[Domenicale del Sole 24 ore, 14 luglio 2013]
Io so esattamente cosa bisogna fare per difendere la lingua italiana, o meglio (dato che l’idea di difendere una lingua mi sembra bizzarra) per fare in modo che gli italiani la parlino e la scrivano meglio. Bisogna che a scuola le materie umanistiche vengano insegnate da persone che conoscono bene la lingua italiana. Niente di più di questo. Ma anche niente di meno di questo: nel senso che non c’è scorciatoia, scappatoia, surrogato. È, si capisce, un lungo processo, pieno di mediazioni, e in questo processo i congressi dei linguisti, le sentenze del TAR e i comunicati del ministro sono, per quanto la cosa possa spiacerci, irrilevanti.
La preparazione e la selezione degli insegnanti: conta solo quello. Li stiamo preparando e selezionando bene? Sono reduce da tre sessioni d’esame del TFA e la risposta è no: stiamo mandando in cattedra, oltre a molti bravi insegnanti, un numero considerevole di persone che conoscono l’italiano poco e male. Perché? Ho anche questa risposta. Perché siamo troppo lassisti nell’ammissione alle facoltà umanistiche, troppo generosi agli esami, troppo spaventati all’idea di privare qualcuno del sacro diritto di insegnare, e soprattutto perché in tutto il processo della formazione e della selezione hanno troppa influenza – un’influenza, mi pare, per lo più nefasta – i pedagogisti. È di questa multiforme catastrofe che dovremmo parlare, non delle lezioni in inglese al Politecnico di Milano.
Ma quanto all’inglese.
Per l’orale. L’università di Malta mette a bando una cattedra di Letteratura italiana. Giro la notizia a n allievi e allievi di colleghi, ma di questi n soltanto una minima percentuale è in grado di fare (come il bando richiede) una lezione in inglese. Dato che questa capacità (fare lezione in inglese, correggere compiti scritti in inglese, parlare in inglese con gli studenti) è richiesta non solo in tutte le università anglosassoni ma in molte università asiatiche, africane e europee, mi pare opportuno (non necessario, non c’è mai niente di necessario) che persino chi si specializza in quella disciplina italianissima che è la letteratura italiana impari a parlare (e se possibile anche a scrivere) in inglese.
Per lo scritto. Qualche mese fa (Domenicale del 4 marzo) Massimo Firpo osservava giustamente che «a leggere tanti libri che escono da illustri University Press americane c’è da restare sconcertati nello sfogliare bibliografie solo in inglese, anche in studi che si occupano della storia di altri Paesi». È così. Ma il fatto è che la proliferazione della bibliografia in inglese (anche cattiva) non sembra arrestabile. Si può però tentare di migliorarla. Nelle scienze dure il dibattito è già tutto in inglese: non si scrivono articoli di matematica in turco o in italiano. Nelle scienze naturali e sociali, in italiano si pubblicano già oggi quasi solo due cose: libri divulgativi (spesso buoni) e pubblicazioni a scopo concorsuale (di solito non buone). Anche nelle discipline come la storia, la letteratura, la storia dell’arte, il dibattito extra-accademico è per lo più in inglese, perché corre su riviste anglo-americane. Quanto ai saggi accademici, è chiaro che potranno continuare ad essere scritti in italiano (e in francese, arabo…); ma è altrettanto chiaro che, in futuro, anche a uno studioso italiano di discipline umanistiche converrà saper scrivere decentemente in inglese. Un tale studioso potrà, nei suoi lavori scritti in inglese, citare anche i grandi saggi italiani che i suoi colleghi anglo-americani mostrano di non conoscere: e sarà un servizio reso alla scienza. Credo che dovremmo preparare i nostri studenti anche a questo compito.
Quanto alle altre lingue, questo è il paese beato in cui, sui giornali e in TV, la Cina viene spiegata da inviati che non sanno il cinese, e il Maghreb da inviati che non sanno l’arabo. Ma dato che è probabile che nel mondo di domani (2030, diciamo) conteranno soprattutto, accanto all’inglese, il cinese, l’hindi e l’arabo, forse è soprattutto su queste ‘terze lingue’ – e meno su spagnolo francese e tedesco – che la scuola e l’università italiana dovrebbero orientarsi. Come dite? Sì, dispiace anche a me.