Critica letteraria

Matteo Marchesini sulla critica letteraria contemporanea

Il Foglio5 Febbraio 2022

Forse mai, come durante questi due anni di pandemia e d’identitarismo, la parola “critica” è stata tanto disinvoltamente confusa col suo contrario, cioè con la demagogia. Troppo spesso la si è infatti evocata, o meglio gridata, non per indicare una ricerca responsabile e rischiosa della verità, ma per rivendicare un testardo rifiuto di prendere atto dei dati reali in nome di una tesi inverificabile, o della difesa di uno status personale o collettivo. Questa confusione è però solo il più recente e clamoroso sintomo di una crisi che affonda le sue radici nell’ultimo spicchio del Novecento. A un certo punto, nell’età del benessere che solo economicamente ci stiamo lasciando alle spalle, anziché bersagliare gli idoli letterari, filosofici, culturali e sociali, la critica ha iniziato ad assumerne i lineamenti. Anziché analizzare senza riguardo il lavoro proprio e dei propri vicini, gli intellettuali hanno cominciato a puntare il dito soltanto su figure sufficientemente lontane dal loro ambiente – a recitare per metà da specialisti fintamente neutrali e per metà da tribuni o da tuttologi.

Così funziona la marxiana ideologia: difesa spontanea del ceto professionale a cui si appartiene, e proiezione di tutte le nefandezze sugli altri. Per dire: ve la immaginate Michela Murgia che anziché prendersela con un dirigente leghista o uno psicologo televisivo fa seriamente le pulci al sistema editoriale? A chi scrive è capitato di vedersi bloccare un libro di saggi critici mentre andava in stampa, unicamente perché conteneva su alcuni romanzieri dei giudizi sgraditi all’editore (che era a sua volta un romanziere). Sul caso, è subito calato un silenzio quasi unanime. Se io in quelle pagine avessi insultato dei politici, non avrei avuto problemi. Siamo al paradosso per cui della politica si può dire tutto, e della cultura nulla. Paradosso fin troppo comprensibile ma inaccettabile: perché se si può immaginare una politica senza critica, essendo il suo campo quello dei rapporti di forza, una cultura acritica è una contraddizione in termini. Ma come siamo arrivati qui? Cerchiamo di capirlo ripartendo dal secolo scorso, e allargando a poco a poco lo sguardo dalla critica letteraria alla critica tout court. 

Bilanci del Duemila

Nel 2005, in un pamphlet intitolato Eutanasia della critica, Mario Lavagetto metteva in scena uno di quegli esorcismi che si tentano nelle buie notti dell’anima, a cui non si può più dare il nome ambivalente di crisi. Riepilogando gli sviluppi della critica moderna, Lavagetto cercava di sbrogliare una matassa nella quale le evoluzioni sembrano inscindibili da un processo involutivo che da sessant’anni coincide con i più vari approcci pseudoscientifici. Il suo intento era quello di buttare l’acqua sporca dello pseudo salvando l’embrione della scienza. In realtà di quell’embrione non rimaneva granché; eppure il critico terminava su una pudica ma fiera apologia di ciò di cui sembrava dover diagnosticare la morte.

Un po’ rozzamente, la storia abbozzata da Lavagetto si potrebbe riassumere così: nel diciannovesimo secolo al centro del dibattito letterario c’era l’autore-imprenditore; nella prima metà del ventesimo e fino agli anni Sessanta a regnare è stato il testo (una società anonima, un monopolio); da lì in poi è emersa l’ideologia del lettore-consumatore, che è anche, in una mostruosa sintesi hegeliana, ideologia del testo onnipervasivo e dell’autore-star. Ma se negli ultimi due secoli la sensibilità estetica è cambiata di continuo, fino al secondo dopoguerra le sue varianti sono rimaste comunque all’interno di una parabola essenzialmente moderna: l’industria della cultura conviveva ancora con una ricerca e una critica affidate a piccoli gruppi e riviste elitarie, insomma a esperienze non del tutto razionalizzate in senso economico o burocratico.

Da questo punto di vista la vera svolta si colloca negli anni Sessanta, con la nascita dell’università di massa e la necessità di rendere trasmissibile per moduli standard un sapere che di per sé lo è poco. Di qui la rapida ascesa delle retoriche pseudoscientifiche. In Italia sono gli anni in cui l’egemonia crociomarxista si dissolve, sostituita da strutturalismo, marxismo antiumanistico, frettolosi aggiornamenti sociologici, e accoppiamenti più o meno giudiziosi tra semiologia e psicanalisi. Tutti i saperi, nuovi o già sfruttati in precedenza, subiscono un’estremizzazione gergale. Lavagetto stesso, pur così misurato, formalizza quegli spunti psicanalitici che nel suo maestro Giacomo Debenedetti erano solo un elemento tra gli altri, seppure particolarmente suggestivo, nel tessuto di una conversazione critica “a ruota libera”. Da allora questa tendenza non è cambiata – anzi non ha fatto che crescere, dato che la nuova organizzazione culturale, per sua natura espansiva, ha richiesto sempre più discorsi “a risposta chiusa” anche là dove sono incongrui rispetto all’oggetto. Il cambiamento ha riguardato semmai certi contenuti, o i modi in cui si combinano: all’euforia teorica, che tentava di ridurre tutto all’uno, è seguita una fase di sincretismi e di eclettismi che testimoniano uno scacco, ma al tempo stesso l’indisponibilità a scontarlo pienamente.

