[Il Sole 24 ore, 7 agosto 2011]
Only connect… Nient’altro che connettere. È il motto di Casa Howard di Forster, 1910: «Nient’altro che connettere la prosa con la passione, allora entrambe ne saranno esaltate e l’amore umano apparirà al suo culmine. Non vivere più in frammenti…». Ma non è questo, anche, il motto ideale, la definizione ideale dei nostri tempi? Avere gli occhi aperti di fronte all’infinita varietà dei fenomeni, dissolvere le sostanze nelle relazioni, trovare la rete che trasgredisce i confini e mette tutto in rapporto con tutto: non è questa l’Idea che sottende tutte le altre possibili idee, oggi? E non è, tra l’altro, una perfetta definizione della rivoluzione informatica? (Scrivete only connect su Google e avrete l’impressione che internet sia nata per obbedire al consiglio di Forster).
Un Jovanotti in stato di grazia lo dice molto bene in una delle sue ultime canzoni, Megamix: «È questa la vita che sognavo da bambino, un po’ di Hello Kitty e un po’ di Tarantino… Che quello che sta sopra è uguale a quello che è sotto… È questa la vita che sognavo da bambino…». Sì, era anche questa la vita che sognavamo da bambini: l’alto e il basso che si annullano, il comico e il tragico che si mescolano, un romanzo di Forster e una canzone di Jovanotti… Non che in questa miscela non ci sia anche qualcosa di inquietante. Chi insegna, per esempio, ogni tanto ha l’impressione che questo eccitante disordine produca un disordine ancora più grande nelle teste degli studenti. E c’è anche la banale circostanza che nello scenario disegnato dai nuovi media le chances dei romanzi di Forster e le chances delle canzoni di Jovanotti non sono le stesse: YouTube serve meno bene il primo del secondo. Comunque sia, è una vita interessantissima, e non la vorremmo diversa da come è, o appena un poco.
Ora, Only connect potrebbe anche essere il motto che unifica un certo numero di saggi sulla letteratura pubblicati negli ultimi decenni, saggi diversi sotto ogni altro rispetto (punto di vista, impegno, intelligenza, arco cronologico) ma eguali in questo, nel non concentrarsi su uno scrittore o su un libro bensì nel collegare libri e scrittori che, a prima vista, hanno ben poco che li colleghi. Non contano le cose, ma la capacità di stabilire relazioni tra le cose, ed è legge che tutte le cose siano in rapporto con tutte le altre. Vince chi riesce a disegnare la rete più complicata e ad annodare i fili apparentemente più lontani. Ma è spesso una vittoria della retorica, non della ragione.
Nel campo degli studi letterari, questa tendenza è stata, se non davvero inaugurata, certamente fomentata, consolidata dalle Lezioni americane di Calvino. Ma qualcosa di molto simile è accaduto e accade un po’ in tutte le discipline. Sulla propensione di certi filosofi contemporanei a trovare sotterranee (ma immaginarie) connessioni tra cose e concetti ironizzava, a ragione, un libro come Va’ pensiero di Viano; e molta ‘storia culturale’ oggi di moda si fa saltellando allegramente tra i secoli e tra i continenti non a forza di argomentazioni ma a forza di ‘suggestioni’ (questa parola da imbonitori) e di ‘non sarà un caso che’. E la storia dell’arte… Beh, la storia dell’arte è quella che produce mostre come Caravaggio Bacon: per molti aspetti, l’avanguardia del Peggio. È la crisi dello storicismo, certamente. Ma, se i frutti della crisi sono questi, forse è il caso di rimpiangerlo.
Le brave ragazze non leggono romanzi, di Francesca Serra, è un saggio intelligente e pieno di dottrina, ma mi pare che incarni precisamente la tendenza che ho appena descritto. Si tratta, scrive l’autrice, di «una scorrazzata a briglia sciolta» attraverso varie opere della letteratura moderna, opere che in vario modo toccano o sfiorano il tema della ‘donna che legge’. Il frutto di questo scorrazzare è contenuto in cinque capitoli dal titolo lapidario: Voglia, Finzione, Masturbazione, Consumo, Morte. In ciascuno di questi capitoli, l’autrice cita, commenta e collega tra loro un certo numero di opere letterarie. Devo dire che la ratio che porta a riunire queste opere mi è spesso oscura, come oscure restano spesso, almeno per me, le deduzioni che l’autrice intende trarre dal confronto. A volte mi pare di capire, ma allora rimango stupito dall’esiguità, se non dalla pretestuosità del nesso. Nel primo capitolo (Voglia), per esempio, si parla delle macchie di sangue che Lady Macbeth immagina di avere sulle mani, delle macchie lunari fraintese da Dante nella Commedia, delle macchie lunari viste (e comprese) da Galileo, delle macchie sulla pelle che si chiamano appunto ‘voglie’ («Io ne ho una sulla coscia sinistra, per esempio, grande come una moneta da due euro»). Ora, il legame fra testi tanto diversi è puramente nominale: parlano tutti di macchie. Ma al di là di questo, che cosa c’entrano l’uno con l’altro? E ‘che c’entra?’ è, di fatto, la domanda che vien fatto di porsi di fronte a molte pagine di questo libro: che c’entrano, che rapporto c’è tra la lupa simbolo di avarizia dell’Inferno e la donna chiamata Lupa della novella di Verga, a parte il fatto di essere, entrambe, lupe? E che rapporto ci potrà mai essere tra la marmellata che Alice non mangia in Alice nel paese delle meraviglie e il cane poliziotto Johnny Bassotto di un jingle degli anni Settanta? – «“Chi ha rubato la marmellata? Chi sarà?”: iniziava così la canzone, dimostrando che, come nel Medioevo, il peccato di gola sta in cima a tutto» (p. 101: ma in realtà no, nel Medioevo il peccato di gola non sta affatto «in cima a tutto»).
