Il Giornale dell’Arte n. 345, settembre 2014
A Londra e Parigi gli studiosi possono riprodurre i documenti con mezzi propri, in Italia ancora no. Il danno per la libera ricerca è gravissimo.
La nuova norma introdotta dal decreto ArtBonus, che prevede la liberalizzazione delle riproduzioni nei musei, sarà pure una novità interessante per le migliaia di turisti che potranno ora sbizzarrirsi con le foto ricordo, ma per la realtà della ricerca rappresenta purtroppo una delle tante occasioni perse che oggi faremmo volentieri a meno di collezionare. Ce ne accorgiamo subito se confrontiamo il testo definitivo della legge con quello, davvero rivoluzionario, del decreto nella sua formulazione originaria che liberalizzava la riproduzione per finalità di studio dell’intero universo dei beni culturali, compreso dunque quel materiale documentario conservato negli archivi e nelle biblioteche, che invece un emendamento della Camera dei Deputati ha deciso di escludere, stroncando l’iniziale entusiasmo dei ricercatori.
Il decreto ArtBonus, entrato in vigore il primo giugno, nel rendere libere e gratuite le riproduzioni tramite mezzo proprio aveva garantito un notevole risparmio, in termini di tempo e denaro, a tutti quei ricercatori e professionisti dei beni culturali che, nonostante le difficoltà economiche e le incertezze lavorative ancora svolgono attività di ricerca e valorizzazione di beni culturali. Si poneva fine a un vero e proprio commercio delle riproduzioni sulle spalle dei ricercatori: prima dell’entrata in vigore del decreto alcuni istituti consentivano l’uso della propria fotocamera dietro pagamento di un canone (che poteva giungere sino ai 2 euro a scatto), altri negavano invece tassativamente il ricorso al mezzo proprio per garantire il massimo del profitto alle ditte private cui era stato concesso l’appalto del servizio di riproduzione in esclusiva, secondo un regime di concessione introdotto dalla legge Ronchey nel 1993.
Il sogno è stato, purtroppo, di assai breve durata: il 9 luglio, a poco più di un mese dall’entrata in vigore della liberalizzazione, nell’iter di conversione del decreto in legge, la Camera dei Deputati ha approvato un emendamento restrittivo che esclude i «beni archivistici e bibliografici» dal novero dei beni culturali liberamente riproducibili. La legge ora approvata in Senato ha frustrato le speranze di tutti quegli studiosi che a gran voce ma invano avevano richiesto di ripristinare il testo originario. Con un passo in avanti per i turisti (le foto nei musei) e due indietro per i ricercatori che frequentano archivi e biblioteche, come se nulla fosse, si è così ritornati al regime precedente.
Prima ancora che sulle responsabilità amministrative e politiche di questo emendamento, è bene qui riflettere sulle sue deboli ragioni di fondo sul piano che fanno riferimento all’interpretazione del testo normativo e ad argomenti di tipo economico. L’emendamento è stato giustificato anzitutto con un abile cavillo giuridico: dal momento che la norma permette la libera riproduzione a condizione che non si determini un contatto fisico con il bene, è stato facile escludere manoscritti e documenti che richiedono di essere maneggiati e sfogliati per essere riprodotti, a differenza delle opere esposte nei musei. In realtà l’intento del decreto originario era ben diverso. Esso non intendeva tanto creare distinzioni tra le categorie di beni culturali, quanto piuttosto tra le tecniche di riproduzione, da un lato ammettendo le fotografie a distanza dall’altro escludendo scansioni, fotocopie o comunque quei mezzi che avrebbero comportato inevitabilmente un contatto con il bene, e dunque una sua potenziale usura.
Un discrimine perciò meramente tecnologico, già presente nell’art. 107 del Codice dei Beni culturali che vieta espressamente le tecniche di riproduzione per contatto, e che è stato ribadito da un’autorevole mozione del Consiglio superiore del Mibact del 15 luglio che conferma l’estensione della liberalizzazione a tutti i beni culturali al di là di ogni possibile distorsione interpretativa che, come in questo caso, appare null’altro che un pretesto per escludere i beni archivistici e bibliografici.
