1990 a Zagabria vince Toto Cutugno, «La Stampa» mette solo una sua foto in taglio basso a pagina 20, senza articolo, con un titoletto commemorativo: A un quarto di secolo da Gigliola. C’è da dire che l’Italia ha sempre avuto un pregiudizio negativo contro Toto Cutugno: fosse stato napoletano, ne canterebbero gli aedi, ma è di Fosdinovo, poverino, provincia di Massa-Carrara. Da lì comunque comincia l’inabissamento. L’anno dopo l’Italia organizza l’Eurofestival a Roma – perché chi vince l’anno dopo organizza – e le cose non vanno tanto bene, si spende molto più di quel che si guadagna, e per qualche anno l’Italia nemmeno fa lo sforzo di mandare dei concorrenti, non sia mai che rivincessero, costringendo a ri-organizzare… Per inciso, era anche il cruccio degli islandesi, sia nella realtà sia nella trama di Fire Saga: il cattivo, emissario del governo, faceva fuori tutti i candidati islandesi all’ESC per evitare di dover ospitare l’anno dopo a Reykjavík plotoni di esagitati provenienti dai quattro angoli del mondo, dato che alla comitiva ERC si sono nel frattempo aggregati non solo l’Azerbaigian e l’Armenia ma anche Israele, anche l’Australia, con le sue valanghe di immigrati europei. Scandalo degli scandali – almeno a dar retta a Gigi Vesigna – nel 1997, quando una congiura di palazzo nega ai Jalisse una vittoria che era lì a portata di mano, e che avrebbe anche potuto farli diventare i nuovi ABBA: «All’Eurofestival si capisce subito che possono addirittura farcela proprio con Fiumi di parole. Ma l’Italia che non può, né vuol permettersi di organizzare un Festival Europeo (che oltretutto non manda nemmeno in onda), organizza uno scambio di voti. In sostanza se gli altri paesi non voteranno per i Jalisse la giuria italiana voterà per chi sarà designato. E, nonostante tutto, i Jalisse si piazzano al quarto posto» (Gigi Vesigna, Vox Populi. Voci di sessant’anni della nostra vita, Excelsior 1881, Milano 2010, p. 451).
Poi un decennio, più di un decennio di astensione, l’Italia non partecipa e non trasmette l’ESC. «Senza l’Italia non ha più senso», pare abbia dichiarato Dieter Bohlen, ex voce e chitarra dei Modern Talking, dando voce alla contrizione di tutti. Ma niente da fare. L’Italia ritorna soltanto nel 2011 e viene subito re-inserita tra i Big Five, i cinque paesi che accedono di diritto alla fase finale in sostanza grazie ai soldi, in quanto «maggiori contributori finanziari dell’European Broadcasting Union»: gli altri sono Germania, Spagna, Francia e Gran Bretagna. L’analista non può fare a meno di domandarsi come mai nel paese di Colpo Grosso e Cartabianca questa tamarrata ci abbia messo così tanto ad attecchire. Mi dice Pietro Galeotti, autore televisivo insigne e scrittore (leggete La riunione, Feltrinelli, fa molto ridere), che è soprattutto una questione di strategia televisiva: «Grande amore del Volo vince a Sanremo nel 2015 e va all’ESC. Quelli del Volo diventano famosi in tutta Europa, e l’ESC, trasmesso senza tante fanfare su Rai Due, fa ascolti sorprendenti. Così l’allora vicedirettore Palinsesto e Marketing di Rai Uno Andrea Fabiano va dal direttore Giancarlo Leone e gli suggerisce di spostare l’ESC su Rai Uno. Cosa che accade nel 2017, con Francesco Gabbani che porta Occidentali’s Karma a Kiev, e dovrebbe vincere ma alla fine non vince. Però l’ESC, trasmesso su Rai Uno, batte Amici della De Filippi. Poi l’anno scorso naturalmente i Måneskin fanno il botto, e adesso diciamo che l’ESC è entrato definitivamente nella mappa delle cose pop da seguire in TV e in rete, anche in Italia».
La rete, appunto, è stata quella che ha rivoluzionato il gioco: «Perché è chiaro che tutto cambia quando entrano in campo i social network, e il pubblico in soggiorno non si limita a guardare lo schermo ma giudica, prende appunti, messaggia: l’ESC è il perfetto evento da social network, perché mette insieme canzonette orecchiabili, campanilismo e gusto per il trash, e polarizza sì, ma con misura: si prendono in giro i concorrenti avversari, ma anche il proprio, e poi il meccanismo della votazione è un perfetto generatore di chiacchiere, sospetti, micro-indignazioni spendibilissime su Twitter. Insomma è l’Evento che combacia meglio con le modalità di fruizione della nostra epoca».
Già. Ma c’è anche dell’altro, in questa cornucopia. C’è che le scenografie sono diventate quasi tanto importanti quanto le canzoni, e i cantanti si presentano sul palco in mise sempre più elaborate e vistose, con corpi di ballo da teatro di rivista, e anche in base a questo ricco contorno vengono giudicati. C’è un elemento visivo, figurativo, insomma, che prima non c’era. La Cinquetti in abitino nero in piedi davanti al microfono non è più un’opzione: la performance conta, e più originale e selvaggia è, meglio è, anche perché le canzoni di rado sono dei capolavori. «E – osserva sempre Galeotti – negli ultimi anni c’è stata un’interessante osmosi al contrario. L’ESC nasce più o meno come imitazione del Festival di Sanremo. Adesso è Sanremo che imita le performance colorate dell’ESC, con certi abiti costruitissimi, le scenette simil-punk di Achille Lauro, i torsi nudi tatuati…». I corpi, infatti. L’ESC ha operato miracoli nella ridefinizione di outfit, acconciature, modi di muoversi, immaginario glam; e, anche prima di Conchita Wurst, è probabile che abbia fatto per la causa LGBTQ+ più di quanto la Disney, anche applicandosi, potrà fare in decenni. Soprattutto, lo ha fatto parlando a un pubblico molto più vasto e più popolare di quello che questo genere di discorsi di solito riesce a raggiungere: un pubblico dell’Est, per esempio, che all’apertura mentale in fatto di gender è meno disposto per esempio degli scandinavi – il cattivo del film islandese di cui dicevo all’inizio non è veramente cattivo, è un gay represso/inconsapevole a cui non hanno mai permesso di essere sé stesso («Sono russo. Non ci sono gay in Russia»); non è lui ad essere cattivo, sono le circostanze, è l’atteggiamento che crede di dover tenere in mezzo agli altri («Stasera conquistiamo palco, domani il mondo»: il film è del 2020), ma l’ESC alla fine lo salva, se ne andrà su un’isola greca, come il cast di Mamma mia!.