A partire dagli anni Ottanta, la critica tematica è stata ad esempio una specie di vasto e variopinto telo steso sugli studi, per attutire e un po’ per nascondere la caduta dello scientismo strutturalista. Si è tornati a lavorare sugli archetipi, i miti, i “materiali”, riprendendo una tradizione che va da Mario Praz a Jean Starobinski. In questa direzione, pur senza abbandonare l’abito cartesiano che lo sostiene e a volte ne soffoca le intuizioni, si è mosso un critico freudiano come Francesco Orlando, andando a caccia di “oggetti desueti”. Spesso a garantire il collegamento tra forme e temi è stata invece l’opera di Michail Bachtin, diffusa proprio in quel periodo. Altra spia del sincretismo e dell’eclettismo sono i cultural studies, per molti versi parodie della precedente critica dell’ideologia, che solo attraverso un suo tradimento sostanziale poteva essere introdotta in un dibattito ormai monopolizzato dal sistema accademico e mediatico.

La mancanza di paradigmi forti implica poi un’incertezza sempre maggiore sul canone, sempre meno radicato in una cultura in cui la letteratura, fuori dall’ambiente scolastico e dalla pubblicità editoriale, occupa uno spazio via via più ristretto. A questa incertezza si è reagito moltiplicando le affabili introduzioni ai classici, o rivendicandone l’importanza in modo brusco e apodittico. È il caso di Harold Bloom, che ha riproposto enfaticamente il modello più tradizionale di canone, sostenendolo però con ragioni debitrici al nuovo clima epistemologico. Sul fronte opposto c’è infine chi, come osserva Lavagetto, mescola le eredità più disparate in un pastiche arlecchinesco, riciclandosi in veste di esperto di gender o magari – aggiungiamo noi quindici anni dopo – di orecchiante delle neuroscienze.

In questo contesto, nel quale le correnti si susseguono con la velocità delle mode, è significativo il riposizionamento dei decani degli studi letterari. Dopo la stagione strutturalista, ad esempio, Cesare Segre è tornato sui suoi passi, e ha chiuso il suo percorso puntando su quella che potremmo chiamare una filologia morale; Romano Luperini, invece, ha provato a praticare nel suo marxismo allegorico e modernista qualche apertura “ermeneutica”. Quanto agli studiosi più giovani, in alcuni di loro l’approccio sincretistico è originario: si pensi ad Andrea Cortellessa, che esibisce il gesto militante, ma che nei fatti alterna un ecumenismo da todos caballeros a prese di posizione polemiche le cui motivazioni risultano tutt’altro che coerenti e chiare.

Queste tendenze, con cui abbiamo cercato di popolare il paesaggio definito a grandi linee da Lavagetto, possono dare un’idea delle ragioni del suo sconforto. Non si tratta di un sentimento raro; ma il modo ambiguo in cui lo esprime nel pamphlet del 2005 riflette le vicende specifiche di una generazione che pure tra gli schemi pseudoscientifici si è affermata, anche quando li ha utilizzati con prudenza. Due anni dopo Eutanasia della critica, in un altro breve saggio, un autore poco più anziano racconta una storia simile, rendendo esplicita la componente dell’autobiografia. Si tratta di Tzvetan Todorov, che ha contribuito in maniera determinante alla diffusione dello strutturalismo, ma è poi passato attraverso una conversione etico-estetica. In La letteratura in pericolo, Todorov sostiene che occorre riabilitare una prospettiva critica in senso lato umanistica. Cresciuto nella Bulgaria comunista, da giovane ha visto nel formalismo una via per sfuggire al plumbeo apparato ideologico. Arrivato a Parigi, negli anni Cinquanta, sperava di poter approfondire le ricerche in quella direzione, ma ha scoperto che in Francia gli studi letterari erano ancora tradizionalmente storici. Presto però ha conosciuto altri critici che condividevano i suoi interessi, come Gérard Genette e Roland Barthes. Tuttavia lungo gli anni Settanta, proprio perché si era ormai ambientato in un paese democratico, Todorov ha ricominciato ad appassionarsi al rapporto tra arte e visioni del mondo, allargando lo sguardo all’antropologia, alla morale e alla storia. L’accento si è spostato allora dagli schemi narratologici a una letteratura intesa come bachtiniano dialogo, che fa venire in primo piano il rapporto tra la tradizione letteraria e i valori su cui si fonda l’esistenza sia personale che collettiva. Ma il destino è beffardo: quando il bulgaro naturalizzato francese cambia punto di vista, il suo programma strutturalista ha ormai stravinto, specie nei luoghi in cui la letteratura si insegna. Nel 2007 Todorov lamenta che nelle scuole francesi si discuta troppo poco del significato delle opere, e troppo s’interroghino gli alunni sulle “funzioni” di certe tecniche. Soprattutto, denuncia l’imbroglio per cui si contrabbandano i presupposti che stanno alla base di simili interrogazioni come scientifici, mentre si tratta di ipotesi passeggere alle quali non si potrà mai assegnare lo statuto dei paradigmi della fisica. “Gli esperti di studi letterari non sono d’accordo sull’elenco dei principali ‘registri’”, scrive, “– tanto meno sulla necessità di introdurre una nozione simile nel loro campo. Perciò siamo di fronte a un abuso di potere” che impoverisce il rapporto con l’arte.

