[Domenicale del Sole 24 ore, 16 giugno 2013]
Delle varianti d’autore, del loro interesse per la critica, Edmund Wilson pensava questo: «Io non leggo quasi mai varianti, e credo che la pubblicazione e il confronto tra le varie stesure dell’opera di uno scrittore sia per lo più perfettamente futile. I resti, i trucioli della scrittura stanno quasi sempre bene nell’immondizia. Se li lasci in giro, finiscono per essere pubblicati o commentati nelle tesi degli accademici, che invece dovrebbero occuparsi di cose più serie». Wilson scriveva queste cose in una lettera del 1943. In una paginetta scritta appena quattro anni dopo, Benedetto Croce mostrava di pensarla più o meno allo stesso modo: «Confronti e disquisizioni sulla prima e l’ultima stesura [sono il] pascolo di tutti i professori ed accademici che non sanno far né critica né storia […]. Io non vieto niente, né la soddisfazione della curiosità, né l’intrattenersi delle inezie quando pur premono cose maggiori; ma sgonfio l’una e le altre quando pretendono di essere critica affinata o integrazione della critica seria».
Non si può davvero dire che alle scomuniche di Wilson e di Croce si sia prestato molto ascolto.
Da un lato, le edizioni degli scrittori, anche degli scrittori moderni e contemporanei, hanno dato sempre più spazio alla storia elaborativa di poesie e romanzi, agli «scartafacci» appunto. Ciò ha fatto emergere molte cose interessanti, ha dato molte occasioni per imparare, ma ha anche comportato qualche eccesso di zelo, che ha messo capo alla pubblicazione di edizioni pletoriche, feticistiche (le foto dei documenti originali, la riproduzione ‘mimetica’ degli autografi, apparati critici tre volte più lunghi dei testi) e oltremodo costose. Dall’altro lato, le prime edizioni critiche comprendenti varianti d’autore (Ariosto, Petrarca, Leopardi) hanno contribuito a far nascere un nuovo o quasi nuovo metodo critico, la cosiddetta critica delle varianti, un metodo frequentato soprattutto da studiosi italiani e, tra questi, splendidamente, soprattutto da Gianfranco Contini.
Editing Novecento di Paola Italia è un esempio eccellente di questa applicazione o metodo. Ed è anche una seria obiezione, un’obiezione concreta, fatta di dati e osservazioni interessanti, a chi in astratto fosse tentato di dare almeno un po’ di ragione a Wilson e a Croce. Perché il fatto è che la tradizione della letteratura moderna e contemporanea vive di varianti e di scartafacci, e per gestire questi materiali (il cestino dell’immondizia, in parecchi casi, non è un’opzione sensata, perché si butterebbero nell’immondizia libri belli e importanti) serve un apprendistato, una sensibilità, un corpus di regole e procedure.
Dopo un primo solido capitolo introduttivo sui rapporti tra autore, curatore e lettore nell’età della stampa, Paola Italia discute, nel secondo, della situazione testuale di un gran numero di autori e opere novecentesche, seguendo il filo del già eccellente saggio scritto da Claudio Vela per la Letteratura Italiana Salerno. In un libro precedente, scritto insieme a Giulia Raboni, Paola Italia aveva osservato: «Quando gli studi di filologia d’autore saranno più numerosi e la disciplina più codificata, si potrà forse scrivere una storia della letteratura italiana sulla base dei vari sistemi correttori degli autori e dei loro rapporti con i propri manoscritti» (Che cos’è la filologia d’autore). Queste pagine vanno in quella direzione. Ma la rassegna storica serve poi alla studiosa soprattutto per illustrare un metodo. Si è parlato spesso, in passato, di una ars edendi per la filologia d’autore: a me pare che non sia un obiettivo né raggiungibile né desiderabile, tanto la disciplina è fluida, plasmabile a seconda delle situazioni testuali, ma insomma il capitolo è quanto di più prossimo a un’ars si possa desiderare, e non potrà mancare nelle bibliografie future.
Nel terzo capitolo Paola Italia si concentra su Gadda e Montale per motivi diversi. Di Montale esiste, oltre a un’edizione critica sorvegliata dall’autore, un Diario postumo nel quale potrebbero essere finite poesie scritte da altri, o ritoccate da altri o, diciamo, assemblate da altri. La questione è complicata e anche, bisogna dire, penosissima. C’è il Poeta anziano che forse vuole fare uno scherzo ai filologi, ci sono i filologi che passano anni a soppesare gli indizi, a confrontare le grafie: e le eredità, gli avvocati, le tesi di laurea degli studenti, poverini… Davvero il lettore è tentato dall’ipotesi «immondizia». Però è un fatto che, se si vuole studiare Montale, è giusto (non necessario) che qualcuno si occupi di queste questioni. Ma certo: si compiange quel qualcuno. Paola Italia più che altro usa questo case study per fare delle considerazioni di buon senso, sempre benvenute. Benvenuta è anche la cautela; solo un po’ inquietante (almeno per me) l’appello alla Scienza: «il metodo di un’expertise attribuzionistica non è scientifico e non lo sarà finché non si potranno introdurre sistemi quantitativi e qualitativi di analisi dell’autografo (spettrografie, analisi all’infrarosso, trattamento delle foto digitali con programmi di gestione delle immagini) che permettano di datare le serie scrittorie e correttorie». A questo traguardo «i progressi tecnologici fanno sperare che manchi davvero poco». Non saprei spiegare bene perché, ma per quel giorno – non così prossimo, mi auguro – spero di essere morto.