E poi c’è il pre-ESC, che dura tantissimo e, grazie a internet, è diventato rapidamente una questione planetaria. Perché mentre le canzoni di Sanremo devono essere inedite, quelle che vanno all’ESC vengono messe in circolazione presto, girano su Spotify e su YouTube e arrivano sul palco quando ammiratori e detrattori le hanno già sentite e risentite e commentate, per esempio in questi video di Reactions caricati su YouTube (non ho cuore di andare su TikTok, ho cinquant’anni) in cui gruppi d’ascolto americani, africani, asiatici reagiscono a Brividi di Mahmood e Blanco con commenti anche molto articolati, partecipi: è chiaro che la buona reputazione mondiale dell’Italia si costruirà sempre di più attraverso prodotti e canali di questo genere, Mario Draghi è solo di passaggio.
Ma basta con il passato, con tanto presente che incombe: Dal 10 al 14 maggio Torino ospita la sessantaseiesima edizione dell’ESC. Il nemico sembravano essere i postumi della pandemia, i residui timori di contagio; e invece naturalmente sarà l’edizione della guerra in Ucraina. Il 25 febbraio, il giorno dopo l’invasione, l’European Broadcasting Union ha deciso di escludere la Russia dall’ESC. La richiesta è venuta dagli ucraini, certo con buone ragioni: «Vorremmo sottolineare che l’Eurovision Song Contest è stato creato dopo la Seconda Guerra Mondiale per unire l’Europa. In considerazione di ciò, la partecipazione della Russia come aggressore e violatore del diritto internazionale all’Eurovision di quest’anno mina l’idea stessa della competizione». È partito l’hashtag #EurovisionwhitoutRussia, dopodiché l’EBU ha accolto la richiesta dell’Ucraina spiegando che «l’inclusione di un concorrente russo nella competizione di quest’anno porterebbe discredito alla manifestazione».
Decisione tempestiva. Forse troppo? È vero che qui i concorrenti rappresentano non solo sé stessi, come a tennis, ma il loro Paese, e che ogni Paese ha una sua trafila di selezione più o meno direttamente governata dallo Stato; ma d’altra parte si devono cercare, specie adesso, a più di due mesi dall’inizio della guerra, delle occasioni non di appeasement ma di vicinanza e reciproca comprensione: un cantante russo sul palco di Torino, un cantante di buona volontà, non avrebbe potuto contribuire a creare quest’occasione, davanti a un pubblico quasi planetario? E poi non ricevere neanche un punto, e assistere magari alla vittoria dell’Ucraina (qui infatti quasi tutti sono convinti che rivincerà l’Ucraina con la Kalush Orchestra, e che il prossimo anno la carovana ESC ritornerà a Kiev, sperando di trovarla in piedi)? E poi abbraccio sul palco, popoli che si riconoscono fratelli, fine delle ostilità? Si scherza, naturalmente, ma neanche tanto, perché il dubbio viene davvero: là dove hanno fallito la ragione e la diplomazia non varrebbe la pena di provarci col pop? E se non il cantante russo selezionato dai russi, perché non invitare fuori gara uno di questi rapper d’opposizione tipo Morgenshtern o Oxxxymiron, molto seguiti dai giovani in Russia e molto schierati contro la guerra? Bisognerebbe sparigliare, dare delle chance al «pensiero laterale», come dice Giuseppe Conte, l’Italiano Assoluto: ma davvero.
Del resto, rimaniamo ancora un attimo in argomento, che l’ESC sia anche ormai una manifestazione politica è evidente, come tutto ciò che riguarda le masse sparse per il globo e quell’esperanto che sono ormai le canzoni. L’Ucraina ha vinto a Stoccolma nel 2016 con una canzone iper-politica, 1944 (28 milioni di visualizzazioni su YT), che parla della deportazione dei tatari dalla Crimea alle steppe dell’Asia centrale da parte del governo sovietico nell’anno, appunto, 1944:
When strangers are coming
They come to your house
They kill you all
and say
We’re not guilty
not guiltyWhere is your mind?
Humanity cries
You think you are gods
But everyone dies
Don’t swallow my soul
Our souls
I russi si erano presi o ripresi la Crimea da un paio d’anni, erano entrati in Donbass, c’erano stati i massacri di Euromaidan: la reazione incazzata, anche sul palco dell’Eurovision, ci sta. I russi quell’anno sono arrivati terzi con la candida You are the only one (44 milioni di visualizzazioni su YT), ma comprensibilmente non hanno gradito che in una gara di canzoni trasmessa in mondovisione i loro ex connazionali gli ricordassero i crimini di Stalin. Dal Guardian: «… la Russia ha preteso un’inchiesta per appurare come mai una canzone politica è stata ammessa all’evento, e ha minacciato di boicottare la manifestazione del prossimo anno»; ciò che poi di fatto è avvenuto, ma per una ragione più sottile: perché la cantante designata dai russi, Yulia Samoylova, si era esibita in Crimea dopo l’annessione della regione alla Russia, e sarebbe stata respinta al confine ucraino: micro-faide che si sono aggiunte alla faida. Il commento della parlamentare Elena Drapeko, pronunciato nel 2017, ha un sapore un po’ diverso riletto nel 2022: la vittoria della canzone 1944 «è in parte una conseguenza della guerra di propaganda che è stata mossa contro la Russia. C’è una demonizzazione generale della Russia: si dice che siamo cattivi, che i nostri atleti sono dopati, che i nostri aerei volano lo spazio aereo degli altri Paesi» (ma per confermare che tutto è più complicato di come sembra aggiungiamo un dato un po’ spiazzante: che per la canzone ucraina anti-staliniana ha votato un gran numero di televotanti russi, e che per la canzone russa strappacore You are the only one ha votato un numero ancora più grande di televotanti ucraini: si è simili, spesso parenti, si parla la stessa lingua, ci si vuole bene, e non per modo di dire, give pop a chance).
