Libri

Gianluigi Simonetti sui romanzi di Luca Ricci (una recensione in tre tempi)

Domenicale del Sole 24 ore6 Febbraio 2022

I.

Quello dell’ossessione, e dell’ossessione amorosa in particolare, è tema ricorrente della letteratura di ogni tempo. Ma ancor più ricorrente, se così si può dire, nel romanzo moderno, cresciuto nella stagione d’oro di una borghesia dedita a passioni tiepide e a interessi concreti e quotidiani – e proprio per questo attratta da manie, tormenti, idee fisse esorbitanti. Molti dei nostri migliori narratori, oggi, sono scrittori di idee fisse; di manie o incubi parlano alcuni dei migliori romanzi degli ultimi anni. Più ci allontaniamo da esperienze forti, più ci proiettiamo con l’arte in situazioni emotivamente estreme (e a volte estreme anche narrativamente, nei ghetti più o meno dorati delle scritture di genere).

Anche il nuovo romanzo di Luca Ricci, Gli autunnali, si presenta come la storia di un’ossessione amorosa, consumata nei quattro mesi di un autunno romano. Ai primi di settembre il protagonista, scrittore cinquantenne che ha «bisogno di un refresh», imprigionato in un matrimonio che si trascina stancamente, s’imbatte per caso in una biografia di Amedeo Modigliani. Al suo interno, una foto lo colpisce e comincia a tormentarlo: è il ritratto di Jeanne Hébuterne, musa e compagna di Modigliani, che nel giorno seguente alla morte del pittore si lasciò precipitare, incinta di lui, dal quinto piano della casa paterna. L’ossessione, nata dalla potenza espressiva del volto di Jeanne («uno sguardo che quasi metteva paura»), si accontenta inizialmente di modeste proiezioni; la presenza di lei viene cercata, o evocata, in situazioni quotidiane, sempre più enigmatiche e in fin dei conti deludenti. Si profila allora una sostituzione più ambiziosa (che scatena a sua volta ulteriori e disperate simmetrie): lo scrittore incappa infatti in Gemma, cassiera di ricevitoria, sosia di Jeanne e suo doppio ideale, dal momento che è incinta di un pittore bohémien che si chiama Clemente (ossia «il secondo nome del vero Modigliani»). Quando in un libro o in un film la mania s’incarna in un personaggio in carne e ossa spesso la trama precipita in un vortice di degradazioni: così nella seconda parte degli Autunnali, quando il pittore sperimenta, progressivamente ma inesorabilmente, che la realtà non può bastare quando si ha in testa un mito – in questo caso un mito arcaico di forza, desiderio e devozione che non riesce a essere all’altezza del suo tempo.

Una vicenda di desiderio impossibile, unilaterale e disperato occupa insomma il centro degli  Autunnali; ma forse non è l’eros il vero motore della storia. L’ossessione per Jeanne/Gemma, con i suoi morbosi corollari, ha ben poco di realistico e non pretende di essere credibile, è troppo esibitamente ‘cartacea’ per prenderla alla lettera. Ricci moltiplica quasi a ogni pagina segnali che ci fanno intravedere, dietro quella amorosa, la passione letteraria; se è vero che «certi amori non vogliono finire, ma solo ricominciare daccapo», l’amore che Ricci intende riportare in vita è quello, totalizzante, per la letteratura stessa; ecco il mito senza tempo che prova a reincarnarsi in un fantasma del presente. In concreto, Gemma conta fino a un certo punto; il vero ‘doppio’, negli Autunnali, è un celebre racconto di Maupassant, La chioma, da cui Ricci deduce tutti gli snodi narrativi principali, diversi emblemi, quattro epigrafi e la frase con cui termina il libro. La struttura stessa del racconto, desunta da un modello del passato (ma «più vivo dei vivi», come Ricci lo saluta nella dedica) intende suggerire che la vera ossessione da cui il protagonista è divorato è la stessa che opprime anche l’autore: ed è, ancora e sempre, la mania della letteratura.

