[Il Sole 24 ore, 28 agosto 2011]
«Dopotutto, perché non chiuderla? L’Accademia della Crusca aveva un senso nel 1650, o nel 1950, quando a decidere come si parlava e come si scriveva erano i professori. Adesso, con trecento canali satellitari e il più alto tasso d’immigrazione della nostra storia, chi li ascolta più? Dunque dichiariamo defunta questa parvenza di Autorità e spendiamo i nostri soldi in cose più sensate e più utili». Questa posizione non è la mia posizione, ma è perfettamente legittima (e mi aspetterei anzi che una destra tecnocratica seria la facesse propria). Solo che poggia su un equivoco. Perché istituzioni come l’Accademia della Crusca non hanno il compito di proteggere la nostra lingua bensì quello di proteggere la conoscenza della nostra lingua. È diverso. Nel primo caso si danno delle regole (che verranno o non verranno ascoltate); nel secondo s’insegna a studiare e a riflettere.
Questa difesa della conoscenza deve oggi (non può: deve) avvenire in due modi: (1) lo studio scientifico della lingua e della letteratura del passato e (2) l’istruzione diffusa o, con un termine meno esatto e spesso abusato, la divulgazione. Ora, mentre lo studio scientifico può stare benissimo senza la divulgazione (cinquanta accademici con barba bianca che compilano il Vocabolario del buon uso toscano in mezzo a un popolo di milioni di persone che si esprime soltanto in dialetto: è l’Italia di ieri, il mondo di ieri), la divulgazione non può stare senza lo studio scientifico: il che significa che se non formiamo degli studiosi, degli specialisti della lingua, e se non tuteliamo i luoghi in cui si formano, anche l’istruzione diffusa, la competenza linguistica diffusa finisce per indebolirsi.
Alla Crusca si fanno entrambe le cose. Si lavora per migliorare l’istruzione diffusa, per esempio organizzando corsi per insegnanti o pubblicando l’ottimo bollettino La Crusca per voi (abbonamento annuo € 15), o rispondendo nel sito ai dubbi linguistici delle persone interessate. E si lavora scientificamente sulla lingua e sulla letteratura italiana, pubblicando libri e riviste e, soprattutto, curando la formazione (quindi in primo luogo la sopravvivenza) di giovani linguisti che editeranno testi, scriveranno saggi, compileranno dizionari. Per fare un esempio, il progetto del TLIO (Tesoro della lingua italiana delle origini), al quale la Crusca collabora, mette insieme splendidamente le due cose, scienza e divulgazione, e meriterebbe di essere conosciuto anche al di là della cerchia degli specialisti. Si tratta di una gigantesca banca-dati che comprende tutte le parole attestate in italiano (e nei dialetti dell’italiano) dall’inizio della nostra tradizione letteraria fino al 1400: non soltanto, dunque, Dante Petrarca e Boccaccio, che rappresentano una percentuale minima del totale, ma le cronache, le novelle, i poemi, i documenti pratici, le lettere, insomma tutta la sterminata produzione scritta dei primi due secoli della nostra lingua che è giunta fino a noi. In tutto, circa ventidue milioni di occorrenze. Su questi dati, i linguisti del TLIO stanno compilando un dizionario online (www.vocabolario.org) che è già oggi uno straordinario strumento per la conoscenza del nostro Medioevo, e come tale non interessa soltanto i linguisti ma anche gli storici, gli storici dell’arte e della scienza, i letterati. Vogliamo sapere che cosa vuol dire pocca? O meglio, intanto, vogliamo sapere se esiste la parola pocca? Esiste, in due lettere fiorentine del Trecento, ed è una ‘unità di misura della lana’. Vogliamo sapere quali sono i vari significati della parola lanciuola nell’italiano antico? Almeno tre: ‘piccola arma da lancio’, ‘strumento per eseguire i salassi’, ‘lo stesso che arnoglossa’ (e vedi, con un clic, la voce arnoglossa).
Difendendo istituzioni come la Crusca, o elogiando imprese come il TLIO, non bisogna mai sottrarsi all’obiezione più ovvia: e perché mai il contribuente italiano dovrebbe destinare parte delle sue tasse all’accertamento del significato delle parole pocca, lanciuola e arnoglossa? Domanda cruciale, a cui risponderei così. Per migliorare l’istruzione e la civiltà di un popolo non basta volerlo. Esiste una catena di cause e di effetti, esistono delle mediazioni. Ciò significa, da un lato, che se non tratteremo bene le nostre scuole elementari e medie non potremo poi avere quei famosi ‘centri d’eccellenza’ con cui ci sfonda le orecchie la sciocca retorica dei media. Ma ciò significa anche, dall’altro, che se non proteggeremo le istituzioni in cui si studia e si fa ricerca al più alto livello (e ad alto livello ci si occupa anche, per l’appunto, di pocche e di lanciuole) avremo insegnanti sempre meno capaci, un’opinione pubblica sempre più cieca e irrazionale, un divario culturale e scientifico sempre più marcato nel confronto con gli altri paesi. Il problema più grave (un problema relativamente nuovo: che non si poneva cioè con questa urgenza in epoche ‘più lente’) è che il lavoro di queste istituzioni, se viene fatto bene, non si vede: sia perché richiede anni, e non minuti, sia perché non è agevolmente traducibile in immagini. Ma quella che si vede, alla lunga, è l’assenza di questo sotterraneo, invisibile lavoro di civilizzazione: fra il centro di Parigi e il centro di Kinshasa ci sono inquietanti differenze, e una ragione ci deve pur essere.
(PS. Il che mi ricorda una cosa: che la Crusca ha sede nella splendida Villa Medicea di Castello, periferia di Firenze. Male. Non è più quel mondo, per fortuna: il mondo dei cinquanta accademici che si riuniscono in villa a glossare il Cavalca. La Crusca e la biblioteca della Crusca non dovrebbero starsene nascoste nella pace delle colline: dovrebbero stare in piena vista nel centro della città, come cose vive – perché quello sono).