Così quest’anno è chiaro che il sottotesto politico rischia di invadere non solo un pezzo ma tutto lo spazio della manifestazione. Mentre scrivo queste righe – dato che mi sono registrato al sito dell’organizzazione – mi arrivano nella posta elettronica i «greetings from the delegation of Ukraine», con una cartella di foto e notizie sulla Kalush Orchestra, e disponibilità per interviste: nessun’altra delegazione mi ha scritto, è chiaro che l’ESC sarà per loro un altro strumento della controffensiva, questo per fortuna non cruento: noi faremmo lo stesso. Di qui la mia proposta strategica, che giro volentieri alla delegazione suddetta.
Nel film Fire Saga la coppia islandese arriva alla finale a Edimburgo con una canzone d’amore un po’ loffia, in inglese. Ma poi sul palco succede qualcosa, c’è una specie di folgorazione, e al posto di quella si mettono a cantare Húsavík, My Hometown, mezza in inglese e mezza in islandese. Vengono eliminati, perché naturalmente non si può cambiare canzone in corsa, ma l’Europa intera si commuove di fronte a questa bella testimonianza di amor patrio (lo straniero islandofilo che conosce Húsavík riesce a commuoversi anche davanti allo schermo alle due del pomeriggio). La Kalush Orchestra presenta all’ESC 2022 il brano folk-hiphop Stefania, che i bookmakers un mese fa davano favorito al 36%, oggi a un vertiginoso 42%. Ora, con tutta la simpatia per gli ucraini, a me pare proprio, e me ne scuso, una canzonaccia da caravanserraglio mediorientale, altro che Europa. Se vince, vince per la guerra, e così è facile. Mentre è così bella la canzone popolare Oyu luzi chervona kalyna che abbiamo imparato a fischiettare da un paio di mesi a questa parte. Perciò si potrebbero imitare i Fire Saga del film: lasciar perdere Stefania e intonare a cappella Oyu luzi chervona kalyna, magari con le parole che passano sullo schermo in modo che il pubblico del PalaOlimpico si unisca al coro. Così io mi metto a frignare un’altra volta, l’Ucraina fa capire al mondo che conta esserci, non per forza vincere, viene squalificata e passa in testa la canzone che i bookmaker davano vincente prima che Putin rovinasse tutto, passa in testa Brividi di Mahmood-Blanco, vince l’Italia!
2.
Martedì
«Quanto è importante diffondere fratellanza [brotherhood] attraverso la tua canzone?». Dovete immaginare di essere molto giovani, un po’ emozionati perché siete appena arrivati da Stoccolma o dalla Valletta o da Baku e vi trovate in mezzo a tanta gente che agita bandierine nel parco della Reggia di Venaria Reale (TO), con addosso un vestito simpatico ma ingombrante – cosa rispondereste, voi che fate i sopracciò? In inglese, poi: lingua che la speaker di questo «Tourquoise carpet» dell’Eurovision Song Contest (ESC), Carolina Di Domenico miracolosamente padroneggia, ma lei sola o quasi tra gli italiani, mentre soprattutto i balcanici parlano con un umiliante accento di Oxbridge. Ma questo è niente. Come ve la cavereste, che cosa rispondereste le altre trentanove volte in cui più o meno la stessa domanda vi verrà posta da uno dei trentanove giornalisti radiotelevisivi europei o limitrofi che vi aspettano per «una battuta di un minuto» alle varie stazioni di questa via crucis?
Il «Tourquoise carpet» dell’ESC di Torino non ha solo un colore diverso da quello degli Oscar ma è anche infinitamente più lungo, a occhio e croce un quarto di chilometro, da ingresso monumentale a ingresso monumentale, perché quaranta partecipanti vogliono dire quaranta stazioni radio-televisive o canali IG o TikTok, quaranta intervistatori sgranati sul percorso, quaranta photo op, più un numero imprecisato di selfie, pacche sulle spalle e strette di mano con i fan (strette di mano alte, rarissime quelle basse, novecentesche): si comincia alle quattro e si arriva in fondo sorridenti ma stremati verso le cinque e un quarto cinque e mezza, intontiti dalle domande sull’outfit, la brotherhood e che impressione vi ha fatto Torino. E insomma è una festa, ma ci vuole prontezza di spirito, indole gioviale e anche una certa resistenza fisica, anche perché verso le cinque comincia a piovere, uno scroscio forte e poi pioggerellina: i bravi organizzatori ci avevano pensato, perciò si aprono subito tanti ombrelli colorati rètti da una legione di «volontari» (ci torneremo), ma camminare sorridere mettersi in posa rispondere in inglese infagottati da questi abiti-sculture che cominciano a infradiciarsi è una prova che non so quanti avrebbero la tempra di sostenere: lo show-business è anche un fatto di resistenza fisica. O forse è la gioventù: sopra e intorno al «Tourquoise carpet» l’età media percepita è di venti venticinque anni al massimo, l’età della spensieratezza (quella reale naturalmente è un’altra cosa, abbondano i quaranta-cinquantenni che ne dimostrano dieci o anche venti di meno, io tra questi: ma, come con l’umidità d’estate, conta il percepito).
Ma è rimasta in sospeso la domanda intorno alla brotherhood. Molto: conta molto diffondere la brotherhood, soprattutto in questi giorni in cui il fantasma della guerra torna dopo tanto tempo a funestare eccetera. Poi, dato che le canzoni non si sono ancora veramente sentite, o si confondono, o – diciamolo – non sembrano memorabili, conta appunto quella cosa deliziosa che è l’Apparenza, vale a dire il vestito + il corpo, con particolare riferimento al capello e alle zone erogene, per le femmine, e al capello e alla barba, per i maschi: ma con una complicazione che rende il quadro più interessante ma anche meno facilmente leggibile da parte del non esperto, una complicazione che potrei anche non essere il primo a notare, e cioè che i confini tra i sessi si sono fatti – to coin a phrase – ‘fluidi’, e c’è una certa generale femminilizzazione, nei maschi, con grande cura per esempio delle sopracciglia (ma anche più decisamente bacio in bocca tra cantante israeliano e cantante – credo, posso sbagliare – romeno, a grande richiesta degli astanti: «Kiss, kiss, kiss!»), mentre invece le femmine sono più normalmente iper-sessualizzate, e quasi tutte di bellissima presenza, e peritissime nei movimenti, nei sorrisi, anche perché molte già ben rodate in trasmissioni televisive (la maltese Emma Muscat ha fatto Amici con la De Filippi, e qui si palesa in una specie di abito da sposa rimodellato a bikini) o in sceneggiati e musical (Chanel Terrero, cubana ma in forza alla Spagna, «che vanta esperienze in spettacoli come Il re leone, Flashdance, Mamma mia»), o semplicemente perché in venticinque anni devono aver accumulato più esperienze di quante ne abbia accumulate io in cinquanta (la deliziosa Andromache, di famiglia greca ma cittadina tedesca, però in gara per Cipro, «studentessa di Filologia germanica ad Atene»: a lei, sulla fiducia, il mio voto).
