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Parole strane

Ricordate il monologo finale di Pacino in “Profumo di donna”? «Io mi sono trovato spesso ad un bivio, nella mia vita. Io ho sempre saputo qual era la direzione giusta: senza incertezze sapevo qual era. Ma non l’ho mai presa. Mai. E sapete perché? Perché era troppo duro imboccarla». Ecco, anch’io ho sempre saputo che avrei potuto diventare un bravo linguista: c’era la disposizione, c’erano i maestri. Ma era troppo difficile, ci voleva troppa disciplina, e soprattutto ci voleva quella umiliazione del sé, quell’ascesi che permette di accumulare dati oggettivi su dati oggettivi senza alzare mai gli occhi dalla pagina, senza dire mai «io penso che», «il mondo, per come lo vedo io…», insomma di abolirsi felicemente nell’oggetto della propria ricerca: la morfologia dell’aretino antico, il problema delle labiovelari nell’indoeuropeo… Avessi ascoltato la voce del super-io, oggi forse farei le cose magnifiche che fa il glottologo Alessandro Parenti, cose forse un po’ laterali nel vasto mondo delle humanities, ma più utili e più interessanti di quasi tutti i discorsi sulla letteratura che facciamo a scuola, all’università, sui giornali.

Primo esempio di queste cose magnifiche è un articolo intitolato Recupero di una voce spezzata. Sul testo di «Decameron» II 9, 42 che uscirà sul prossimo numero degli «Studi di filologia italiana» (spoiler alert: leggano solo i non abbonati agli SFI, gli altri aspettino di leggere il saggio in rivista). La novella II 9 del Decameron è quella di Bernabò da Genova e di sua moglie Zinevra. A un certo punto la donna – che è scampata al sicario che, per conto del marito, doveva ammazzarla – si traveste da marinaio e fugge verso il mare. Qui trova per caso «un gentile uom catalano, il cui nome era segner En Cararh, il quale d’una sua nave, la quale alquanto di quivi era lontana, in Alba già disceso era a rinfrescarsi a una fontana»; senza pensarci due volte, la donna prende il largo con lui.

Ora, nel manoscritto autografo del Decameron, lo Hamilton 90 della Staatsbibliothek di Berlino, Boccaccio spezza la parola perché va accapo: «i(n) alba / gia disceso era». Gli editori hanno pensato che si trattasse di due parole distinte, alba e gia, appunto, e cioè, integrando una maiuscola e un accento, Alba e già: un toponimo (che però nessuno è mai riuscito veramente a collocare sulla mappa) e un avverbio (pleonastico, in quel contesto). Ma Parenti argomenta del tutto persuasivamente che si tratta in realtà di una sola parola, albagia, che oggi significa ‘boria, arroganza’, ma che un tempo, documenti alla mano, poteva significare ‘bonaccia, assenza di vento’. Il passo boccacciano andrà dunque letto come segue: «un gentile uom catalano, il cui nome era segner En Cararh, il quale d’una sua nave, la quale alquanto di quivi era lontana in albagia, disceso era a rinfrescarsi a una fontana». Insomma, sorpreso dalla bonaccia, e accaldato, il catalano è sceso a terra con una lancia per cercare refrigerio.

Una minuzia? Certamente. Ma che oltre a illuminare il senso di un periodo del più grande prosatore del Medioevo (in un testo tante volte letto e editato!) rischia di avere conseguenze ben più larghe sulla filologia del Decameron, se è vero – come a me pare vero – che aiuta a risolvere anche la vexata quaestio relativa alla posizione stemmatica di un altro celebre manoscritto boccacciano, il Laurenziano Pluteo 42, 1 esemplato da Francesco Mannelli, da alcuni studiosi ritenuto collaterale, da altri descriptus dell’autografo Hamiltoniano: e qui la questione si complica, e non posso che rimandare gli interessati al saggio di Parenti negli «Studi di filologia italiana».

Il secondo esempio dal repertorio delle «cose magnifiche» è il recente libro di Parenti Parole strane. Etimologie e altra linguistica, che raccoglie, come spiega il titolo, saggi sull’etimologia di alcune di quelle parole desuete o bizzarre delle quali il nostro lessico è ricchissimo. L’etimologia delle parole italiane, spiega infatti l’autore, «in buona parte dei casi pone poche difficoltà, per il semplice fatto che la tradizione della nostra lingua poggia su una base sufficientemente nota. Ci sono però parole di etimologia difficile, il cui primo modello non è affatto evidente, e sono parole che spesso si distinguono per un tratto: la stranezza della forma. Se poi ci ritroviamo a guardare sotto il velame della stranezza, a volte imbocchiamo percorsi altrettanto strani: più o meno lunghi, ma quasi mai prevedibili».

La metafora del percorso è tanto abusata da essere ormai quasi inutilizzabile (la stucchevolezza dei percorsi didattici, dei percorsi di vita, di fede!), ma qui è molto pertinente, perché gli undici saggi che compongono il volume sono davvero dei piccoli viaggi intorno a una parola o una locuzione dall’origine problematica: stregua, scagnozzo, boncio, guarmine, un paio di nozze eccetera. E sono viaggi meticolosamente organizzati: Parenti prende la parola o la locuzione d’incerta etimologia, vaglia i contributi lessicografici che hanno cercato di spiegarla, li trova sempre insufficienti, ri-raccoglie e riesamina la documentazione e, alla luce di questa, propone una nuova etimologia più convincente, e insomma risolve il mistero. Detto così sembra banale, com’è banale l’applicazione di un metodo. Ma la verità è che la storia delle parole costringe a fare giri impensati, e che al linguista e al suo lettore tocca maneggiare un’enorme quantità di fonti letterarie, storiche, figurative, folcloriche, sicché in una ricerca etimologica ben fatta si finisce per toccare ogni regione dello scibile. E d’altra parte non è che ci sia un metodo dell’etimologia, un protocollo passe-partout, altrimenti sarebbe tutto molto facile. Conta padroneggiare la storia della lingua, e le lingue classiche, ma conta soprattutto avere quel tipo di competenza – più affine alla finesse che alla géometrie, direi – che permette quasi a colpo d’occhio di distinguere le ipotesi plausibili da quelle campate in aria. Per fare la prova, basta leggere il lungo saggio su scagnozzo, che liquida subito l’etimologia da cane, riflette più a lungo su quella da scanno, ma opta poi con ottime ragioni per scambio/scagno («un sostituto spesso improvvisato»); o quello sull’espressione a iosa, davvero mirabile per la quantità dei testi messi a partito (si risalirebbe a un’espressione d’incitamento aiosa! dal doppio valore di ‘in fretta’ e ‘in abbondanza’).

(Io poi, devo dire, non avendo imboccato a suo tempo il ripido sentiero della virtù, per le etimologie ho il moderato interesse che hanno tanti. Ma ho un debole per la bella scrittura accademica, che è cosa rara. E a distanza di settimane dalla lettura di questi saggi posso essermi dimenticato l’etimologia di baliere o di gandavugli, ma sorrido ancora al ricordo dei deliziosi obiter dicta con cui Parenti maltratta certe etimologie sbagliate – «Un po’ più studiata ma quasi comica (e potremmo omettere il quasi) è l’etimologia data da Carlo Battisti … L’ipotesi del Lurati, insomma, è un po’ un disastro» – o certi glossatori pigri: «Quanto al significato, l’indice lessicale dell’edizione, che qui e altrove non si perde in chiose…»).

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