In questa luce si chiariscono, mi pare, alcune armoniche più intime del libro, a cominciare dal rapporto tra questo e il precedente di Ricci, I difetti fondamentali: mi pare che da quella raccolta di quattordici «storie di scrittori», uscita l’anno scorso, germini adesso questo «romanzo di romanzieri» – sono loro, per Ricci, i veri personaggi romanzeschi. Appartiene alla categoria non solo il narratore protagonista, ma anche la sua ‘spalla’, amico e antagonista, il memorabile Gittani: un altro narratore in cerca di se stesso, un altro temperamento decadente e inattuale, un altro esempio di scrittore in crisi. Se però nei Difetti fondamentali la nostalgia per l’arte perduta del narrare costituiva per così dire lo sfondo dei singoli racconti («E che cos’era in fondo la Letteratura, ormai, se non una splendida rovina?»), negli Autunnali la stessa nostalgia costituisce l’oggetto nascosto dell’opera, il motivo propulsore.

Se il protagonista fruga amore e disamore nei tratti precari e inadeguati di donne ridotte a feticci, con tutta la frustrazione che ne consegue, Luca Ricci cerca i materiali del suo libro nelle forme frammentarie di opere già scritte: le stipa in un intreccio che pullula di riferimenti alle più varie espressioni artistiche – pittura, cinema, fotografia – ma serba una pietà speciale, e febbrile, nei confronti di una scrittura letteraria sentita appunto come autunnale, cioè crepuscolare e declinante, celebrata attraverso un’opera fatta di altre opere. Alcuni dei frammenti utilizzati provengono da cinque vecchi racconti dello stesso Ricci (segnalati in una nota al testo); altri sono classici del fantastico o del noir (come ha notato Cortellessa rinviando a Landolfi, Rodenbach e Boileau-Narcejac); altri ancora richiamano modelli insieme vicini e lontanissimi, come La noia di Moravia. Gli Autunnali ne riprende citazioni puntuali, aspetti della trama, singoli temi (l’indecifrabilità del reale, la crisi dell’artista), perfino alcuni tratti stilistici e sintattici. Tra questi, le incessanti domande di Moravia, maniacali ed analitiche, filtrate forse dal Parise dell’Odore del sangue; congegni di tortura che fingono l’autoanalisi ma preparano l’autodistruzione («Il filo dei pensieri par­tiva sempre con un’affermazione che poi, inesorabilmente, si convertiva in una domanda: “Mia moglie è bella, è bella mia moglie?”» ).

Proprio ragionando su Moravia, durante una passeggiata nella (moraviana) via Margutta, Gittani ci ricorda che «compito del romanziere è inventare la realtà»; per aggiungere subito dopo, amaramente, che ai giovani la realtà non interessa, «e forse hanno ragione». Se Gli autunnali del titolo sono questi due scrittori «senza più clorofilla nelle vene», il libro stesso va inteso nel senso di un omaggio alla loro ossessionante idea: il culto di una letteratura che inventava la realtà, e che per questo oggi rilutta a farsi scrivere.

Luca Ricci, Gli autunnali, La nave di Teseo 2018.

II.

Nella letteratura circostante sono sempre più numerosi gli scrittori disposti a brandizzarsi, ovvero a incarnarsi in una sorta di marchio che è facile distinguere e identificare. Un autore brandizzato è riconoscibile, cioè identificabile immediatamente e comunicabile al pubblico con facilità, attraverso la messa a punto di determinati segnali identitari, perlopiù esterni allo stile. Le scelte stilistiche, infatti, vanno comprese e decifrate tramite una  specifica competenza letteraria, che richiede fatica e tempo per essere acquisita – nella comunicazione di massa  ‘passano’ in modo molto più rapido e incisivo contenuti ideologici semplici (una divisa morale che è impossibile non condividere,  una battaglia civile irreprensibile, la disponibilità ad emozionarsi), oppure qualche tratto esistenziale inconfondibile (una infanzia difficile, un volto giovane e bello, un hobby singolare e se possibile poco letterario…).