Quindi in fondo, a parte che siamo in casa dei Savoia, tutto è abbastanza normale: le ragazze belle e spigliate e simpatiche; i ragazzi strani e chiassosi, coi più ruffiani che improvvisano al microfono qualche tremendo evergreen del repertorio italiano, tipo Con te partirò e Caruso, per la delizia di un pubblico di teen-ager per i quali – il tempo passa, il Male trionfa – Lucio Dalla è appunto «quello di Caruso». Dopodiché, sul mio personalissimo cartellino (e senza naturalmente aver ascoltato neanche un secondo delle canzoni): Premio Fantasia ai norvegesi Subwoolfer, che oltre a dedicare una mini-canzone e un mini-video a Torino si presentano travestiti da lupi con una canzone su un lupo (Give that Wolf a Banana), e con una bella scenografia che ricorda un po’ quella di Gangnam Style. Premio Outfit al trio della Repubblica Ceca We Are Domi («Oh, Do-mi-ni-ka, luce della mia vita, fuoco dei miei lombi…»). Premio Simpatia ai bulgari dell’Intelligent Music Project, che mi pare siano più vecchi e saggi e vissuti di tutti gli altri (e forse anche più bravi, musicalmente parlando), ma stanno al gioco con deliziosa nonchalance. Ero anche pronto a dare un premio agli ucraini – è chiaro che siamo qui per questo – ma temporeggio. La loro canzone (Stefania, dedicata alla mamma del cantante) è un miscuglio strano, devo dire non gradevolissimo, di folk mediorientale e hiphop, e loro, i cinque della Kalush Orchestra, si sono presentati con facce serissime, truci (il che è giusto, data la situazione) e senza una parola di inglese (il che va bene: come Achille Lauro, che ha l’interprete), ma anche con delle camiciole nere con mostrine giallo-blu al colletto che i maligni – non io – potrebbero misinterpretare.
3.
Mercoledì
Lei, Torino, la città dell’Eurovision Song Contest (ESC), splende. L’altro giorno ho portato mia madre in Via Po 25, dove è nata e ha abitato da piccola. Sono sempre case di ringhiera, adesso però belle, ripulite; una volta il gabinetto stava al fondo del balcone e serviva tutto il piano (è una di quelle cose, forse la prima, da ricordare agli antimoderni: defecare subito dopo il vicino di casa, l’asse ancora caldo, senza bidet), adesso chiaramente ci sono fior di bagni in ogni appartamento, doppi servizi, anche. E poi, tornando verso Santa Rita, che meraviglia Piazza Vittorio, la prima collina, il parco del Valentino col villaggio dell’Eurovision pieno di gente, e anche Piazza d’Armi con il PalaOlimpico dove si tiene la gara…
Però in effetti, mi avevano avvertito, in Via Po e dintorni c’è anche un numero sorprendente di senzatetto, italiani e immigrati, che dormono accampati sotto i portici, e le periferie non sembrano splendere come splende il centro. È quasi sempre così, in tutte le città, ma camminando per certi quartieri disertati dalla Fiat e dall’indotto Fiat, o anche attraversando in auto il nord della città, come abbiamo fatto l’altro giorno per andare all’inaugurazione dell’ESC alla Reggia di Venaria, ci si ricorda facilmente che Torino è la più grande della ventina di città italiane che il MISE ha dichiarato «aree di crisi industriale complessa», il che vuol dire tra l’altro – era il succo del rapporto Rota Futuro rimandato di tre anni fa – saldo pesantemente negativo nel computo delle imprese che aprono o chiudono, scarsa densità di startup tecnologiche, basso valore aggiunto, incapacità di attrarre da fuori giovani laureati o addottorati brillanti, nonché di tenere sul territorio quelli prodotti dall’università e dal Politecnico, che continuano a essere qualitativamente sopra media; e poi a catena calo demografico ingente, marginalità nei collegamenti aerei e ferroviari nonostante l’alta velocità, disoccupazione giovanile a livelli meridionali, alta percentuale di NEET eccetera. Insomma, il futuro post-industriale della città stenta ad avviarsi dopo il tramonto della one-company town, ma questo ormai da un paio di decenni…
Ne parlo con il sociologo Giovanni Semi, che vive a San Salvario, e che su Torino ha scritto molto (ultimo ebook per Einaudi: Bdsg. Breve manuale per una gentrificazione carina). La povertà diffusa, mi dice, è un vecchio problema – Torino non è mai stata una città ricca – però aggravatosi enormemente negli ultimi anni un po’ per l’afflusso di rifugiati che non sono stati assorbiti, ma soprattutto per l’onda lunga del lockdown, che ha messo sul lastrico tutti quelli che non avevano risparmi, che non potevano stare neanche un mese senza lavorare, un numero di persone molto più alto rispetto a quello che ci s’immaginava. Così ora ci sono quartieri interi, gli ex-quartieri operai e di quadri Fiat a sud della città, che galleggiano soprattutto sulle pensioni, e lo si vede camminando per le strade, dove abbondano i pensionati con cani, i manifesti con la pubblicità dei corsi di ginnastica posturale, dei Vendo Oro, della cessione del quinto, mentre scarseggiano i bambini; e quartieri più giovani, nella zona nord, dove però c’è vera miseria sia tra i vecchi residenti, per lo più di origine meridionale, che non hanno mai fatto il salto di classe, sia tra i nuovi immigrati. I Grandi Eventi come l’ESC servono a qualcosa? «Servono a far vedere al mondo che la città esiste, è bella, ed è in grado di organizzare cose del genere con competenza, in un ambiente accogliente. Ma naturalmente non possono essere il motore dello sviluppo, perché danno sì un po’ di respiro a chi lavora negli alberghi, nei ristoranti, nel catering, nella logistica, ma non producono lavori buoni, non fanno crescere competenze che possano essere spese una volta che il Grande Evento si è concluso».