Equivoci

Lavagetto e Todorov, nottole di Minerva della teoria e della critica novecentesche, ci offrono informazioni utili e interpretazioni acute. Ma è altrettanto significativo capire cosa non ci dicono, o su quali questioni si dimostrano perlomeno reticenti. Indichiamo qui due temi cruciali per comprendere la situazione della critica dalla modernità a oggi: la differenza tra studioso e critico; il rapporto tra metodo e oggetto.

Cominciamo dal primo. In apparenza Lavagetto diffida delle magnifiche sorti teoriche, e difende la critica sia dalle vuote astrazioni, sia da chi vorrebbe eliminarla come un’attività parassitaria. La critica è per lui consustanziale all’arte: la presunta utopia immaginata da George Steiner in Vere presenze, quella di un approccio diretto ai capolavori poetici, gli sembra una distopia che implicherebbe la morte di entrambe. E ne abbiamo avuto un assaggio, secondo Lavagetto, quando le edicole si sono riempite di testi “primari”, ossia di grandi classici allegati ai giornali. Nella maggior parte dei casi, a suo parere, questi classici sono rimasti oggetti astratti, con cui l’acquirente non ha stabilito una “vera” relazione. L’argomento è stimolante, ma resta un punto debole. Come il suo avversario, Lavagetto riconduce la critica alla mediazione di un insegnamento specialistico. Così, però, letterariamente diventa per forza “secondaria”; e allora su questo terreno vince Steiner.

L’equivoco dipende da un altro un equivoco più grave, quello che porta a confondere critica e studio. La differenza, s’intende, va vista come una serie di gradazioni su uno spettro; ma è determinante. Studioso ideale è colui che può permettersi di dare per presupposto il ruolo e il peso di un autore o di uno stile all’interno di una cultura che si limita a ereditare, perché assegna a sé stesso il compito di analizzare in modo scrupoloso alcuni caratteri di quell’autore e di quello stile su quello sfondo dato. Critico ideale, invece, è colui che deve reinventare tutto da capo e tutto rimettere radicalmente in discussione: prospettiva, linguaggio, rapporto tra sé e l’opera, tra l’opera e il canone, tra questi poli e la situazione presente e passata. Nella critica sono decisivi il senso della posizione e delle proporzioni, la scelta del punto di vista, il taglio, l’adeguatezza tra contesto e tono. Le argomentazioni e la sensibilità devono unirsi a una serie di idee-forza sulla realtà circostante, e fare organismo: da qui risulta un gusto, una visione del mondo. Quando sa dosare gli ingredienti con originalità ed esattezza, cioè quando è davvero tale, un critico è semplicemente uno scrittore.

Se tutti gli scrittori contengono in sé stessi un critico implicito, il critico che si esprime è uno scrittore che parla di opere d’arte e attraverso le opere d’arte della vita. E per parafrasare un famoso passo di Šklovskij, qualunque cosa descriva, uno scrittore dovrebbe mostrarcela come se ci apparisse davanti per la prima volta: ripulita dagli stereotipi, dalle opinioni ricevute, dall’autorità della tradizione. Vale anche per gli oggetti estetici, per l’arte sull’arte. E lo si dice senza l’enfasi grossolana dell’estetismo, che i veri critici hanno sempre evitato. Anzi, proprio per l’ambiguità e la precarietà del loro status, non di rado i critici tendono a reprimere o a dissimulare questo aspetto, a volte facendosi forti del tono e del ruolo magistrale dello studioso, oppure, fino a qualche generazione fa, di quello dell’elzevirista da terza pagina. Si tratta però di pratiche contingenti, non essenziali alla loro definizione. Come ogni saggista, il critico ha certo bisogno – un bisogno oggi disperato – di rivolgersi a un pubblico: ma per conversare, per intrattenere un dialogo socratico che “non conclude” – non per esercitare un sacerdozio. La sua funzione, come ha detto con parole memorabili Franco Fortini, non è infatti quella di mediare tra un’opera o un autore e un pubblico – il che ne farebbe appunto un sacerdote – bensì tra zone diverse dell’esperienza umana, ovvero tra un testo e ciò che quel testo non è. Fortini dichiarava questa idea nel 1960, nel pieno della metamorfosi dei saperi e della loro trasmissione, affiancandole una definizione divenuta celebre. “Esercitare la critica”, si legge nel saggio eponimo di Verifica dei poteri, “svolgere il discorso critico vuol dire allora poter parlare di tutto a proposito di una concreta e determinata occasione. Il critico allora è esattamente il diverso dallo specialista, dal filologo e dallo studioso di ‘scienza della letteratura’; è la voce del senso comune…”.

Dal 1960 la situazione è cambiata, e le possibilità pratiche di svolgere questo discorso si sono molto ridotte. Eppure l’impegno critico, benché sospeso in uno spazio minimo da racconto beckettiano o peggio, ancora oggi non può che avere questo senso: un senso che deriva dalla tradizione illuministica e romantica alla quale, ci piaccia o no, non abbiamo trovato alternative. La critica ha a che fare con un’opera, cioè con un intero, un organismo, un mondo; e deve dunque rimettere a sua volta in gioco tutto l’essere umano. Perciò non permette nessuna rassicurante dissezione o classificazione risolutiva. Accettare questa elementare verità non significa arrendersi al velleitarismo, all’arbitrarietà o al naif. Al contrario. Ogni approfondimento rigoroso sulle componenti linguistiche e strutturali di un testo, o sulla storia dei generi e delle tecniche, è senza dubbio importante. Ma non lo sarà mai nel senso in cui lo è, poniamo, per un ingegnere.