La seconda motivazione alla base dell’emendamento è invece squisitamente economica: i proventi derivanti dall’appalto alle ditte private di fotoriproduzione sarebbero l’unico cespite non pubblico per il sostentamento degli archivi. In realtà proprio per prevenire simili obiezioni il parere espresso sul decreto dalla Commissione Bilancio della Camera è stato netto: «L’ampliamento delle ipotesi di mancata corresponsione del canone (…) non determinerà effetti apprezzabili rispetto ai flussi di entrate attesi dalle amministrazioni concedenti».
A ben guardare il sistema dell’outsourcing nasce per gestire i cosiddetti servizi aggiuntivi, come bookshop o caffetterie, e dotare gli istituti di quelle competenze professionali di cui sono sprovvisti. Siffatta delega diventa però del tutto superflua, e anzi un vero ostacolo per la ricerca, se lo stesso servizio risulta invece gestibile in perfetta autonomia dagli utenti grazie al mezzo digitale che, rispetto alla tecnologia analogica, ha reso la fotografia finalmente alla portata di tutti con enormi vantaggi sia per la ricerca che per la conservazione: anche se gli scatti realizzati durante la consultazione delle fonti non saranno degni di un Cartier-Bresson, avranno almeno il pregio di permettere una semplice trascrizione dei documenti senza dover tornare sull’originale. Per non parlare dei dubbi di legittimità sollevati dal sistema delle concessioni applicato alle riproduzioni: l’art. 108 del Codice stabilisce infatti una gratuità delle riproduzioni a scopo di studio che però sinora non s’è mai riscontrata. Al massimo è previsto un rimborso spese a carico del richiedente nel caso in cui sia l’amministrazione a farsi carico della riproduzione, vale a dire l’esatto contrario di quanto accade oggi con il sistema dell’appalto a ditte private specializzate, che è divenuto un mezzo per generare nuovi introiti. Le ditte di riproduzione offrono comunque un servizio altamente qualificato per produrre, su richiesta, immagini di alta qualità ideali per le pubblicazioni più raffinate, che è giusto che si affianchi, ma senza sostituirsi, come oggi avviene, alla libera riproduzione con mezzo proprio.
Vi è il forte sospetto che dietro a simili motivazioni se ne celino altre più subdole, in particolare l’idea inconfessata che la proliferazione delle copie dei documenti, senza i limiti imposti da un tariffario che ne scoraggi la riproduzione, svilisca l’unicità dell’originale. In quest’ottica archivi e biblioteche rischiano di somigliare alle collezioni dei principi dell’evo moderno che limitavano o proibivano il disegno dei loro cimeli per imporne l’unicità. Sono tracce di una concezione proprietaria e patrimoniale dei beni culturali, che è l’esatto opposto della moderna nozione democratica di bene pubblico da cui è urgente invece oggi ripartire. La missione delle biblioteche e degli archivi è infatti sì quella di conservare, ma anche di garantire, agevolando le libere riproduzioni, la massima fruibilità dei documenti e dei loro contenuti a tutti quegli studiosi che, attraverso la ricerca, restituiscono un valore al materiale documentario, e quindi un senso alla loro stessa conservazione. È questo che indica il combinato degli artt. 9 e 33 della Costituzione. La carenza di risorse per gli archivi rimane un problema oggettivo che impone una riflessione attenta, ma la scelta di far gravare la spesa di gestione degli archivi sugli studiosi è un danno inaccettabile per chi ancora oggi si ostina a percorrere la strada impervia della ricerca storica.
Vi è stato persino chi è s’è visto costretto a modificare il proprio progetto di tesi di laurea o di dottorato per i costi insostenibili richiesti dalla riproduzione del materiale documentario. La piena libertà della ricerca non è un lusso, ma un principio costituzionale sul quale non si può scendere a compromessi. È perciò auspicabile che la politica si ravveda e rivaluti le potenzialità della libera riproduzione, già intraviste nella prima formulazione dell’ArtBonus, come volàno per la ricerca storica, e rimuova così l’emendamento allineandosi alla prassi degli archivi nazionali di Parigi e Londra, dove la libera fotografia con mezzo proprio è già da tempo realtà.