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Su Isherwood

 

“Come prova finale, cercai di guardare negli occhi di Arthur. Ma no, questo procedimento tanto onorato dalla tradizione non riuscì. Non erano finestre dell’anima, quelli. Non erano che una semplice parte del suo viso, una specie di gelatina di un azzurro chiaro, come un mollusco nudo nella fenditura di uno scoglio (…) Non c’era altro da fare che prendere Arthur così, sulla parola”.

Così, in uno degli ultimi capitoli, Christopher Isherwood inquadra il personaggio che dà il titolo a Il signor Norris se ne va (1935). Come nei cartoni di Addio a Berlino (1939), nel romanzo ristampato ora da Adelphi il trentenne scrittore inglese chiude i conti con la stagione che ha trascorso in Germania lungo il sinistro e variopinto crepuscolo della Repubblica di Weimar. In entrambi i libri, i’io narrante è un suo alter ego che fugge dal galateo inamidato dell’aristocrazia britannica e si scava una serie di tane bohémien nella capitale tedesca, campando di lezioni private e traendo tutta la possibile ispirazione poetico-sociologica dai clienti, dai padroni di casa o dagli incontri casuali. Nell’Addio questo alter ego ha il nome e il cognome di Isherwood, comicamente irrigidito dalla pronuncia berlinese, mentre nel Signor Norris si chiama William Bradshaw. William ha conosciuto il connazionale Arthur Norris nello scompartimento di un treno, ed è stato attratto a prima vista dal suo sguardo colpevolmente allarmato, che si rivelerà poi un riflesso delle sue attività truffaldine. Ma sebbene inizi subito a ingannare anche lui, il ragazzo preferisce credergli o fingere di credergli piuttosto che volergli male. Norris tesse ragnatele ricattatorie così ingegnosamente sottili da evaporare in un istante, o viceversa così grossolane da rapprendersi in un irrisolvibile pasticcio.

Per riparare ai suoi debiti cronici, questo inglese già avvizzito traffica in arredi e in segreti, e soprattutto contrabbanda fiducia: una moneta che, dato il suo comportamento, si dimostra presto più inflazionata del marco postbellico, ma che lui tenta comunque di spacciare fino all’ultimo, con uguale affettazione, a comunisti, commercianti, burocrati e industriali. Perché Arthur è incorreggibile: anche quando la sua furbizia puerile viene scoperta, non sa tuttavia rinunciarvi. Non riesce infatti a fronteggiare senza schermi la poco edificante realtà, e quindi, appena se la trova davanti nuda e cruda, torna subito a seppellirla sotto una retorica cerimoniosa, disarmante, spudorata: la retorica di chi, pur di non vedere e non vedersi, è pronto a ricalibrare ogni momento i confini del lecito, della viltà, della frode, fino a perdere la coscienza della propria spugnosa duttilità morale. “A bocca aperta lo guardai con un sentimento misto di indignazione e di divertimento, di curiosità e di disgusto”, annota William dopo l’ennesima esibizione di impudenza. “Timidamente i suoi occhi incontrarono i miei. Non poteva esservi alcun dubbio; era onestamente inconsapevole di aver detto qualche cosa che potesse sorprendere od offendere”.

E in fondo l’inconsapevolezza, o l’abitudine, rende bene ad Arthur: perché appena William sta per esplodere, gli basta guardarlo e subito la sua rabbia si rovescia invariabilmente in una ilarità irresistibile. Di solito succede così: con la sua gentilezza di commesso viaggiatore travestito da lord, Arthur coinvolge l’amico in un imbroglio tenendoglielo nascosto, e anzi presentando il favore che si appresta a esigere come un favore che lui stesso magnanimamente gli concede; poi Bradshaw se ne accorge, gli fa capire che ha capito, e magari si diverte a stuzzicarlo un po’, finché Arthur, dopo un breve broncio da guitto deluso, ride insieme a lui; ma alla fine, malgrado sia stato colto con le mani nella marmellata, il truffatore si rinfila la maschera e riprova il raggiro. Tutto appare evidentemente posticcio nel signor Norris; ma con altrettanta evidenza, anche quando la recita è inutile non può fare a meno del trucco, per la stessa ragione per cui non può fare a meno delle sue sontuose e improbabili parrucche: lì e solo lì, in quella farsa di poco prezzo, si gioca ormai la sua nomade esistenza. Ne risulta un personaggio ridicolo, e però di un ridicolo che rivela una inquietante carenza d’essere, confermata tra l’altro dal suo masochismo erotico (dopo una notte di orge, William lo trova nello stanzino di una villa mentre si fa diligentemente frustare) e dal perverso rapporto di dipendenza che intrattiene col suo servo energumeno, davanti al quale è lui ad assumere un contegno più che mai servile, lasciandolo spadroneggiare senza limiti.