Succede così che oggi, mentre proliferano gli autori brandizzati, diventa sempre più difficile trovare autentici scrittori disposti a costruire la propria riconoscibilità non attraverso un marchio ma attraverso un progetto, basato sulla forma ed esclusivamente letterario. Scrittori della cui vita e interessi e valori e aspetto fisico sappiamo poco o nulla, ma che sarebbe possibile identificare (se a qualcuno potesse ancora eventualmente interessare) attraverso una poetica precisa, uno stile personale e un piano di lavoro organico, articolato in tempi medi o lunghi. Gli scrittori brandizzati vivono nel presente, gli scrittori progettuali si proiettano nel futuro (non di rado con un occhio rivolto al passato). Gli scrittori brandizzati sono spesso i più famosi; gli scrittori progettuali spesso sono i più bravi, se non altro perché più consapevoli di quel che stanno facendo, più insoddisfatti di se stessi – più pronti a cambiare, a ritoccarsi, a migliorarsi.

Luca Ricci è scrittore che obbedisce ad un progetto. Da diversi anni a questa parte la sua narrativa gira intorno a due temi, le relazioni di coppia e la scrittura stessa, intesa come spiegazione autentica della vita. Ma a pensarci bene, forse il tema è uno solo, double face: la letteratura come chiave per capire le mille contraddizioni dell’amore (L’amore e altre forme d’odio è il titolo di una sua vecchia raccolta di racconti, uscita originariamente per Einaudi e appena ristampata dalla nave di Teseo), l’amore per la letteratura come molla che spinge a scrivere e a capire. Non a caso i protagonisti dei suoi ultimi libri sono quasi sempre romanzieri di professione, ossessionati da un desiderio divorante e demolitore. Il farsi della storia (o delle storie) coincide con il divampare della mania e insieme con la scomposizione del personaggio maniacale, narratore degli altri e di se stesso.

I difetti fondamentali, nel 2017, raccoglieva «storie di scrittori», molti dei quali vocati all’autodistruzione («Solo erotomani e scrittori vanno alla radice dell’incontentabilità»); in Trascurate Milano, nel 2018, l’assurdo della vita era riassunto in una serie di sghembe relazioni, prima fra tutte quelle che il protagonista intratteneva con una ragazzina frequentata in metropolitana. Gli autunnali, nello stesso anno, metteva in scena uno scrittore (spalleggiato da un collega e sparring partner) che s’innamora della foto di una donna: quel fantasma femminile serviva a convocare una fitta serie di fantasmi letterari. Il riferimento allusivo a una stagione, il ricorso a un narratore che è un romanziere in crisi, la presenza determinante di una ‘spalla’ (un editore, in questo caso), i racconti nel racconto e la centralità di un’ossessione erotica per un’adolescente ritornano nel nuovo romanzo di Ricci, Gli estivi, a tirare i fili di tutti i suoi libri più recenti; e ritornano, discreti, alcuni suoi modelli forti – la prosa acre di Moravia, l’ironia di Philip Roth, l’asciuttezza vagamente angosciata di Parise (da un suo splendido e famoso sillabario, Amicizia, viene forse l’idea di fissare una situazione decisiva per poi osservarla riprodursi, apparentemente sempre uguale ma in realtà sempre diversa, nel corso della vita: in Parise inverno dopo inverno, in Ricci estate dopo estate).

Eppure, rispetto alle prove del passato cambia negli Estivi qualcosa di essenziale – ed è anche questo il senso di un progetto. L’estate come la intende Luca Ricci è il tempo del miraggio, dell’incubo e dell’incoscienza («uno dei più grandi abbagli dell’umanità era stato confondere quell’incoscienza con la leggerezza»): per contrasto, nel parlare di amore e di scrittura Ricci non è forse mai stato così freddo, così lucido, così duro e insomma così disperato («eravamo così disperati che ci mettemmo a parlare di letteratura»). Lucido e duro sull’amore coniugale, infeltrito dalle abitudini di coppia: «Il segreto del matrimonio si fondava sull’aspetto tormentoso di ogni relazio­ne a due, ovvero la sostanziale inconoscibilità – e inviolabilità – dell’essere umano. Per quanti sforzi avessimo fatto, aggrazia­ti o incerti (molto più probabilmente incerti), l’altro sarebbe comunque rimasto un mistero». Lucido e duro sulla passione che scintilla negli amori nuovi, contusi dalla rissa infinita e un po’ pazzoide della seduzione: «Nell’amore gli altri ci servono unicamente come tele, per proiettarci sopra le nostre fantasie (…). Gli altri non sono indispensabili, facciamo tutto da noi». Ineccepibile, infine, sulla letteratura, su quello che oggi è diventata: «I non lettori sono infinitamente più numerosi dei lettori, quindi il mercato librario si è convinto di puntare su quelli».

