[Corriere Fiorentino, 17 agosto 2011]
Difendere una lingua non è un’impresa che abbia molto senso. E ne ha ancora di meno investire dei soldi nella difesa. Una lingua non è un territorio chiuso da confini, che si può presidiare con un esercito; e non è neanche un organismo su cui si può legiferare con qualche speranza di essere obbediti. Con trecento canali satellitari e il più grande flusso immigratorio della nostra storia, è molto difficile che una Suprema Autorità possa imporre a tutti i cittadini italiani di dire ‘va bene’ invece di ‘ok’ e ‘subito’ invece di ‘da subito’. Quello che una nazione civile deve fare non è difendere la sua lingua, ma studiarla con serietà e farla conoscere al maggior numero possibile di persone. Questo si fa all’asilo, a scuola, all’università. Ma in molte nazioni europee si è pensato di fondare delle accademie che, a un livello ancora più alto, coordinino e favoriscano gli studi sulla lingua nazionale.
In Italia, questo ruolo è svolto (ottimamente) dall’Accademia della Crusca, che ha sede a Firenze, alla Villa Medicea di Castello. A che serve un’istituzione come l’Accademia della Crusca? A molte cose, ma, in sintesi, soprattutto a due. La prima è promuovere gli studi scientifici sulla lingua italiana. La seconda – meno importante – è mettere le conoscenze degli studiosi al servizio di un pubblico più ampio. Il primo compito si svolge curando e aggiornando la biblioteca dell’Accademia, pubblicando libri, riviste, promuovendo seminari e, soprattutto, dando borse di studio o posti di lavoro a persone che lavorano professionalmente sulla lingua (e cioè pubblicano saggi, editano testi, ecc.). Il secondo compito si svolge per esempio organizzando corsi di aggiornamento per gli insegnanti, pubblicando dizionari (o, poniamo, una grammatica normativa della nostra lingua), discutendo i dubbi e le curiosità linguistiche delle persone interessate (la Crusca lo fa in una bella rivista apposita, La Crusca per voi, abbonamento annuo € 15, e nel suo sito). E s’intende che le due cose vanno spesso insieme: lo splendido vocabolario dell’italiano antico a cui da vari anni un gruppo di studiosi del CNR sta lavorando in collaborazione con la Crusca è sia un’impresa di alto livello scientifico sia uno strumento a disposizione di tutti i cittadini interessati (consultabile al sito www.vocabolario.org).
Perché dico che la seconda funzione, quella ‘pubblica’, è meno importante? Perché mentre la prima componente scientifica può stare anche senza quella divulgativa, il contrario non è possibile: se non si allevano, se non si formano degli studiosi, degli specialisti della lingua (e questo, naturalmente, ha un costo, non grande ma ce l’ha), allora anche la cultura diffusa, la competenza linguistica diffusa, s’inaridisce.
Tutto questo dovrebbe essere tenuto presente mentre si discute per la millesima volta dei finanziamenti all’Accademia della Crusca (ma il discorso vale per molte altre istituzioni, anche fiorentine, in grave difficoltà: il trattamento a cui è sottoposta da anni la Biblioteca Nazionale è, per esempio, ancora più chiaramente indegno di un paese europeo e, aggiungo, di una città che si voglia chiamare civile). Se fra sei mesi saremo ancora qui a cercare qualche migliaio di euro per farla andare avanti altri sei mesi, tanto vale chiuderla. Se tra un anno non avremo i soldi per rinnovare i pochi contratti dei giovani che ci lavorano, tanto vale chiuderla. Non muore nessuno. E, nel breve periodo, ben pochi se ne accorgeranno. Ma persone che hanno a cuore il loro paese dovrebbero guardare un po’ più lontano. Semplicemente, l’Italia deve capire se può e se vuole non far sopravvivere ma far vivere un piccolo numero di istituzioni nelle quali si lavora, al più alto livello, alla conservazione e allo studio del nostro patrimonio culturale.
La mia opinione è che l’Italia – il paese dei diecimila enti assurdi, delle mille mostre mangiasoldi, dei cento musei d’arte contemporanea – possa e debba tenersi molto strette istituzioni come l’Accademia della Crusca. Perché mai? Giusta domanda. Per una ragione molto semplice che, in tutta questa confusione, tendiamo spesso a dimenticare. La ragione è che esiste, soprattutto nel campo dell’istruzione e della cultura, una catena di cause e di effetti, esistono delle mediazioni. Questo vuol dire che se non tratteremo bene le nostre scuole elementari e medie non potremo poi avere quei famosi ‘centri d’eccellenza’ con cui ci sfonda le orecchie la sciocca retorica dei media. Ma vuol dire anche che se non proteggeremo le istituzioni in cui si studiano ad alto livello la nostra cultura e la nostra civiltà, avremo sempre meno insegnanti capaci, un’informazione sempre più becera, una sfera pubblica sempre più soggetta alla propaganda e alla mistificazione. Molte delle cose che ci hanno reso, dopotutto, un paese civile – scuole, università, biblioteche, laboratori – non si vedono: ma come non si vedono le fondamenta di un palazzo. Lasciarle marcire potrebbe non essere, nel medio-lungo periodo, una scelta assennata. Ma – si obietterà – chi se ne frega del medio-lungo periodo?