Ed è ovviamente così, è chiaro che una città di un milione d’abitanti che non è né Firenze né Venezia non può campare di turismo e di Eventi. Però quello che sta succedendo intorno all’ESC sembra dare qualche timido segno di speranza. Al Valentino la Fondazione per la Cultura del Comune ha montato un palco sontuoso, di quelli che in città, all’aperto, non si vedevano da anni, e nei giorni scorsi il parco si è riempito di migliaia di torinesi soprattutto giovani che dopo due anni di clausura non aspettavano altro. In migliaia al DJ-Set di Giorgio Valletta, in migliaia per lo Stato Sociale e i Negrita, e molta attesa per i giorni successivi anche perché dal palco del Valentino passeranno molti dei cantanti che gareggiano all’ESC al PalaOlimpico, due o tre chilometri più a sud. Per una volta si è riusciti a lavorare, come si dice, sinergicamente, con i responsabili della European Broadcasting Union e della RAI.
«Non è la panacea per i mali di Torino – mi dice Vittorio Di Tomaso, imprenditore nel settore dell’intelligenza artificiale – ma è un possibile inizio. La crisi è evidente, ed è una crisi ormai più che decennale. Ma ci sono segnali incoraggianti. Si tratta intanto di attrarre aziende nel campo dell’alta tecnologia, e questo ambiente attrattivo si sta formando, anche grazie a capitali privati (Intesa San Paolo, Leonardo, le fondazioni bancarie CRT e Compagnia): le Ogr (Officine Grandi Riparazioni), per esempio, stanno diventando un enorme generatore di aziende che in parte nascono a Torino ma che in buona parte vengono da fuori, e che si tratta quindi di tenere sul territorio, vincendo la concorrenza dei soliti poli mondiali dell’high-tech. Per farlo, per attrarre e conservare imprese innovative, è la città intera che deve assumere quelle caratteristiche che già hanno le altre grandi città europee, e i grandi eventi sono uno dei modi in cui questo può avvenire. Può, non è detto che avvenga per forza».
Quali Grandi Eventi, però? Ci sono stati i campionati ATP di tennis, ma mi pare abbiano dimostrato che i grandi eventi possono anche non generare nessun beneficio di lungo periodo per la città: si sono giocati un po’ d’incontri, si è finiti in TV per qualche giorno, si è montato il salone degli sponsor in piazza San Carlo ma tutto è finito lì. A parte, certo, il ritorno economico, che però è limitato nella quantità e soprattutto nel tempo. «Mi pare invece – osserva Di Tomaso – che Eurovision stia avendo una risposta inaspettata: un programma televisivo di cui nessuno sapeva niente, una gara di cui in realtà a nessuno interessa granché (quando mai uno farebbe la fila per vedere un rapper lituano?) sta mobilitando la città, i giovani soprattutto, perché il Comune ha saputo sfruttare l’occasione e si è inventato l’Eurovision Village al Valentino. È una specie di ritorno alla vita, dopo la pandemia, qualcosa che rimarrà impresso a una generazione intera di ragazzi: perché da quanti anni non si vedevano diecimila persone tutte insieme in un parco torinese, e non in un parco qualsiasi, il parco più bello del centro? I simboli contano. Per una città che è vecchia e – cosa più grave – si percepisce vecchia, è un ottimo modo per recuperare fiducia. Trattenere e attrarre le startup tecnologiche; rimettere Torino sulla mappa del pop: mi sembrano imprese parallele, imprese mirate al benessere delle prossime generazioni, e che con molto sforzo e molta buona politica sono senz’altro alla portata della città nei prossimi anni».
Ottimismo torinese: ci salutiamo su questo ossimoro.
4.
Giovedì
Primo: tutto avrei immaginato nella vita tranne che vedere i Jalisse che cantano Fiumi di parole nell’Aula Lauree dell’Università di Torino. Secondo: questo Paese – non so se sono il primo a notarlo – ha un grave problema con la lingua inglese. Ma andiamo con ordine.
L’Eurovision Song Contest (ESC) si porta dietro uno strascicone di eventi paralleli, sia nel settore ‘Musica’ sia nel settore ‘Riflessione sull’ESC’. Nel settore ‘Musica’ c’è stata questa ottima idea del Comune di Torino: montare un palco al parco del Valentino e riempirlo pomeriggio e sera di cantanti italiani e stranieri, tra questi anche molti dei partecipanti all’ESC che si tiene al PalaOlimpico, tutto gratis (cioè, mai niente è gratis nella vita: pagano un po’ gli sponsor e molto il Comune, ma per una volta sembrano soldi molto ben spesi); stasera per esempio (ieri per chi mi legge) torna sul palco insieme alla Bandakadabra uno dei due Righeira, Johnson, e io ci vado insieme a un gruppo di nostalgici per ritornare al 1983 di Vamos a la playa, l’ultimo anno in cui siamo stati felici; e a seguire i favoriti dell’ESC, la Kalush Orchestra dall’Ucraina, e (tra i miei preferiti) i norvegesi Subwoofer, quelli con le maschere gialle da lupo. C’è però anche un florido settore ‘Riflessione sull’ESC’ che non mi ero aspettato, ma a torto, perché trattandosi di uno dei più grandi eventi mediatici del mondo è chiaro e anche giusto che gli studiosi dei media se ne occupino con gli strumenti della cosiddetta ‘ricerca scientifica’. Se si studia la CECA (Comunità europea del carbone e dell’acciaio), perché non si dovrebbe studiare l’ESC, che è stato tanto più influente, e ha interessato e interessa tante più persone?
Devo dire che fino a qualche mese fa sarei stato meno ecumenico (studiare le canzonette già si giustifica a fatica, ma i contenitori delle canzonette!?), e anzi pensavo di andare a vedere l’ESC più o meno con lo spirito di Zola a Lourdes (in sintesi: non simpatetico, a dire poco), poi però ho ricevuto un’email da una mia studentessa russa che diceva: «… seguo il concorso dal 2012, nel 2015 mi sono innamorata di Grande amore de Il Volo, ma talmente tanto che nel 2016 ho scelto l’italiano come seconda lingua straniera all’università! Quindi dovrei ringraziare Il Volo per la spinta iniziale e per il fatto che adesso sono qua» (no, non ho cambiato una virgola dell’email, in cinque anni la ragazza è diventata praticamente bilingue, e l’italiano era, dice, la sua seconda lingua straniera: quando tutto questo casino sarà finito dovremo tornare a riconoscere quanto possono essere fichi i russi).