Negli Autunnali l’amore era ancora passibile di qualche reincarnazione folle, la letteratura ancora una spettacolare rovina; negli Estivi l’amore si confessa irrealizzabile e la letteratura s’incarna in una stella cadente che è l’immagine più esatta di noi stessi – nei cieli agostani «le stelle ogni sera vedono cadere noi» (e altrove «un aquilone che fino a quel momento si era librato in aria alla perfezione cadde di schianto: mi apparve una metafora adatta per qualunque cosa»). Chissà cosa ci riserva, se mai arriverà, un romanzo di Luca Ricci intitolato Gli invernali.

Luca Ricci, Gli estivi, La nave di Teseo 2020.

III.

«Negli Autunnali l’amore era ancora passibile di qualche reincarnazione folle, la letteratura ancora una spettacolare rovina; negli Estivi l’amore si confessa irrealizzabile e la letteratura s’incarna in una stella cadente (…). Chissà cosa ci riserva, se mai arriverà, un romanzo di Luca Ricci intitolato Gli invernali». Così scrivevo un paio di anni fa dopo aver letto Gli estivi, secondo tomo della serie romanzesca che Luca Ricci sta dedicando, con la trovata delle quattro stagioni («quattro modulazioni di un unico elemento»), alla sua passione per una letteratura che somiglia sempre più a un fantasma. Ora che Gli invernali è arrivato, possiamo registrare una tappa ulteriore nel viaggio che Ricci sta compiendo nella nostra vicenda sentimentale e culturale. Ritornano quindi le sue solite maschere: romanzieri in crisi, scrittrici di successo e altre sul viale del tramonto, editori insicuri, critici palloni gonfiati e agenti letterari senza scupoli. Ritornano i tradimenti, le gelosie, le ossessioni che avvincono e separano i suoi amici e amanti. Ma quello che negli Estivi era constatazione crepuscolare –  «i non lettori sono infinitamente più numerosi dei lettori, quindi il mercato librario si è convinto di puntare su quelli» – negli Invernali diventa sepolcrale, o testamentaria: «i lettori sono finiti. Sono rimasti solo i non lettori».  Se l’autunno, per come lo intendeva Luca Ricci, era il tempo della nostalgia, e l’estate il tempo del miraggio, questo suo inverno è «la storia delle cose che abbiamo sepolto», in un febbraio romano in cui «invece di nevicare cominciò a piovere» (e in cui lo scrittore Gittani, vecchia conoscenza degli Autunnali, torna solo per dirci che ha smesso di scrivere e che sta aspettando di crepare).

E cosa abbiamo sepolto, per quell’innamorato deluso che è oggi Luca Ricci? Forse quello che un suo personaggio chiama la «letteratura del delirio»: «antisociale e diseduca­tiva, spietatamente esatta ma non stitica, generosa, accorata e al tempo stesso priva di enfasi, fuori sia dalla dittatura dello storytel­ling – la trama muscolare, il personaggio indimenticabile – sia dal diktat dello stile – la bella pagina, la lingua come fine e non come mezzo». Al suo posto, romanzi e romanzieri studiatamente pensati (da se stessi prima ancora che dall’industria culturale) per chi non legge: scrittrici rosa «che tutto il mondo ci invidia», intrattenitori a caccia di premi letterari, autori che si sbracciano sui social e si recensiscono tra loro, più una critica che non può morire «perché non è mai davvero nata». «Il segreto consiste nel regredire, a ogni livello. Sul piano della visione, del ragionamento, dell’espressione verbale». Quanto indietro ancora si può andare prima che trionfi il disamore? Aspettiamo il compimento del ciclo, e cioè la primavera: la stagione più crudele.

Luca Ricci, Gli invernali, La nave di Teseo 2021.

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