Anche nel rapporto col narratore i ruoli si rovesciano. Arthur, che si compiace di assumere un tono paterno e paternalistico privo di ogni credibilità, viene a poco a poco adottato dall’indulgente William, figlio che si fa padre e finisce suo malgrado per reggergli il sacco, per perdonare le sue bugie dalle frasi lunghe e dalle gambe corte, o per consolarlo quando piagnucola dopo il fallimento di qualche patetica impostura. E’ una dinamica relazionale che si ripropone in altri libri di Isherwood, e che sembra quasi parodiare quell’amicizia impastata di spirituale fraternità e di fisicità omoerotica in cui lo scrittore riconosce la forma più alta e libera di condivisione concessa agli esseri umani. Si pensi ad esempio, nella Violetta del Prater (1945), agli scambi tra il giovane sceneggiatore Christopher e il maturo regista Bergmann, fuggito a Londra dall’inferno mitteleuropeo degli anni Trenta. Come Arthur, sebbene con tutt’altra inclinazione morale, anche questo artista ebreo è un ometto vulnerabile, istrionico, verboso, che può sopportare la dura realtà solo a patto di lasciarsi risucchiare da un’immaginazione debordante. E sia Bergmann che Arthur, mentre si sbracciano a tracciare nell’aria i loro pittoreschi fuochi d’artificio, sono accolti dalla complementare, distaccata e divertita obiettività del narratore, che un attimo prima di cedere all’insofferenza avverte l’assurdità della situazione e scoppia a ridere con la leggerezza di un ragazzino, o di un monaco orientale per cui nulla vale davvero la pena nel mondo.

Attraverso il medium di Norris, come attraverso le altre bizzarre sagome sparse lungo il romanzo del ‘35 e i quadri dell’Addio, Isherwood testimonia gli anni contraddittori dell’ascesa nazista e i mesi del definitivo trionfo hitleriano. In Europa l’aria stava cambiando rapidamente, proprio come oggi. E proprio come oggi quasi tutti (gli inglesi, i tedeschi, i francesi con cui Arthur tenta d’imbastire goffe trame spionistiche) apparivano certi della futura guerra e al tempo stesso incapaci di crederci davvero. La consideravano incombente e irreale come la morte. Isherwood spiega almeno in parte questa incredulità, e l’immobilismo da ipnosi che si porta dietro, osservando che anche gli avvenimenti più clamorosi e clamorosamente crudeli si svolgono ormai con la consequenzialità straniante, immaginaria e iperbolica di una gag a passo ridotto. Un attimo prima la gente sembrava indossare le divise per scherzo, e un attimo dopo il sangue scorre a fiumi. Ma perfino davanti agli eccidi, quell’europeo metà zen e metà automatico, metà irresponsabile e metà saggio che è Chris-William, non può non sorridere se appena su Berlino splende il sole. Le sue percezioni sono quelle di un giovane animale in perfetta salute, scattante, curioso, e privo di ogni scopo o legame.

L’alter ego del libertario e aristocratico Isherwood non possiede nessuna reale convinzione o prospettiva storica che gli permetta d’inserire gli eventi in un complesso contesto di senso, e a differenza di molti ragazzi italiani che a inizio XXI secolo cercheranno di prolungare l’adolescenza nel limbo berlinese, non finge nemmeno di averle, ossia non soffre di bovarismo ideologico. Questa caratteristica fa di lui un limpido specchio narrativo e un salutare “contravveleno” a ogni falsa coscienza, come ha visto Piergiorgio Bellocchio; ma al tempo stesso gli costa una sensibilità troppo dispersa e volubile per poter reagire alla catastrofe. Nell’epoca degli spettatori distratti e della riproducibilità tecnica, tramite le sue controfigure Isherwood mostra come si sta allargando lo iato tra ciò che gli esseri umani sperimentano sulla loro pelle e ciò che guardano apatici quasi fosse un film, tra ciò in cui credono sul serio e ciò che ispira loro un sentimento di solidarietà astratta, impalpabile e inerte. “Forse avevo viaggiato troppo, avevo lasciato il cuore in troppi luoghi”, dirà Christopher nella Violetta del Prater, esprimendo un sentimento che nei nostri tempi globalizzati e ipermediatici appartiene a tutti. “Sapevo quello che avrei dovuto provare ora (…) quello che si addiceva alla mia generazione provare. Ci importava di tutto: del fascismo in Germania e in Italia, della conquista della Manciuria, del nazionalismo indiano, del problema irlandese, dei lavoratori, dei negri, degli ebrei. Avevamo disperso i nostri sentimenti un po’ per tutto il mondo; e sapevo che i miei costituivano un pulviscolo molto sottile”.