Mentre nelle materie delimitabili, nelle materie di cui è possibile analizzare gli oggetti servendosi di a priori consistenti e decisivi, studi di questo tipo garantiscono già di per sé un alto grado di conoscenza, nella critica – nella letteratura – restano una morta cassetta di attrezzi finché un’intuizione complessiva della vita non li concentri col suo magnete in un punto e non li convogli verso un fine. Le opere chiedono notoriamente sangue e discese a inferi di cui non si dà prima una mappa. Ecco perché può capitare che un armatissimo e intelligente studioso non veda ciò che un lettore più ignorante ha saputo cogliere magari soltanto perché la sera prima è passato attraverso un incontro amoroso destinato a far scattare l’intuizione. Essendo in gioco l’uomo, qualunque esperienza umana, se unita a un’adeguata sensibilità per il corpo estetico che ci sta di fronte, può dare frutto. È una constatazione piuttosto ovvia; ma dagli anni Sessanta l’organizzazione del lavoro culturale costringe a rimuoverla, e a fingere che nelle cosiddette humanities il cursus honorum professionale sia perfettamente sovrapponibile all’oggetto in nome del quale viene attraversato. Invece non lo è; e non per un qualche difetto emendabile di quell’organizzazione, ma per ragioni intrinseche e per così dire fisiologiche.

Nelle ultime pagine di Eutanasia della critica, dopo la diagnosi amara, Lavagetto sarebbe pronto per sviluppare questo tema in un seguito del suo saggio che purtroppo manca. Alla fine, tramite una citazione di Debenedetti, riconosce implicitamente un dato che, se ne avesse tratto le conseguenze dovute, avrebbe forse modificato l’impostazione del suo pamphlet. È un passo in cui il suo maestro evoca la memoria involontaria di Proust per parlare del rintocco avvertito dal critico quando è sulla strada giusta, e in cui arriva ad affermare che un tale rintocco “si sprigiona (…) dalle oscure officine del destino”. Dunque la critica fiorisce sullo stesso terreno del resto della letteratura, ed è inscindibile da un’esperienza che ha per forza confini incerti. Ognuno può parafrasare questa verità a suo modo, con trasporto o con reticenza: fatto sta che anche il più diffidente ed enciclopedico degli studiosi, se è un critico autentico, sarà diretto da un suo spitzeriano clic. Il mercuriale Debenedetti ha un atteggiamento naturaliter interdisciplinare: tra i saperi usa caso per caso quello che gli serve, in chiave più o meno metaforica. È davvero “il diverso dallo specialista”; ma anche dallo studioso che oggi, per ragioni sindacali pressanti, ostenta una cornice interdisciplinare anche se dentro non c’è un quadro, cioè se i saperi mobilitati non producono nuove conoscenze, facendo dell’interdisciplinarità una parodia da dottore molieriano che è appena il rovescio dello specialismo angusto.

E qui veniamo al rapporto tra metodo e oggetto. Le cornici aprioristiche delle teorie della letteratura dànno per risolto il problema epistemologico non risolvibile di cui sopra: fingono che la concentrazione di strumenti conoscitivi possa avvenire una volta per tutte e applicarsi come una procedura più o meno flessibile a qualunque testo. In questo senso la teoria, così come è concepita diffusamente dalla seconda metà del Novecento, non è una parte della critica ma il suo contrario. E ha ragione Luigi Baldacci là dove ribatte ai suoi alfieri che è l’oggetto a imporre il metodo, non viceversa; che la psicoanalisi può dirci qualcosa su Con gli occhi chiusi di Tozzi, ma se calata come una camicia di forza sui Promessi sposi ridurrà il romanzo a un pretesto e a un prolungamento dell’autore, cibo indubbiamente succulento per gli studiosi di nevrotici. Quando in ultima analisi, come vogliono i totalitarismi teorici, tutto diventa specchio dell’inconscio, o dei rapporti di produzione o del flusso decostruttivo, un capolavoro vale infatti quanto un documento qualsiasi. Ogni testo si riduce a sintomo, e si torna nella notte delle vacche nere hegeliane; ma senza l’onestà del vecchio idealismo.

Purtroppo l’osservazione di Baldacci non è molto popolare. In genere nei panorami sulla critica poco si distinguono i critici, con la loro vocazione anche teorica, da chi fa un uso tendenzialmente acritico delle teorie; anzi si privilegia questo secondo tipo di figura. E si capisce. L’opera del critico fortiniano, o debenedettiano, è difficile da schematizzare didatticamente. In un’epoca in cui il dibattito moderno è stato cancellato dalle università, dai giornali, e poi da media più pervasivi che come le università e i giornali hanno una fame insaziabile di loghi e di etichette, è assai più facile proporre una serie di cornici vuote, o tutt’al più riempite di prolisse e generiche petizioni di principio dopo le quali si approda a qualche solenne e generica banalità. Ciò non significa che non si continuino a leggere, nei dipartimenti umanistici, anche eccezionali o notevoli o almeno discreti autori dell’ultimo secolo, qualora se ne possa riassumere la lezione con sufficiente agio. Ma il risultato è curioso.