A questi accostamenti che evocano senza spiegare fa riscontro un linguaggio ammiccante, vago, frettoloso, che si applica però a concetti molto complessi, per comprendere i quali servirebbero non accostamenti peregrini ma spiegazioni chiare e distese. «Di qui ad ammettere che tutta l’arte in fondo non è altro che una coda di pavone, basta il sogno della madre di Dante. Una superflua ma grandiosa coda di pavone, che garantisce l’immortalità maschile attraverso la seduzione. Così la Lettrice viene sedotta dal libro, che non per niente nella tradizione letteraria è stato spesso paragonato a un uccello» (p. 128). «Shopping e masturbazione erano nati insieme, almeno due secoli prima; alle soglie del Novecento si ritrovano uniti all’insegna dell’induzione sempre più parossistica al piacere del consumo» (pp. 115-16). «Le lettrici non esistevano prima del Settecento. Non esistevano in questa forma, in questa quantità, con tale ossessiva frequenza. Ovviamente le lettrici esistevano ben prima del Settecento, ma erano tutt’altra cosa, come lo era il romanzo, che pure era un genere che esisteva da secoli» (p. 62). Tutta l’arte è una coda di pavone. Shopping e masturbazione sono nati insieme. Le lettrici non esistevano prima del Settecento. Il romanzo è un genere che esiste da molto secoli. Che cosa sono, queste? Certo, non sono espressioni da prendere alla lettera (perché l’arte non è una coda di pavone; perché shopping e masturbazione non sono nati insieme; perché le lettrici esistevano prima del Settecento; perché il romanzo non esiste da molti secoli). Sono dunque metafore? Ma che cosa significano? E nel momento in cui si affrontano cose e concetti così complicati, non bisognerebbe appunto chiarirli, invece che avvolgerli di fumo?
Non è facile parlare di letteratura, non è facile farsi ascoltare in questa età dell’abbondanza. Nessuno ha veramente voglia di leggere l’ennesima monografia su Boccaccio o su Montale, quando tanto Boccaccio e tanto Montale restano da leggere o da rileggere. D’altra parte, una volta venuta meno la confortevole garanzia dei Metodi, è comprensibile che chi si occupa di letteratura senta il bisogno di dire cose nuove e ‘forti’ in un modo nuovo. Ma questa giusta esigenza non dovrebbe far rinunciare alla fedeltà nei confronti dei testi, alla chiarezza nell’argomentazione e direi, anche, a un certo pudore (l’io del critico non deve per forza restare nascosto, ma neppure essere continuamente sulla scena). E ben venga un linguaggio svelto, colloquiale, lontano dalla retorica accademica. Ma la strada non può essere quella indicata da questa prosa immaginifica: «[La coda del pavone] non ha altra utilità se non quella di sedurre il suo occhio e impressionarla. Dammi la mano. Chiudi gli occhi e affidati a me: non sono cattivo, vedrai che l’amore ti farà bella. E la morte anche» (p. 128). Oppure: «Dentro la tomba vuota di Orazio, dove ancora svolazza qualche piuma perduta durante la metamorfosi del poeta in uccello, ci s’accomoda Sarah Bernhardt e siamo a posto. La bellezza della donna morta lascia tutti a bocca aperta. Mentre i pavoni saltellano lontano, leggeri» (p. 127).
Come dicevo, Le brave ragazze non leggono romanzi esprime bene una tendenza della critica letteraria contemporanea. Ho citato le Lezioni americane di Calvino, un autore al quale la Serra ha dedicato parte dei suoi studi. I cinque capitoli dai titoli vaghi e lapidari; le scorribande tra epoche e generi diversi, unificati soltanto da nomi; l’accostamento fra testi che non solo appaiono ma sono, anche ad un esame più approfondito, irrimediabilmente distanti tra loro; l’approssimazione nell’uso dei concetti; la coazione a citare (citazioni che nel libro della Serra non stanno soltanto in corpo di testo ma anche, sempre, in esergo ai singoli paragrafi). Di fatto, questa è una descrizione sia di Le brave ragazze non leggono romanzi sia delle Lezioni americane. Sono anche libri pieni di idee intelligenti presentate in maniera brillante. Ma l’approccio complessivo, il modello di discorso, non mi pare veramente fecondo.