Lungo le strade della Berlino che si tinge di bruno nelle uniformi, e s’imbiondisce d’orgoglio nei volti e nei discorsi, questa dispersione e questa irresponsabilità da spettatore sono rese da Isherwood con una scrittura trasparente, nella quale il grottesco e l’orrore appaiono il recto e il verso di uno stesso sottilissimo foglio. Grazie alla sua rapidità corsiva, all’efficacia icastica delle sue metafore e dei suoi dialoghi, questa scrittura evita sempre d’un soffio il pittoresco, la macchietta, l’astrazione marionettistica o farsesca, esattamente come all’estremo opposto schiva il precipizio del pathos. In questo senso ha ragione Giorgio Manganelli quando sostiene che Isherwood è divertente, ma lo è “in una maniera lievemente perversa”, e che è “affascinato dalla tragedia”, ma lo è “in modo fatuo, discontinuo, leggero”.

In un’intervista degli ultimi anni, parlando del suo maestro Forster, lo scrittore evocherà una categoria che spiega bene la sua stessa poetica, quella della letteratura “metacomica”, cioè di “una specie di commedia che va al di là della commedia e della tragedia insieme”, perché “l’una e l’altra, portate fino in fondo, sono faticose, sterili, vuote e lasciano insoddisfatti”. Per questo, nelle cronache berlinesi del Signor Norris e dell’Addio, il senso di spensierata fatuità non rende meno tremenda la descrizione della vittoria nazista – e viceversa. Un esempio: nel romanzo, la vecchia nobiltà tedesca è compendiata in un bambinone – che non si può non immaginare col cranio alla Grosz – il quale dopo aver trascorso la vita a immedesimarsi nei libri d’avventura per ragazzi e a cimentarsi in laboriosi approcci omosessuali, fa una fine stupida quanto atroce. O ancora: mentre le squadre hitleriane s’impegnano in un pestaggio ormai generalizzato, chi per qualche incidente assolutamente non politico si ritrova con una benda a un braccio o a una gamba rinuncia a uscire per paura che la fasciatura venga interpretata come il segno di una lezione ideologica, e ne implichi quindi una seconda, magari definitiva. Questa compresenza di efferatezza e di umorismo pervade interamente la Berlino isherwoodiana, sospesa tra un passato filisteo, un presente cabarettistico e un futuro disumano: colora sia le camere d’affitto arredate col greve gotico guglielmino sia il rarefatto razionalismo dei grandi magazzini, sia le giornate dei sottoproletari vitalistici e dei piccolo-borghesi ammuffiti che oscillano tra comunismo e nazismo, sia l’apatia dei colti ebrei altoborghesi pronti per il colpo di pistola alla nuca.

In una Germania dove tutto è insieme brutale e irreale, Arthur si presenta come il relitto di una civiltà belle époque che ha senz’altro preparato la propria liquidazione totalitaria, ma che anche nei suoi difetti più imperdonabili (il tatto ipocrita, il camaleontismo avvocatesco, la mistificazione coatta) mantiene un rispetto per l’individuo irriducibile alla prassi dei nuovi regimi di massa e dei loro bestiali quanto tecnologici sicari. Recensendo il romanzo sull’“Indice dei libri”, Giacomo Pontremoli ha notato che a impedire la rottura tra il narratore e il suo compagno infido “è proprio l’inettitudine di Norris, in cui William coglie un segno di incompatibilità con l’abietta efficienza, il conformismo mortale e l’immane violenza che si stanno prospettando in Europa”.