Proprio nelle aule in cui, con l’aria di ricordare un’ovvietà, si ripete ogni giorno che la biblioteca di Monaldo Leopardi è esplosa da secoli, e che quindi il canone è fatalmente plurale, si educano schiere di diligenti tecnocrati dell’umanesimo destinati a un programma di letture più uniforme di quello dei dottori scolastici medievali: Bachtin, Auerbach, Benjamin, Barthes, Genette, Jameson, Said, Orlando, Moretti… Mentre al termine di questi studi letterari, quasi nessuno dei futuri tecnocrati ha nemmeno sfogliato, per fare solo qualche esempio, i libri di Edmund Wilson, di Hans Magnus Enzensberger o di Cesare Garboli, e quasi mai ha letto in maniera adeguata saggisti come Adorno e Fortini, dato che di solito, anziché riprenderne le domande e riflettere sulla loro straordinaria capacità di unire dialetticamente dettagli, epigrammi e astrazioni, li si tratta come autori di assiomi, cioè li si neutralizza nel momento stesso in cui li si evoca. Ne deriva un paradosso deprimente: la critica trova ancora un po’ di ascolto solo dove non la si rispetta in quanto tale ma per le ragioni contro cui nasce, quelle dell’ipse dixit.

Questa modificazione genetica della cultura, con la sua fisiologica falsificazione del quadro moderno, comporta la progressiva desensibilizzazione dei lettori “esperti”. È facile accorgersi della caduta del tatto con cui dovrebbero essere introdotte e mescolate le idee, che è poi caduta dello spirito critico o forse del pensiero (della letteratura) tout court. Il primo carattere della critica consiste infatti nel suo trovarsi sempre in situazione, nella sua capacità di graduare i mezzi e i toni; e la controprova della sua credibilità e pregnanza, cioè della sua efficacia nel cogliere il proprio oggetto, sta nel fatto che quella combinazione escogitata per quell’intervento specifico non deve poter essere trasferita indifferentemente su un altro obiettivo. Non saper stabilire un rapporto attendibile tra esistenza e teoria, e tra livelli di discorso, impedisce la critica così come a uno straniero impedisce di percepire la profondità di una lingua che pure sa usare per scambiare mere informazioni. In questo senso è indicativo che l’enfasi sull’ermeneutica come cornice sia cresciuta in modo inversamente proporzionale all’ermeneutica concreta, praticata nel quadro: circostanza che richiama alla mente il vecchio aforisma caro a Croce sul puro filosofo come puro asino.

Dire che la critica è tale in situazione, lo ribadiamo, non significa dire che rifiuta la teoria, ma anzi che sa reinventarla, adattarla, ossia fare ciò che ha sempre fatto la filosofica autentica, il cui orgoglio stava nel saper legare il particolare all’universale. Del resto le teorie non sono teoriche: esigono un certo grado di follia, di “animo in entusiasmo”; per questo non possono essere usate impunemente come protocolli. Perciò la deriva che denunciamo non compromette soltanto una seria attenzione al lato materiale della forma, ma anche le astrazioni feconde di chi allarga lo sguardo sul rapporto tra la pagina e le idee generali, e tra le idee e la vita individuale o sociale. A soffrirne sono cioè sia il formalismo nel senso migliore del termine, sia l’atteggiamento teorico ed esistenziale di chi ricorda che le opere sono sì fatte di scrittura, ma si avvicinano solo asintoticamente al corpo del testo, e che appena si prova a trasformare l’asintoto in una coincidenza, come diceva Edward Morgan Forster pensando al romanzo, ci resta in mano un mazzetto avvizzito di parole. Il miglior close e il miglior distant reading, l’indice Contini e l’indice Lukács, vengono rimpiazzati da vaghe vie di mezzo.

Da una parte ci si dedica non tanto allo stile ma agli stilemi, che più che a una poetica rimandano a una griffe (si notano solo gli stili già stilizzati, dove ogni contrassegno è così macroscopico e stucchevole da rendere l’analisi superflua); dall’altra parte si definiscono cornici troppo vaste, che non riescono a dar conto della storia e dei testi letterari perché si limitano a fissare uno sfondo antropologico – oggi magari bio-neurologico – valido per qualunque epoca o produzione metaforica, e che in ogni caso mancano di un’idea forte, di uno schema che faccia guadagnare in visione quanto si perde in dettaglio. Siamo ancora alla situazione che descriveva nel 1968 Guido Morselli, giudicandola anche allora tutt’altro che nuova: si perpetua una critica che non può dirsi né formalista né contenutista, ma semmai “culturalista”, cioè una critica indifferente al livello artistico di un’opera, alla sua capacità d’interessare il lettore, e ridotta a chiedersi soltanto se l’autore sia “aggiornato rispetto a una certa, ma eminentemente variabile, serie di tesi o opinioni ricevute”. E ricevute, chiosa Morselli, “da un’intelligenza di cui la stessa critica ritiene di fare parte o di essere eco autorevole. Tali tesi o opinioni, se non sono cultura, ne sono però la frangia, sono il residuo divulgabile delle scienze (soprattutto umane e sociali), delle filosofie, delle ideologie”. Le esigenze di organizzazione su vasta scala rendono il flusso delle opinioni ricevute via via più rapido ed effimero. Si passa da un paradigma all’altro con quelle che Fortini, attribuendole al complesso delle nostre classi dirigenti, chiamava le periodiche immersioni in Lete e in Eunoè. Prima si è fanatici strutturalisti, poi ci si sveste in fretta dell’abito e lo si nasconde; ma siccome non si è fatta autocritica, ecco che ci si vota ad altri misticismi, ricadendo negli stessi errori diversamente travestiti.

