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Un’altra Expo. Carlo Mollino a Osaka nel 1970

Appuntamento all’una e mezza all’air terminal di Via Gobetti 10, due passi da Porta Nuova, trasferimento in torpedone all’aeroporto di Caselle, partenza per Fiumicino dove, espletate le «operazioni di frontiera», la Direzione Alitalia offre un piccolo «rinfresco augurale», dopodiché si sale su un DC 8 e si parte per l’Oriente.

Adesso è chiaro che i programmi dei viaggi organizzati, con le loro «giornate a disposizione», i loro «giri panoramici della città in autopullman», le loro pensioni complete, ricordano un po’ Fantozzi («Allora, dicevo, l’arrivo è previsto all’Aeroporto internazionale di Cobnau dalle 23 alle 3 del mattino. Trasferimento in taxi all’albergo Royal in camere singole o a due o a tre letti. Il 24, vigilia di Natale, gita facoltativa in pullman al Castello di Amleto a Helsingor…»: è la voce di Filini, l’«organizzatore naturale», in Fantozzi contro tutti); ma è solo perché le carte di credito e Tripadvisor hanno fatto diventare obsoleti i viaggi organizzati. Quarantasei anni fa le cose – specie se le cose erano il Giappone – erano più complicate.

Carlo Mollino parte per l’Expo di Osaka il 21 maggio e rientra in Italia il 2 giugno. All’andata passa per l’Asia (Karachi-Bangkok-HongKong), al ritorno per l’artico. L’aereo – spiega la pubblicità Alitalia che nei primi mesi del 1970 occhieggia nei meravigliosi rotocalchi di allora: Epoca, L’Espresso – fa «novecento chilometri all’ora, 8500 metri di quota, temperatura interna costante di 21 gradi. Graziose hostesses nelle loro eleganti uniformi verdi disegnate da Mila Schön. Bibite e liquori d’ogni genere, pasti raffinati», e come gadget «un paio dei tradizionali bastoncini che in molta parte dell’Asia sostituiscono ancora le nostre posate» («1970», infatti, significa che tutto è nuovo ed esotico, perché siamo ancora al di qua di tutto: non solo dei voli intercontinentali senza scalo e della schiscetta col panino di gomma, ma anche di tutto l’orientalismo de noantri che doveva poi rallegrare l’esistenza dei miei coetanei: i manga, gli haiku, Goldrake, le atroci 101 storie zen [prima edizione Adelphi 1973], le bacchette per il sushi, il sushi: era ancora tutto terra incognita).

Il Giappone del 1970 è la terza potenza economica del pianeta dopo gli Stati Uniti e l’Unione Sovietica. Venticinque anni prima era una distesa di rovine, adesso è il maggiore produttore mondiale di navi, motociclette, macchine fotografiche, radio a transistor, e per il suo territorio passa il 7% del commercio internazionale. Nel giro di dieci anni ha più che quintuplicato il suo PIL, che ora cresce al tasso vertiginoso del 11-14% annuo. Le esportazioni corrispondono a più del 30% del prodotto, i disoccupati sono meno di mezzo milione. In visita alle industrie Matsushita di Osaka, l’inviato di Epoca Franco Bertarelli viene accolto prima da «un rituale O sole mio cantato in italiano sullo spartito, magistralmente», e poi da questo inno aziendale, salmodiato a una voce sola da operai e dirigenti: «Per costruire un nuovo Giappone / la forza del braccio e la forza del cuore / Per raggiungere una produzione senza limiti / per inviare il frutto della nostra fatica / a tutti i popoli del mondo / senza fine e senza sosta / come l’acqua che sgorga da una fonte perenne / cresci industria cresci / insieme con l’armonia e la fedeltà della Matsushita». Si comincia a favoleggiare, ma non sono favole, di self-control rooms piene di pupazzi che i dipendenti possono prendere a bastonate, per sfogare lo stress, e di lavagne su cui possono scrivere insulti all’indirizzo dei dirigenti (anche questo assomiglia al plot di un racconto di Fantozzi, La scritta sul cielo).