Più che opportuna la riflessione intorno al fenomeno, dunque, e per questo l’Università di Torino la settimana scorsa ha organizzato un grande e serio convegno su «Song Contest/Song Context. Transmedia Perspectives on Eurovision», con relatori da mezzo mondo, proiezione di film e documentari sul tema, presentazione del nuovo testo di riferimento Eurovision Song Contest. Una storia europea di Dean Vuletic, a cura di Fabio Guarnaccia e Luca Barra, minimum fax, 2022. Credevo fosse già molto, invece era solo la punta dell’iceberg. Sotto il pelo dell’acqua, in città, mille altre iniziative e cura dei fan e degli, usiamo finalmente questa parola, stakeholder dell’ESC, che sono – lo scopro a mano a mano che mi documento, a mano a mano che fioccano gli inviti attraverso le mailing list più impensabili – legione. Così finisco appunto in uno dei nuovi palazzetti dell’Università di Torino a seguire una «Conferenza internazionale» parte online (centinaia di contatti) parte in presenza (una dozzina di aficionados) organizzata da questo Eurovisions Research Group, una – traduco – «squadra di ricercatori di vari paesi che studia l’ESC come fenomeno interdisciplinare». Sarebbe probabilmente un abisso di noia se, per ragioni che ignoro, l’incontro non fosse impreziosito dalla presenza del duo dei Jalisse, vincitori di Sanremo 1997 (edizione non facile: c’erano Patty Pravo, Nek, Ranieri, Anna Oxa, la Bertè: cioè più o meno quelli di oggi), quarti classificati all’ESC del 1997, con polverone di polemiche perché si disse che la Rai si era messa di traverso per non farli vincere. Dopo quell’exploit, venticinque anni di ostracismo, venticinque tentativi di tornare a Sanremo sempre fallimentari: e venticinque fallimenti ci stanno anche, un po’ sarà anche colpa loro, ma il testimone imparziale (io) deve anche ricordare che sul nome dei Jalisse si concentrarono subito cattiverie e ironie degne di miglior causa (i ‘Già lessi’ e simili): lo show-biz italiano spesso esalta senza motivo, ma ogni tanto senza motivo si accanisce, e insomma i due Jalisse, che tra l’altro sono molto simpatici (anche in una certa ruspante ingenuità: riferendosi a sé stessi dicono «i Jalisse»), meritavano miglior fortuna. Ma dove si chiude una porta – venticinque porte, per la verità – si apre un portone: sta per uscire, dopo quella spagnola, una versione inglese di Fiume di parole (che, riascoltata dopo tanti anni nell’Aula Lauree dell’Università di Torino, praticamente a cappella, resta bellissima) e potrebbe essere questa la chiave per riacciuffare il pubblico dell’ESC, anche perché i Jalisse concorrerebbero volentieri per altre nazioni (si può fare, pare: lo fa quest’anno Achille Lauro per San Marino). Contestualmente, e qui devo dire che torno un po’ Zola a Lourdes, apprendo che esistono non uno ma vari fan club dell’ESC in tutte le nazioni europee; e che all’interno di questi fan club si sollecita la produzione di vinili delle canzoni dell’ESC a beneficio dei collezionisti, meglio se in formato cofanetto.
Dicevo dell’inglese. A parte la Di Domenico, Cattelan e la Pausini in TV, andiamo male. L’ultima generazione che ha fatto francese a scuola dovrebbe essere vicina alla pensione, ma sembra che tredici anni di inglese tra elementari medie e superiori non bastino a metterci al livello non dico dei russi ma degli spagnoli, dei montenegrini. Ci dev’essere qualcosa che non va nella didattica, nei libri di testo, nella conformazione dei palati italiani: l’inglese che si sente in giro, attorno all’ESC, farebbe arrossire Renzi; Conte, persino. Non una parte ma tutti i fondi del PNRR dovrebbero essere investiti in questa missione impossibile: farci imparare decentemente la lingua di Scespir.
Che altro? Ah già, la semifinale. Al terzo ascolto tutte le canzoni sono belle; probabile che al quinto faranno tutte schifo, ma non è questa la commovente, sublime essenza del pop? La stessa consistenza delle infatuazioni adolescenziali, e la stessa durata. E dal momento che quelle infatuazioni sono ciò che abbiamo avuto di meglio dalla vita, tutta questa agitazione si spiega. Comunque per me, su tutte, la canzone olandese: a mani basse.
5.
Venerdì
Ma entriamo nel merito. Come dicevo ieri, al terzo ascolto tutte le canzoni sono gradevoli per chi, com’è il mio caso, non s’intende minimamente di musica. Ho chiesto un parere al mio amico jazzista Lorenzo, che di musica s’intende molto, e lui dopo la prima semifinale ha espresso un giudizio che suona sensibilmente diverso dal mio – «Fanno tutte cagare» – ma in realtà se si guarda bene in fin dei conti combacia: se si cerca musica raffinata probabilmente si è entrati nella stanza sbagliata, se invece l’ambizione massima è fischiettare, l’Eurovision Song Contest (ESC) va benissimo.