Fino a qualche anno fa, ad arginare questa tendenza rimaneva una ricerca più nobile e consapevole, memore della lezione del Novecento non ancora burocratizzato, e dovuta ad alcuni dei maggiori interpreti della generazione di Lavagetto e dintorni. Ma nonostante la sua qualità indubbia, si trattava non di rado di una ricerca criticamente amputata: come quella appunto di Lavagetto o di Orlando, o anche di Pier Vincenzo Mengaldo. Autore della migliore antologia poetica del Novecento italiano, nonché di una serie di volumi sulla tradizione novecentesca che contengono un ricchissimo deposito di osservazioni formali, Mengaldo è infatti piuttosto a disagio se deve giudicare il presente – si pensi alla sopravvalutazione di certa lirica dialettale – e soprattutto se deve collegare la sua sapienza storico-filologica a idee e visioni di più ampio respiro: quelle che utilizza le ha mutuate in genere da Fortini o da Cesare Cases, e leggendolo si sente – soprattutto leggendo le sue pagine recenti, che non possono più essere alimentate dal loro marxismo eretico e creativo.

Anche chi tenta d’inventare formule adatte a storicizzare il caos degli ultimi decenni sembra spesso destinato a oscillare tra affondi critici e sublimazione della cronaca. Itinerari significativi ci sembrano quelli, per tanti versi opposti, di Alberto Asor Rosa (che esordì proprio sul crinale tra due epoche con lo schema antiumanistico di Scrittori e popolo) e di Giulio Ferroni (che inquadra un atteggiamento di curiosità cordiale in una cornice apocalittica). Si è poi già detto di Luperini, che appena abbandona le analisi sul modernismo per le panoramiche del Duemila cambia registro. Così si spiega il suo sostegno a libri come Gomorra, in cui la retorica populistico-estetizzante fa da alibi a un sociologismo di idee ricevute, e l’involucro del reportage fa da alibi alla corrività narrativa. Nel suo tentativo di reagire al postmodernismo, questo critico finisce per sostenere un presunto realismo inquinato dagli stereotipi e da un’esibizione di impegno del tutto estrinseca. Luperini identifica la Realtà con certi grandi temi, dimenticando che la letteratura può giudicare il suo tempo anche a partire da spunti “marginali”. È un difetto che si può riscontrare anche tra autori più giovani e ben attrezzati.

Merita di essere segnalato, ad esempio, il tentativo di mappare la narrativa contemporanea compiuto da Raffaele Donnarumma con Ipermodernità (2014). Tentativo intelligente, ma in cui si dà un credito immediato ed eccessivo a opere e filoni che contano più che altro su un piano sociologico. E ingegnosamente lo si teorizza. Donnarumma valorizza infatti lo scriver male delle semifiction, e la voce testimoniale che le regge, perché secondo lui saremmo davanti a un gesto capace di produrre un nuovo effetto di realtà, e persino di proporre nuovi modelli di comportamento. Ma contrariamente a ciò che afferma, non ci troviamo più nella situazione in cui la brutalità giornalistica di un Defoe spezza il bon ton del classicismo, perché un bon ton di qualunque tipo non esiste ormai da un secolo. Tutto è compresente; e in mancanza di attrito, i termini che fino al pieno Novecento indicavano conflitti tra forme, poetiche e atteggiamenti culturali o ideologici, vengono oggi riusati per restare editorialmente a galla iniettando nella narrazione massicce dosi di déjà-vu. La partita dell’oltranza, e della proposta di modelli, non si gioca più all’interno della letteratura: passa per altri e ben più potenti media. Semmai la narrativa che interessa a Donnarumma – Saviano in primis – cerca di emulare i prodotti di questi media con un atteggiamento velleitario e kitsch. In Ipermodernità manca insomma una valutazione netta della differenza di regime tra la storia moderna e la situazione attuale.

Interessante è anche la mappatura della letteratura italiana recente, in prosa e in versi, offerta da Gianluigi Simonetti nella Letteratura circostante (2018). In apparenza Simonetti assume un atteggiamento da prudente cronista, ma come il miglior Filippo La Porta degli anni Novanta dimostra poi una notevole capacità di connettere certi fenomeni di cultura e di costume ai libri ancora freschi di stampa. Il suo panorama suggerisce che dopo “il pubblico della poesia”, individuato a metà anni Settanta da Berardinelli e Cordelli, siamo ormai giunti al “pubblico della narrativa”, più largo ma sempre composto in gran parte da chi scrive, corregge, organizza eventi; e un po’ oltre l’indotto, dove la luce arriva fioca, c’è una platea che chiede ai libri storie ma soprattutto blasoni sociali. Più lontano ancora, questo piccolo sistema solare sfuma nelle galassie dello storytelling e nella radiazione di fondo di una generica scrittura creativa. In sintesi “la letteratura, che nella modernità era lingua speciale, si fa oggi comunicazione estetica ordinaria, il modo più elementare” per affermare sé stessi.