Date queste premesse, si capisce abbastanza bene perché il ventennio successivo sarà, per l’Occidente, l’età dell’ansia generata dal pericolo giallo. Gore Vidal dirà che, messi di fronte al prossimo asse del male sino-giapponese, «gli Stati Uniti devono fare causa comune con l’Unione Sovietica»; in Coniglio, sei ricco! John Updike descriverà, con un’angoscia che stinge sulle buone vite dei buoni borghesi ritratti nel romanzo, la marcia trionfale della Toyota sul mercato automobilistico americano; e gli sceneggiatori di Black Rain metteranno in bocca a Michael Douglas, poliziotto newyorkese in trasferta a Tokyo, un florilegio di battute di puro odio, da proteste ufficiali e ritiro dell’ambasciatore («[Masahiro]: Music and movies are all America is good for. We make the machines, we build the future, we won the peace». «[Douglas]: And if there was ONE of you guys who had an original idea, you’d be so tight that you couldn’t even pull it out of your ass!»).

Sui giornali, gli inviati speciali illustrano le superiori e un po’ inquietanti virtù dei giapponesi: silenziosa e grata obbedienza alle regole, amore per il lavoro ben fatto, sovrumana resistenza alla fatica, spirito di sacrificio, dedizione all’Azienda e allo Stato (in quest’ordine), sobrietà nell’eloquio e nei modi, modestia: tutte virtù che dovevano riuscire simpatiche a un torinese coriaceo ed eclettico che, cominciando da bambino, si era in pratica auto-insegnato la fotografia, il design, la progettazione, e che tra una cosa e l’altra aveva anche trovato il tempo di scrivere una Introduzione al discesismo (1950), un manuale di sci alpino di 330 pagine grandi che contiene capitoli intitolati Timidezza e strafottenza in sci, Motivi di modestia e Importanza della laminatura metallica prolungata alle spatole.

Mollino va all’Expo il 31 maggio, come da programma dattiloscritto.

Da segnalare che, due mesi prima della sua, c’era stata la visita di una delegazione di cantanti sanremesi invitati dagli organizzatori: Sergio Endrigo, Gigliola Cinquetti, Marisa Sannia, Mario Tessuto, Rosanna Fratello, Gianni Nazzaro e Lucia Rizzi, sedicenne vincitrice di Castrocaro, terza liceo artistico, che non è mai stata all’estero e a domanda risponde: «A me interessa la scuola, non ho intenzione di perdere degli anni per colpa delle canzonette». Non li perderà.

Da segnalare anche, in concomitanza col soggiorno dei sanremesi, una fuga di gas con successiva esplosione che fa un’ottantina di morti e quasi cinquecento feriti, e spiana un intero quartiere della città. In una pagina interna, taglio basso, La Stampa riferisce che «Quando è scesa la sera, anche l’Expo è apparsa illuminata dal bagliore degli incendi», e che la banda dei carabinieri italiani ha offerto il suo aiuto alle autorità giapponesi (i video dell’epoca, visti su YouTube, sono agghiaccianti, è dimostrano vero, se servisse, il luogo comune secondo cui non è che oggi le cose vadano peggio, è solo che se ne parla di più, e soprattutto che si vedono in tempo reale: oggi dai viaggiatori terrorizzati fioccherebbero le disdette).

Il tema-motto dell’Expo è Progresso e armonia per l’umanità. Il padiglione italiano (architetti Gilberto e Masino Valle, ingegnere Sergio Brusa Pasquè) è una costruzione in vetro e acciaio formata da sei corpi a sezione rettangolare inclinati di 30 gradi che intersecano ortogonalmente quattro grossi montanti tubolari bianchi. La struttura, sobria, geometrica e forse – se paragonata allo sfarzo circostante – appena un po’ punitiva, ospita capolavori dell’ingegno italiano come il bob dell’ex campione del mondo Eugenio Monti, la MV Agusta di Giacomo Agostini e, un po’ defilato, aereo e sbarazzino, il Mercurio del Giambologna. Non male, ma è una lotta contro i titani. Il padiglione di Hong Kong ha la forma leggiadra di un prao a più vele dai colori cangianti; quello svizzero è presidiato da uno splendido Albero della luce formato da 32.000 lampadine, quello australiano è un enorme edificio circolare ispirato alla Grande onda di Kanagawa di Hokusai, e ha le pareti foderate di video che proiettano filmati di surfisti sull’oceano; nel padiglione sovietico – alto più di cento metri, una specie di Palazzo a Vela in scala tre a uno – c’è la navicella spaziale Soyuz, e in quello degli Stati Uniti c’è un pezzo della luna. L’inviato di Epoca è moderatamente deluso: «Il nostro padiglione, elegante e luminoso all’esterno, strutturato come una sovrapposizione di serre, fa vedere un poco di tutto, ma con forse troppa modestia: da qualche esempio d’arte antica e moderna fino alla slitta e alla motocicletta (siamo nel paese di Honda), attraverso gigantografie di Gina Lollobrigida e di Maria Callas. Forse si poteva far qualcosa di meglio e di più».