“Le persone che non si fanno mai abbindolare sono così deprimenti”, dice in Addio a Berlino il Chris gemello di Bradshaw: e forse lo sono anche le persone che quando provano ad abbindolare mostrano di aver perduto, per eccesso di “geometrica potenza”, l’impudenza del molle Arthur, un’impudenza pasticciona e infantile, ma perciò mai condannabile senza appello. D’altra parte, lo ha visto bene Giorgio Manganelli, anche l’arte del narratore-autore consiste come quella di Norris nel “tessere di nulla una storia”. Solo che lui, al contrario di Norris, sembra non aver niente né da nascondere né da rivelare. Isherwood è un affabulatore “magro”, essenziale quanto elegante. La sua dote più spiccata, per citare ancora Manganelli, è una “secca grazia”, o se si vuole una pigra impassibilità, una disinvoltura mai esibita che fa coincidere la poesia con l’informazione. “Distrattamente preciso, fisicamente ironico”, lo ha definito Mario Fortunato introducendo a suo tempo l’edizione Einaudi del Signor Norris, che pur nella sua relativa magrezza resta forse il libro più romanzesco di uno scrittore destinato invece a smontare le gerarchie narrative, come in Addio a Berlino o nel diario di Ottobre, per allineare una serie di brani stenografici secondo un disegno insieme perentorio e casual. Quando non si esaurisce in pochi tocchi o in sequenze velocissime, il plot denuncia infatti un volontarismo che contraddice il tipico sguardo isherwoodiano, l’occhio di “una macchina fotografica con l’obiettivo aperto, completamente passiva”.

Descrivendo questa vocazione insieme anaffettiva e inclusiva, Cyril Connolly ha affermato che “Isherwood è persuasivo perché così insinuantemente blando e anonimo, niente lo eccita, niente lo sconvolge. Mentre segretamente ci disprezza, non potrebbe al tempo stesso essere più tollerante”. Secondo il suo amico di gioventù Auden, Christopher non coltivava opinioni su nulla: semplicemente osservava le persone, e ne registrava gesti e caratteri senza fare questione di piacere o di giudizio, con l’avara economia dello scrittore che finalizza tutto alla risultante scorporata della pagina.

Questa attitudine rimane costante, seppure sotto altra colorazione tematica, anche dopo il suo trasloco californiano del secondo dopoguerra e l’avvicinamento alla spiritualità induista, che del resto offre un terreno molto ospitale alla “oggettività”, alla “passività” accogliente e antivolontaristica. Introducendo la Violetta, che nelle ultime pagine, come Un uomo solo (1964), apre uno squarcio sulla perdita dell’identità individuale nelle acque profonde dell’Uno-Tutto e del Nulla, Manganelli ha parlato di “ironico Vedanta”. E infatti lo squarcio è inscindibile da un’ironia ubiqua perché senza idoli, come dimostra in Incontro al fiume (1967) la scena della riconciliazione finale tra i due fratelli, che avviene appunto attraverso una comune, liberatoria risata durante il rito di passaggio con cui il minore diventa un monaco indù. E’ solo la coincidenza di edonismo scanzonato e di malinconia fonda, arresa, che permette a Isherwood di descrivere con equità ogni cosa, dalla morte alla masturbazione, dalla tortura totalitaria a quella sua caricatura spettrale che è l’universo degli studi cinematografici.

E l’espressione più rappresentativa di questo stile, per la sua nettezza impassibile e la sua futilità ambigua, sta forse nei continui botta e risposta tra i personaggi, in un discorso diretto che “non conclude”. “Il dialogo”, è scritto in uno stupendo passo di Un uomo solo, “è per sua natura impersonale. E’ un incontro simbolico. Non coinvolge direttamente le parti. Il che spiega perché in un dialogo, si può dire qualunque cosa. Anche la confidenza più intima, il segreto più bruciante, suonano come semplici metafore o illustrazioni di un principio, che non possono essere usate contro di noi”.

Questo “incontro simbolico”, con la sua inconsistenza teatrale, getta un velo sulla verità degli individui, e funziona come un frustrante rimando senza fine delle responsabilità, delle scelte, di un’unione profonda tra gli uomini; ma proprio per questo è anche l’unico esercizio adatto a mimare con platonica saggezza una verità sempre sfuggente, ed è l’unico stratagemma capace di tenere l’uno accanto all’altro due individui senza che si offendano o si separino una volta per tutte, in un intrattenimento potenzialmente infinito. Lo testimonia, nel romanzo del ’35, il capoverso in cui William fissa nella forma più definitiva la cifra della sua relazione con l’amico: “Tornavamo ancora alla solita schermaglia di parole. Come se giocassimo a carte. Quel momento di franchezza, che avrebbe potuto redimerlo tanto, era stato elegantemente evitato. Lo spirito di Arthur, sensibile come quello di un orientale, rifuggiva dalla rude, sana, moderna sincerità delle verità a ogni costo e delle confessioni che liberano l’animo. Invece di tutto ciò, mi offriva un complimento. Ci trovavamo ancora in quel momento, come tanto spesso prima, sull’orlo di quella linea delicata e quasi invisibile che divideva i nostri due mondi. Non l’avremmo mai più attraversata”.

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