Senza innamorarsi di suggestioni sociologiche o metafisiche fatte passare surrettiziamente per critiche, Simonetti descrive qui un microcosmo in via di raffreddamento; avanza con equilibrio tra campionature e categorie empiriche, induttive; interpreta la narrativa, la poesia e la società in cui nascono, ma evita di confondere i piani di paraletteratura, midcult, e opere davvero complesse. Anche lui, davanti a tendenze effimere ma promosse con crescente brutalità mediatica, ne sopravvaluta a volte i promotori, tipi svegli che sanno muoversi agilmente nella bolla crossmediale in cui il testo resiste “come mezzo, non come fine”. Tuttavia non sono poche le pagine da meditare: ad esempio quelle sulla semifiction e sulle tecniche di genere come fughe speculari dalle responsabilità del romanzo; quelle sull’“impegno” come esotismo; o quelle in cui rileva che se la poesia ritorna a cancellare l’io, la narrativa insiste viceversa sul personaggio-autore.

Ma in generale, in questi ultimi rappresentanti della critica si avverte il timore di sembrare polverosamente highbrow. Perciò parlano soprattutto di ciò che è già visibile. Solo che la critica, se vuole essere davvero tale, deve mettere radicalmente in discussione la realtà imposta dai circuiti mediatici in modo sempre più violento, veloce e falsamente oggettivo. Del resto è il compito di tutta la letteratura, se è vero che nel riconoscimento di ciò che è più o meno reale si gioca la posta della sua lotta con il potere. Si tratta di un compito ingrato, visto che è ogni giorno più difficile negare il credito a etichette ogni giorno più invasive, o a una sociologia della cultura che scambia la cronaca con la storia; ma ancora più difficile è discutere dell’intercapedine che fatalmente si apre tra qualunque racconto storico e i valori pure innegabili che sacrifica.

Per i motivi detti, è inutile cercare soluzioni a priori. Tautologicamente, dobbiamo limitarci a ricordare la necessità della visione organica a cui si è accennato. Il suo valore non sta nel fatto di riuscire più o meno condivisibile, ma nella capacità d’illuminare certi oggetti con un taglio di luce grazie al quale anche chi li considera diversamente scopre aspetti che altrimenti non avrebbe notato. Occorre cioè recuperare l’approccio che si chiama militante, se si vuole usare una parola antipatica ma forse non sostituibile. È l’approccio, per fare qualche esempio, di cui ha dato una testimonianza rozza e geniale il Pasolini finalmente libero di Descrizioni di descrizioni; è lo stesso che ha consentito a Cesare Garboli e a Luigi Baldacci di lasciare due impronte opposte e altrettanto profonde sia sul panorama contemporaneo sia sull’interpretazione dei classici; ed è, ancora, la critica che nell’Italia contemporanea, ognuno alla sua maniera discutibile e originale, praticano autori come Alfonso Berardinelli (a partire dagli anni Ottanta), Massimo Onofri, Giorgio Manacorda, Paolo Febbraro (a partire dagli anni Novanta), e Paolo Maccari (a partire dall’inizio di questo secolo). Non a caso questi autori non coltivano soltanto interessi narrativi. Onofri e Berardinelli si occupano anche di critica della critica e in generale di saggistica, mentre gli altri si concentrano soprattutto sulla poesia.

Chi è Alceste

Se va rifiutato il gesto impaziente con cui gli studiosi liquidano o esorcizzano i rischi connessi a un rapporto pienamente critico con la letteratura, bisogna tuttavia riconoscere che questo gesto nasconde una questione importante. Appunto perché il critico moderno, anziché una parodia di filosofo sistematico come il teorico della letteratura, è un filosofo che non crede più alla filosofia, cioè ai sistemi, non è detto che debba occuparsi per forza di letteratura e di arte. Quando letteratura e arte non sono più al centro della cultura, può essere normale che si appassioni più volentieri ad altre realtà, oggetti o sintomi. L’opera di Alfonso Berardinelli, ad esempio, sembra un lungo congedo dalla letteratura, che essendo sostituita dai surrogati viene guardata ormai con l’occhio del satirico. Anche là dove riconosce testi di valore, Berardinelli li osserva spesso da lontano, preferendo inquadrare la situazione di lettura piuttosto che impegnarsi in un corpo a corpo.

Questa divaricazione tra critica e letteratura è più netta nelle generazioni successive, nelle quali di solito i letterati che si occupano di narrativa e di poesia contemporanee tendono al kitsch e al bovarismo, mentre quelli più dotati di idee e di gusto le considerano come un parco archeologico, un tavolo su cui i giochi sono fatti, e si compiacciono di maneggiare solo corpi ben morti – oppure, semplicemente, si occupano d’altro. Quanto alla prima categoria, è da notare che dopo la generazione di Raboni e Sanguineti sono quasi scomparsi i poeti che lasciano anche una considerevole opera critica. In ogni vero scrittore c’è sempre un critico implicito, non importa se poi scrive di critica: ma certo la scomparsa di quello esplicito dice qualcosa anche sulla cattiva salute dell’altro. Nello stesso senso, è indicativo che la reazione alla pseudoscienza coincida spesso con l’estetismo altrettanto acritico, umidiccio e volgarmente autobiografico di parecchia critica recente – vedi Trevi – che fraintende Garboli e annacqua la lezione di Citati. Venendo invece alla seconda categoria, vale la pena citare talentuosi analisti del costume culturale come Guia Soncini, Michele Masneri e Andrea Minuz, e due ottimi saggisti dalla vocazione critica come Guido Vitiello e Claudio Giunta, che vedono nella tradizione letteraria soprattutto un deposito di topoi da cui prendere spunto per trattare i più vari temi antropologici e sociali. Così fa in altro modo Daniele Giglioli, pur continuando a rendere conto nei suoi articoli dell’attualità letteraria; e così fa anche Francesca Serra, nella cui opera ci pare significativo lo sdoppiamento tra il registro di un brillante saggismo a mano libera, che incrocia storia dell’immaginario, arte e rapporti sociali, e un sobrio quanto rigoroso lavoro di studio su alcuni scrittori.