Astenendomi dunque da un giudizio davvero argomentato sulle melodie, gli arrangiamenti, le voci, e non escludendo che abbia ragione l’amico Lorenzo, introduco qui la categoria analitica della FISCHIETTABILITA’, e constato intanto che all’ESC di quest’anno ci sono fior di canzoni fischiettabilissime, di sicura resa sia alla radio sia sui dance-floor estivi, il che tra l’altro è di ottimo auspicio se l’obiettivo è, come dev’essere, quello di evitarci il consueto tormentone ispano-americano di merda. Segnalo in particolare The Show del gruppo danese Reddi, gruppo formato da quattro ragazze che cantano appunto l’empowerment femminile: «vogliamo dire al mondo che le donne possono fare tutto da sole», dice la loro scheda nel librone dell’ESC; e ri-segnalo sia la un po’ ruffiana ma orecchiabilissima («Oeoeo ahah, oeoeo ahah») De Diepte (‘La profondità’) della giovanissima S10 sia il bel pezzo da balera dei norvegesi Subwoolfer (Give that Wolf a Banana), che ieri sera abbiamo visto in gran forma al parco del Valentino e che meriterebbero non so se di vincere ma certamente un bel piazzamento per aver portato all’ESC – unici almeno per ora – non solo una canzone decisamente passabile (tra l’altro con una quasi-rima da virtuosi come grandma–banana) ma tutto uno spettacolo fatto di costumi colorati, passi di danza, coreografie, maschere gialle da lupi e videoclip, insomma tutte le delizie dello show-business, che quest’anno mi sembrano un po’ latitare, ed è un peccato (invece, da un lato parecchio intimismo anche un po’ lagnoso, dall’altro molto folk urlacchiato in omaggio a tradizioni soprattutto balcaniche o nord-europee, magari modernizzato con innesti rock o hiphop, che è il caso degli ucraini, o dei francesi che cantano in bretone: mah…).
Ma venendo ai testi, che sono il mio campo di studio e lavoro, noto preliminarmente che una buona maggioranza parla d’amore, il che non è sorprendente, e che si tratta quasi sempre di amore deluso o finito o tradito, e neanche questo sorprende, in fondo, ma merita di essere segnalato, perché è in linea con quella tendenza al pessimismo, alla mutria, alla transizione dal rosa al grigio osservata su base statistica da Alberto Acerbi e Charlotte Brand in un saggio dal titolo Why Are Pop Songs Getting Sadder Than They Used To Be? (www.aeon.com, 4 febbraio 2020): pare insomma che le canzoni pop stiano diventando sempre più tristi, sempre più propense a veicolare emozioni negative, come pain, hate, sorrow, anziché positive come love, joy, happy. Anche all’ESC di quest’anno, se non sbaglio (Premio Languore, direi, alla lituana Monika Liu, Sentimental: «A million roses like sentiments / Are drowning in a sea of clouds»). Ma non c’è solo l’amore, e almeno per aver scelto in controtendenza meritano un podio a parte al terzo posto l’australiano Sheldon Riley, che in Not the Same racconta di un’infanzia e giovinezza difficili (sindrome di Asperger, case popolari, sessualità irrisolta, genitori castranti: ma nonostante queste disgrazie, o forse a causa loro, è stato uno dei più simpatici sul tourquoise carpet); al secondo posto i lettoni Citi Zeni, che portano una canzone super-ambientalista (Eat Your Salad) musicalmente tremenda, una specie di incrocio tra Kid Creole & the Coconuts e Rapper’s Delight, il tutto vomitato da un cane, ma molto originale nel ritornello, «Oh, when you eat your veggies / Baby, think of me / Little kitty, don’t you that / Being green is cool? Let’s go organic!», e ancora più originale nell’attacco: «Instead of meat I eat veggies and pussy / I like them both fresh, like them both juicy» (pussy non è passato al filtro del sito dell’ESC, che al suo posto ha messo dei puntini, ma il pubblico era informato e pronto, martedì, e ha cantato in coro); e al primo posto In corpore sano della serba Konstrakta, che se ne frega e gioca un campionato tutto suo: set design alla Laurie Anderson e canzone (in serbo) dedicata – dice il librone dell’ESC – «a una critica del sistema sanitario serbo» e di certi inattingibili standard di bellezza, inizia così: «Quale sarà il segreto dei capelli di Meghan Markle? / Quale sarà? / Credo che dipenda tutto da un’idratazione profonda». Siamo ovviamente fuori dei canoni della FISCHIETTABILITA’, ma in mezzo a tante lolite lei ha proprio l’aria di una donna interessante.
6.
Sabato
Pensavo di chiudere queste chiacchiere sull’Eurovision Song Contest con i versi finali di Vento e bandiere di Montale, quelli in cui il poeta contempla da lontano un villaggio che si prepara a celebrare una festa, mentre il sole sta per tramontare. Ma poi mi è sembrato un po’ fuori tono, anche retorico, per una manifestazione che dalla retorica non è stata immune (i testi letti/recitati dai tre presentatori sono stati per lo più insoffribili, con le loro pippe sulla fratellanza e l’inclusione, mancava solo la resilienza: diosanto è una GARA!). Poi un amico mi ha ricordato un epigramma di Coleridge: «I cigni cantano, prima di morire: non sarebbe male / se certe persone morissero, prima di cantare». Ma con questo sarcasmo cadevo nell’eccesso opposto: dopotutto, mica solo i cigni hanno il diritto di cantare!
Così chiudo con un confronto, e chiudo ad anello, ritornando all’Islanda.
Avevo un amico islandese che è morto un paio d’anni fa. Insegnava Letteratura Neolatina all’Università di Reykjavík, e ha imparato a conoscere l’Europa negli anni Cinquanta, prima con uno di quei Grand Tour che usavano fare gli alto-borghesi e gli aristocratici di una volta (Sigurður, per gli amici Siggi, veniva da una famiglia importante, un po’ islandese un po’ danese un po’ thailandese, perché il bisnonno era stato un dirigente della Compagnia danese delle Indie orientali), poi frequentando l’università in Inghilterra. «Oh sì – mi ha detto una volta – per quanto riguarda l’educazione la mia famiglia era molto britannica. Tutta la buona borghesia islandese una volta lo era. Chi poteva, andava a studiare in Inghilterra: la lingua, le buone maniere… È solo da un paio di generazioni che le scuole di business administration americane hanno preso il posto di Oxford e Cambridge. Vedi con quali risultati… La mia zia paterna è stata forse la prima donna islandese a studiare a Oxford e a Londra, negli anni Venti. Per qualche tempo era stata ospite di Lady McDouggal, la vedova del sindaco di Londra, e da allora non ha mai smesso di citarla come un oracolo: Come diceva Lady McDouggal, ripeteva sempre… Mia madre ha studiato a Londra dieci anni più tardi. Qualche mese fa, poco prima di morire, mio fratello si è ricordato di un viaggio che avevamo fatto tutti insieme, credo che stessimo tornando dalla Danimarca, doveva essere la fine degli anni Quaranta, io ero molto piccolo. La nave Gullfoss faceva scalo a Leith. La gente scendeva per fare acquisti. “Com’era strano sentire nostra madre che parlava inglese!”, mi ha detto mio fratello».