Ma quello che lascia traccia, nei reportage dei giornali e nei filmati, è soprattutto un campionario di futuribili, di oggetti che «presto saranno nelle nostre case», qualcuno azzeccatissimo, come il nuovo telefono senza fili («Non è lontano il giorno – vaticina Livio Caputo su Epoca – in cui ciascuno di noi potrà parlare con ogni altro abitante della Terra, per telefono, estraendo di tasca un piccolissimo apparecchio radio, collegato a una rete mondiale di centrali che lo metteranno in contatto con qualsiasi abbonato, dovunque si trovi»), o come quelli che dalla descrizione sembrerebbero degli ur-pixel («un cartone animato di nuovissima tecnica, proiettato su uno schermo diviso in minuscoli quadratini»); altri oggetti, la maggior parte, pronti per la discarica, come un antenato sesquipedale del Bimby, una specie di cucina-robot che una volta cotto il pranzo si trasforma in un tavolo già apparecchiato, o come il cinema emisferico Astrorama, o come la «capsula individuale per il riposo», con luci colorate e mobile-bar che emerge a comando dal pavimento (tutto è ‘a scomparsa’, nelle fantasie d’arredamento degli anni Sessanta-Settanta, tutto dovrebbe potersi vedere o non vedere premendo un tasto, come nel laboratorio dello scienziato pazzo nei film di 007). Sennò, al posto degli oggetti, si sbagliano le previsioni di mercato, perché si ha un’immaginazione a misura di fax e non di internet; questo è Tomoo Hirooka, allora direttore del più grande quotidiano giapponese, l’Asahi Shimbun: «Tra una decina d’anni il nostro giornale arriverà nelle case dei suoi abbonati via radio, stampato alla velocità di una pagina ogni cinque minuti da una stazione ricevente individuale non più grande né più cara di un televisore … Noi siamo convinti che presto in Giappone esisterà un mercato per un ‘telequotidiano’, e l’Asahi desidera essere il primo a offrirlo al pubblico».

Ma adesso è facile ridere delle visioni e dei visionari. La verità è che con la sua monorotaia, il suo ottovolante a quattro corsie, i suoi bar-ristoranti sospesi nel vuoto, i suoi primi robot semoventi e parlanti, l’Expo di Osaka è stata un’attendibile visione del futuro. E, cosa ancora più memorabile, una visione euforica, per quanto si può capire dalle cronache: non ancora guastata dalle angosce per l’inquinamento e la globalizzazione. Ed è stata anche un successo senza precedenti: 80 nazioni rappresentate, 64 milioni di visitatori, 30 milioni di dollari di profitto.

Qualcuno, nell’anno 1970, faceva resistenza contro questa lieta deriva capitalistico-consumistica? Ma certo. A sinistra, quasi in sincrono con quanto accadeva in Italia, le proteste degli studenti, che erano state violente nei due anni precedenti, perdevano vigore, ma gli estremisti entravano in clandestinità. Il 31 marzo, il gruppo terroristico chiamato Armata Rossa dirotta un aereo in volo da Tokyo a Fukuoka. Atterranno prima a Seul, dove rilasciano gli ostaggi, poi a Pyongyang, da dove vorrebbero proseguire per L’Avana. Ma gli va male. «Il nostro piano – ha spiegato il fondatore dell’Armata Rossa Takaya Shiomi a Jonathan Watts del Guardian – era sempre stato quello di andare a Cuba, ma questo urtò l’orgoglio nordcoreano. Quando i dirottatori arrivarono a Pyongyang, dissero che volevano restare. Ma era una bugia. Non avevano scelta». Anziché andare a Cuba, resteranno in Corea del Nord, non proprio felicemente, per più di trent’anni; ma dirottamenti e attentati rivendicati dall’Armata Rossa proseguiranno, in tutto il mondo, nei due decenni successivi. A destra, un Giappone mercantile e materialista, colonizzato dagli americani, non poteva piacere ai nostalgici del grande Giappone imperiale prebellico. Il 25 novembre del 1970, un paio di mesi dopo la chiusura della Expo, il più celebre tra quei nostalgici, Yukio Mishima, si uccide in pubblico facendo seppuku.

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