La divaricazione ha dunque motivi seri; non crediamo però che si possa portare all’estremo senza danni. Perché non solo una letteratura priva di critica non è più tale, ma è difficile anche immaginare una critica scissa dal commercio con gli altri generi letterari. Negli scritti di Berardinelli, in effetti, l’allontanamento non è mai definitivo. In lui è ancora determinante la consapevolezza che nella nostra tradizione la domanda sul “come vivere” è legata alla letteratura, e che questo legame implica quella messa in gioco dell’autobiografia che i più giovani in genere si inibiscono. Anni fa, in un dialogo con un suo ex allievo, gli è capitato di parafrasare Bloom, e di ricordargli che essendo Shakespeare più vasto di Freud e Marx, è meglio una teoria shakespeariana dei due maestri del sospetto piuttosto che il contrario.

Pur così distante dal contegno bloomiano, Berardinelli potrebbe sottoscrivere anche quello che l’americano dice sul padre dei critici moderni. “Johnson dimostra che l’unico metodo è l’io, e dunque che la critica è una branca della letteratura di saggezza” si legge nel Canone occidentale. E più avanti: “Se non ci saranno altre generazioni di lettori comuni, privi di inclinazioni ideologiche, Johnson scomparirà, insieme con molti altri elementi canonici. La saggezza, tuttavia, non muore così facilmente. Se la critica svanisce dalle università e dai college, risiederà in altri luoghi, poiché è la versione moderna della letteratura di saggezza”.

Ma occorre ribadire che questi luoghi si riducono di giorno in giorno. Il critico non ha più nemmeno una stanza in subaffitto. La funzione critica viene percepita ovunque con sospetto, in un mondo che non sembra avere alternative, e in cui quindi chi esprime il suo disagio è subito preso per un perdente risentito. Non a caso alcuni degli intellettuali più armati delle ultime generazioni si mostrano poco disposti a dare alla critica il credito esistenziale di cui ha bisogno. Temono che li si sospetti di pretendere il risarcimento per una mancata integrazione; e così dimenticano che buona parte della cultura moderna proprio da una mancata integrazione deriva. Ma per i migliori e i peggiori di loro, in effetti, i modelli non sono autori moderni, piuttosto postmoderni come Umberto Eco o Alberto Arbasino. Perciò confondono l’intelligenza con una specie di brillantezza coatta. O mitizzano i fenomeni, o li riportano sotto la linea di un’ironia liquidatoria: due atteggiamenti ugualmente difensivi e acritici, che peraltro reprimono e dunque rivelano un’aggressività scomposta perché non mediata. Davanti al critico che si mostra indifeso, che non imposta aprioristicamente il tono su un registro o goliardicamente eccitato o blasé, pensano subito che sia un invidioso, o un moralista, o un populista che non sa darsi ragione delle cose. E del resto è vero che in una situazione sociale in continua trasformazione, eppure ormai apparentemente immodificabile dagli uomini, si moltiplicano i velleitari. Ma questo fenomeno diventa un alibi per diffamare qualunque autentica istanza critica, che così rimane schiacciata tra le menzogne romantiche e un’angusta realpolitik culturale.

In conclusione, il critico resta oggi la sineddoche dello scrittore moderno: sconta in forma estrema tutte le sue condanne, compreso il rischio di un totale oblio. Ma è un oblio che ha dei costi anche per la cultura che rimuove questo Alceste sempre in bilico tra il dialogo con la società e una solitudine irrequieta. Lo ha chiarito bene Berardinelli ribattezzando il critico “Scrittore Endocrino”. Questo scrittore è “poco visibile”, ma si nota “in presenza di gravi e speciali patologie”. Infatti “le sue funzioni sono (…) nello stesso tempo fondamentali e poco afferrabili”. “Immettendo certi messaggeri chimici (ormoni) nella circolazione culturale”, spiega Berardinelli, “dovrebbe eccitare o inibire l’attività di organi e tessuti. Dovrebbe presiedere alla crescita equilibrata, al metabolismo e all’assimilazione del nutrimento letterario, fare in modo che i rapporti fra letteratura e ambiente vadano bene, che dei testi resti traccia e memoria solo se lo meritano. Insomma il ritratto dello scrittore endocrino fa subito pensare al buon esercizio della critica. Grandi autori endocrini sono stati nel passato Benjamin, Wilson, Contini, Debenedetti. Qualcuno di loro finì a lungo dimezzato per mancanza di pubblico. Oggi dovremmo pensare che i maggiori rischi di patologia letteraria vengano in realtà proprio da carenze e squilibri ormonali. Basta vedere quanto ipotiroidea e insieme ipertiroidea sia oggi la nostra produzione letteraria: esagitata e pigra insieme”.

Lavagetto non lo ha veramente dimostrato nel suo pamphlet, ma aveva ragione: non c’è letteratura che possa vivere bene senza critica, cioè senza una sua parte essenziale. Una parte che forse, con il resto della saggistica, è oggi più feconda di altre troppo più visibili e rappresentate nei panorami letterari.

 

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