Siggi parlava un italiano impressionantemente corretto. L’aveva imparato sui libri, soprattutto, e durante qualche soggiorno in Italia. Il primo era stato nel 1971, l’anno in cui io sono nato: «Mi sono fermato per qualche settimana a Firenze prima di andare a Roma. Sono arrivato in treno dalla Danimarca, una sera di gennaio. Ho lasciato i bagagli in albergo e sono andato subito in Piazza della Signoria. Palazzo Vecchio al buio, la Loggia dei Lanzi, nessuno in giro perché era tardi e faceva freddo: è stata una delle esperienze più importanti della mia vita. Ripensandoci, ho fatto bene a fermarmi a Firenze. L’impatto con Roma sarebbe stato troppo forte». A Firenze, nei depositi degli Uffizi, c’è un quadro col ritratto di un suo antenato, il matematico Thomas Fincke, docente all’Università di Copenaghen nella prima metà del Seicento: nei cassetti di Siggi dev’essere rimasta la foto che era riuscito ad ottenere scrivendo anni dopo alla direzione del museo.
«L’impatto con Roma sarebbe stato troppo forte». Che bella frase; e come cambiano i tempi! E anche le classi sociali, ovviamente. Niente Grand Tour, niente studi in Inghilterra, la mia educazione europea negli anni Settanta e Ottanta è passata quasi tutta attraverso la radio e la TV. Naturalmente è stata un’educazione meno raffinata di quella che ha ricevuto Siggi, tra il mio inglese e il suo non c’era gara, per esempio, però è stata davvero un’educazione di massa, nel senso che in pratica tutta la mia generazione l’ha attraversata, quasi gratis, quasi senza muoversi da casa. Adesso si può ironizzare su Giochi senza frontiere o sull’Eurofestival, ma è un fatto che i nomi e l’aspetto di un mucchio di città, e anche un mucchio di storia, ci sono arrivati attraverso quegli strani, improvvisati canali. E lo sport in Eurovisione, anche. Una volta ho incontrato per caso Bob Morse, il grande cestista della Ignis Varese, e le sue parole mi hanno aiutato ad afferrare le dimensioni del fenomeno: «Abbiamo fatto sette finali consecutive in Coppa dei Campioni. Voleva dire andare in eurovisione quando c’erano due o tre canali, ed essere visti da decine di milioni di persone. Quando giocavamo contro l’Armata Rossa c’erano anche gli spettatori dell’est, e i numeri erano ancora più impressionanti. In sostanza giocavamo davanti a un intero continente».
Insomma, noi figli dell’Eurovisione all’«impatto con Roma» o con qualsiasi altra città europea eravamo preparati: le avevamo viste tutte in TV; e la radio e i dischi pop ci avevano insegnato quel po’ di inglese che era sufficiente per farsi capire una volta scesi dai treni dell’Interrail. Ma naturalmente non erano serviti soltanto a questo: niente, assolutamente niente mai mi ha dato tanto piacere quanto le canzoni pop, e niente mi ha aiutato di più a tenere duro quando la vita si è fatta difficile o triste, neanche le poesie: e il tempo che ho passato ad ascoltare canzoni non è stato molto di più del tempo che ho passato a leggere poesie. Ecco perché non solo m’interessa ma quasi mi commuove quel baraccone kitsch che è l’Eurovision Song Contest (ESC). Le canzoni, l’Europa, l’inglese (no, non mi piacciono tanto le canzoni nella lingua nazionale, i serbi in serbo e gli italiani in italiano, voglio una lingua franca condivisa, e non importa se è una lingua smozzicata, semplificata all’osso, da aeroporto). Rispetto alla generazione di Siggi e alla mia, poi, oggi è tutto molto più facile e a portata di mano. I ragazzi che ho visto in giro per Torino in questi giorni non erano certo alto-borghesi, ma questo è stato un pezzo del loro Grand Tour; e gli altri, a decine di milioni – gente che non ha fatto e non farà mai l’Erasmus, che forse nella vita non potrà mai avere il suo «impatto con Roma», o con Torino – lo hanno visto in TV o in rete. Vi viene in mente un modo migliore per mobilitare una generazione intera senza dichiarare una guerra?
Poi certo, come dice il poeta, tra l’idea e la realtà cade l’ombra.
L’ESC di quest’anno – di tutti gli ultimi anni, mi dicono gli habitué – non ha avuto l’allegria e la ruspanza dei nostri Sanremi, che cominciano alle otto e mezza e finiscono all’aurora del giorno dopo in mezzo a gaffe, incidenti, pettegolezzi: tutto era perimetrato, contingentato, col manuale Cencelli degli spazi e dei tempi, anche in sala-stampa (una canzone, una domanda innocua a testa, avanti il prossimo), con i buoni sentimenti on display, la santificazione delle minoranze etnico-sessuali, le allusioni caute e indirette alla guerra (la finale si è aperta con l’orrida Give Peace a Chance cantata in coro), la gommapiuma su ogni possibile angolo, persino una versione dell’ESC calibrata per i sordi, con le canzoni – cito dal comunicato-stampa – «non solo ‘tradotte’ nella lingua dei segni ma interpretate da performer capaci di tradurre nei gesti la musica e le sue emozioni». Per un po’ d’imprevisto bisognava affidarsi alla logistica, al casino di varchi cancelli ingressi riservati che ha molto complicato la vita di tutti i non-cantanti tra Piazza d’Armi e il PalaOlimpico (già PalaIsozaki, già PalaAlpitour), tra l’altro sotto una canicola quasi estiva, implacabile sull’orrenda spianata di cemento che si apre davanti al già Stadio Mussolini, poi Comunale, ora Olimpico Grande Torino (qui i nomi degli stadi durano quanto un’amministrazione comunale, un regime al massimo). E le canzoni… Beh, sì, per la gran parte le canzoni erano abbastanza dimenticabili, anche e soprattutto quella che ha vinto. Però non tutte: brava l’olandese, la greca, bravi i norvegesi; anche la serba, che ha avuto coraggio. Ma insomma, bravi tutti, alla fine, tutti, tutti, cosa cazzo volete chiedere di più al legno storto dell’umanità:
Il mondo esiste… Uno stupore arresta
il cuore che ai vaganti incubi cede,
messaggeri del vespero: e non crede
che gli uomini affamati hanno una festa.