Cultura e società

Accesso aperto anche per il materiale fotografico!

Perché non permettere agli utenti di biblioteche e archivi di fotografare e condividere i materiali di studio?

L’avvento della fotografia digitale sembra essere assente nel dibattito degli studiosi di discipline storiche, probabilmente in ragione di una presunta mancanza di innovazione dal punto di vista epistemologico. Sul piano pratico la fotografia digitale ha però messo a disposizione degli studiosi la possibilità di riprodurre con notevoli semplificazioni nelle tecniche di ripresa – e soprattutto a costo praticamente nullo – tutte quelle testimonianze del passato, siano esse scritte, grafiche o materiali, sulle quali si basa la loro ricerca.

Ci troviamo di fronte, da almeno un quindicennio a questa parte, a una tecnica che da un lato amplifica, facilita e velocizza le procedure di registrazione, dall’altro offre la possibilità di tornare in continuazione a riconsiderare le letture e le interpretazioni delle stesse fonti, con ulteriore riduzione dei tempi di lavoro. Ma è soprattutto nella possibilità di condividere il materiale, sia nella fase di studio come in quella di edizione, che si possono aprire rilevanti prospettive per la ricerca, anche in ragione di un contenimento dei costi che permetterebbe di far meglio fronte ai tagli dei finanziamenti alla ricerca e alla riduzione dei servizi da parte degli enti di conservazione.

Il rapporto tra archivi, musei, biblioteche e procedure di digitalizzazione – e ancor più diffusione online – delle fonti sembra invece avviarsi verso una pericolosa schizofrenia: da un lato sono stati realizzati e si stanno implementando da parte del Ministero dei beni culturali e di altre amministrazioni significativi e rilevanti progetti; dall’altro le possibilità di riproduzione digitale da parte degli utenti vengono invece compresse, avversate, ostacolate – talvolta persino escluse – oltre che caricate di oneri economici o burocratici sulla base di circolari ministeriali e regolamenti interni degli stessi istituti di conservazione.

Questo processo, iniziato soprattutto con l’introduzione da parte della legge Ronchey di un modello di difesa di diritti economici legati allo sfruttamento delle immagini di beni culturali, ha avuto una forte accelerazione negli ultimi anni, cosicché i ricercatori a livello pratico si sono trovati di fronte via via a limitazioni nell’uso delle strumentazioni o nel numero di scatti effettuabili fino alla proibizione di qualsiasi ripresa fotografica, talora in base a precise clausole di esclusività presenti nei capitolati di appalto di affidamento in outsourcing di questi servizi.

Si è infine affermata, in base a una circolare ministeriale relativa agli archivi, velocemente ripresa come modello in altre sedi, l’imposizione di tariffe anche quando sia lo stesso studioso a scattare le foto: tutto questo mentre il quadro normativo complessivamente delineato dal Codice dei beni culturali e del paesaggio (D.Lgs. 42/2004), in questo erede di un’antica tradizione, prevederebbe esplicitamente la gratuità delle riproduzioni richieste dagli utenti per finalità culturali ad esclusione del solo ed eventuale rimborso delle spese sostenute dall’amministrazione.

Può così capitare che lo studioso che debba analizzare qualche manipolo di pergamene, una serie di mappe, un registro archivistico o un manoscritto di poche o molte carte e che troverebbe assai vantaggioso – ma il vantaggio è pure, non secondariamente, per lo stesso documento, che verrebbe manipolato con minore frequenza – poterli riprodurre e studiare con tutta calma, si veda porre limiti alle pagine o ai pezzi che può fotografare con propri mezzi, in ogni caso pagando una tariffa per “ciascuna unità”. Ma gli può anche capitare che questa possibilità venga totalmente esclusa perché l’ente di conservazione ha stipulato un contratto di esclusiva con un fotografo, che, giustamente, da parte sua, applica le tariffe professionali concordate.