Quanto a Gadda, tutto è molto più interessante, perché senza il lavoro dei filologi molti libri di Gadda non li potremmo neanche leggere. Le storie elaborative della Cognizione, del Pasticciaccio, dell’Adalgisa formano un labirinto infinito; ma basti dire qui per esempio che – come hanno appurato la stessa Paola Italia e Giorgio Pinotti – Eros e Priapo inizia così nella prima versione manoscritta: «Li associati a delinquere cui per più d’un ventennio è venuto fatto di poter taglieggiare a lor posta e coprir d’onte e stuprare la Italia…»; e così nella stampa: «Li associati cui per più d’un ventennio…». E il resto, per i campioni che si leggono, è altrettanto interessante. Giusto dunque che queste carte vengano pubblicate, lette, studiate; ma anche di fronte a questo bel caso sarebbe bene mantenere la calma: sono solo varianti (invece: «Il progetto magnanimo di una rappresentazione esaustiva della complessità del reale e la sua esecuzione…» [Isella]; «Il 1965 segna quindi l’inizio della somministrazione del sedativo artificiale, la benzodiazepina stilistica, a una prosa che, fortificata dall’autoanalisi della Cognizione…» [Italia]).
Tutto bene dunque? Non tutto. Ma le mie obiezioni non riguardano né il libro di Paola Italia, che è ottimo, né la disciplina in sé bensì (1) il modo in cui se ne parla e (2) le forme che la disciplina potrebbe prendere in futuro.
Quanto a (1), la filologia d’autore è una pratica che, come ogni pratica, ha le sue regole e i suoi accorgimenti dettati dall’esperienza e dal buon senso. Non altro. Non mi sembra che si senta il bisogno di una specie di Teoria Unificata quale quella che prospetta l’autrice: «[Nella prassi editoriale vi sono costanti] rispetto alle quali si può sperare di giungere un giorno a una regolamentazione da parte della comunità scientifica». E non mi sembra che questa pratica – che i lavori di Paola Italia e di altri dimostrano perfettamente legittima – abbia bisogno di appoggiarsi alle speculazioni sull’essenza dell’arte o della letteratura. Devo dire anzi che da una studiosa come Paola Italia mi aspetterei non un avallo ma un sano distacco nei confronti di queste reboanti ma – alla verifica – misere teorie, sia quelle del passato (morte dell’autore in salsa francese, semiotica filologica eccetera) sia quelle del presente (la teoria dello script act di Shillingsburg dev’essere l’ultima nata, ma chissà quali altre delizie ci riserva l’accoppiata humanities+web). «Ci è toccato vivere in un secolo in cui l’ultimo imbrattatele aveva una sua Weltanschauung da illustrarci. Figurarsi gli imbrattacarte». Memore di questo bell’aforisma reazionario di Dionisotti, ho sempre pensato alla filologia (anche) come a un rifugio dagli sproloqui dei professori di filosofia: mi piacerebbe che continuasse ad esserlo.
Quanto a (2), ho già accennato al fatto che la filologia d’autore ha prodotto, tra tanti studi utili, anche una certa quantità di ‘ricerca in campo umanistico’ che sarebbe stato meglio non fare, se non altro perché ogni ricerca costa tempo e denaro, entrambi scarsi ed entrambi perciò da spendere con la massima accortezza, specie quando si è giovani. Ora mi pare che un nuovo idolum si profili minaccioso all’orizzonte, quello – così intonato ai tempi – della condivisione, cioè delle edizioni di autori moderni fatte in modalità Wiki: «[essa] si configura quindi come un tavolo di lavoro, una stanza di incontri, un percorso di ricerca. Un modo di lavorare nuovo, su scala globale, dalle straordinarie potenzialità e versatilità, che cambia il lavoro del filologo e del ricercatore, facendolo passare da una dimensione individuale (quando non solipsistica) alla condivisione del sapere con un’intera comunità scientifica». Sì, potrebbe essere questo il futuro. Prima che arrivi, volevo solo dire che io ho scelto di fare questo lavoro perché mi piace starmene da solo. Anyone else?