Università

Ci vuole davvero un codice etico per le università?

[Corriere di Bologna, 22 giugno 2013]

Proprio vero che le disgrazie non vengono mai sole: non bastasse il caldo, nel mio ateneo alpino si riparla di codice etico. La riforma Gelmini dell’università –quella promossa da una bresciana che aveva passato l’esame da avvocato a Reggio Calabria – ha prescritto che ogni ateneo ne abbia uno. L’opinione pubblica ha applaudito: è ormai convinta, e non sempre a torto, che il mondo universitario sia popolato soltanto da (a) imbazzati, (b) masnadieri e (c) incapaci. Gli atenei si sono progressivamente adattati allo spirito dei tempi, e si sono dotati di qualche pagina che esplicita valori risaputi, enuncia solennemente pratiche consuete e ci estenua con ulteriori norme, regolette e commissioni di esperti.

Alcuni atenei se la sono cavata piuttosto bene, adattandosi alla temperie dei tempi con senso della misura. Per una volta, alziamo i calici in onore dell’ateneo bolognese, che ha prontamente steso un codice etico relativamente conciso (5 pagine), ragionevole e ben scritto. Quando ho letto il testo bolognese, ho avuto persino la tentazione di destinare il cinque per mille alla mia alma mater. O di proporre al mio rettore di pagare qualcosa di copyright, cambiare il nome dell’ateneo e risolvere il problema una volta per tutte in modo indolore.

Ma il mio ateneo ha un congenito complesso da primo della classe. E quindi viene costituita una commissione apposita, che consulta decine di codici etici italiani ed esteri, che fa una prima bozza, che sollecita discussioni, che confluiscono in nuove bozze, che alla fine portano a un testo di ben 13 pagine accompagnato da una relazione esplicativa altrettanto lunga. Difficile ritrovarvi il senso della misura e la saggezza che avevo apprezzato in quello di Bologna. Quando riceviamo una mail che ci convoca ad una riunione dove è possibile parlare con gli autori della proposta, sfido sfidare il caldo per parteciparvi. Scelta piuttosto elitaria, i partecipanti al dibattito sono più o meno quanto i membri della commissione presenti. Avanzo le mie critiche, ricevo delle risposte, altri propongono altre cose e discutono altri punti. Sin qui tutto normale, un bel dibattito. Ma trovo triste la serenità con la quale i membri della commissione sembrano disposti a buttare alle ortiche le caratteristiche più importanti della vita accademica – i nostri più sacri churinga tribali – pur di potersi raccontare che stanno cercando di riformare qualcosa. Dalla naturalezza con la quale danno per scontato la trasformazione degli accademici in impiegati privi di vocazione, timorosi di ogni rischio e bisognosi di continue tutele. Mi ricorda quel generale che sostenne di avere distrutto un villaggio per salvarlo. Se questi sono i primi della classe, invidio John Belushi in Animal House.

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