Si può facilmente comprendere come questa situazione pesi soprattutto su coloro che non sono incardinati in un ente di ricerca o sono comunque privi di risorse economiche, a partire dai laureandi e dottorandi che si vedono nell’impossibilità di pagare anche diverse centinaia di euro per poter analizzare e studiare le fonti della loro ricerca – collocate magari in sedi distanti centinaia di chilometri – attraverso delle semplici foto digitali che potrebbero realizzare autonomamente in poche ore di lavoro.

Ci si rende dunque facilmente conto che se non vogliamo innescare un circolo vizioso di decrescita della fruizione del patrimonio culturale bisogna che simili logiche economicistiche vengano contrastate e superate. Il punto di partenza potrebbe essere quello di considerare i beni culturali come “beni comuni” anche nei diritti connessi, dunque anche nella loro riproduzione, qualora non vi sia scopo di lucro. Da questo potrebbe discendere un’esplicita indicazione normativa circa la libera riproducibilità e soprattutto la diffusione di immagini di beni culturali senza alcun onere, qualora questo rientri in un progetto di ricerca scientifica o comunque in attività non lucrative, fatte salve motivate esigenze di tutela e conservazione, oltreché di eventuali diritti d’autore.

Regolamenti tecnici potrebbero semmai specificare le procedure per limitare utilizzi commerciali non autorizzati, come l’impiego di programmi per la visualizzazione in streaming delle immagini nel caso di edizioni on line. Questo passaggio potrebbe essere integrato con l’imposizione di licenze Creative commons alle riproduzioni di beni culturali senza scopo di lucro (di attribuzione, per riconoscere la paternità intellettuale del progetto scientifico in cui si colloca la riproduzione fotografica; non commerciale e di uguale condivisione per le opere derivate, per favorire la diffusione in progetti di ricerca senza fini di lucro).

Tali disposizioni dovrebbero valere sicuramente per i beni culturali pubblici, ma anche ‑ in ragione di un superiore interesse collettivo ‑ per quelli posseduti, detenuti o depositati presso soggetti di qualsiasi altra natura, analogamente a quanto disposto in materia di consultabilità degli archivi privati di notevole interesse storico dalla normativa archivistica già dal 1963.

Per ragioni di semplificazione burocratica – con tutti i risparmi che comporta ogni singolo passo fatto in questa direzione – andrebbero anche riconsiderati la procedura di concessione per la diffusione delle immagini nelle pubblicazioni e l’obbligo di deposito degli originali presso il soggetto conservatore (perlomeno per quanto previsto dalle circolari, dal momento che il codice dei Beni culturali prevede questo solo per le raccolte a fini di catalogo), riformulandoli come un dovere di comunicazione preventiva del progetto scientifico e un impegno al deposito delle copie realizzate o preferibilmente la garanzia di accesso alle versioni online.

Andrebbe semmai favorita dai soggetti preposti alla tutela di beni culturali ogni possibilità di diffusione di modelli che prevedano la promozione dalla base dei ricercatori di iniziative di condivisione. Se un’eccessiva liberalizzazione può comportare il moltiplicarsi di progetti ed esperienze improvvisate e di livello scientifico discutibile, il coordinamento di simili iniziative potrebbe essere intesa come nuovo compito dei soggetti conservatori secondo il principio di sussidiarietà recentemente inserito nella nostra Costituzione e già presente nello stesso Codice dei beni culturali, che prevede il coinvolgimento di associazioni culturali nella valorizzazione e promozione del patrimonio.

Si tratta di un insieme di proposte, d’altronde, che rientrerebbero pienamente nel quadro di promozione dell’accesso aperto alla ricerca scientifica perseguito da direttive europee accolte a livello nazionale. Una prassi più liberale e ispirata a principi di gratuità del servizio pubblico essenziale potrebbe essere, infine, un inaspettato volano di sviluppo culturale, trasformando la tragica contrazione delle risorse a disposizione della ricerca scientifica in stimolo alla ricerca di nuovi modelli di condivisione aperta.

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