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Su Philip Larkin, “The Complete Poems”

Domenicale del Sole 24 ore16 Settembre 2012


Nella conferenza-saggio che s’intitola Questa è l’acqua, David Foster Wallace spiega che la lettura e l’esperienza dovrebbero aiutarci ad essere meno autocentrati, cioè a rinunciare all’idea di essere, ciascuno di noi, «il centro assoluto dell’universo, la persona più reale, più vivida e importante che esista». Buona parte delle poesie di Philip Larkin dice esattamente il contrario. Noi, sostiene Larkin, non siamo apparentemente delle monadi: noi siamo delle monadi. E l’errore capitale non è pensare che esistiamo soltanto noi; l’errore capitale è pensare che qualcosa della nostra vita s’irradi al di fuori di noi, e possa durare e fecondare altre vite, essere condiviso:

E dopo che hai attraversato la tua mente intera, ciò
che vedi è più chiaro di una bolla di carico.
Nient’altro tu devi mai pensare
che esista.

E qual è il vantaggio? Solo che, col tempo,
noi intravediamo l’impronta cieca
che tutti i nostri atti contengono, la riportiamo a casa.
Ma confessare,

in quella verde sera in cui comincia la nostra morte,
cosa essa era, non è davvero abbastanza,
perché si è impressa su un uomo solo, una sola volta,
e quell’uomo muore.

In questi pochi versi non c’è ‘tutto Larkin’, ma ce n’è già parecchio. La solitudine, la non condivisione, la morte: sono i suoi temi caratteristici. Martin Amis ha scritto che il Larkin funereo di versi come questi è soltanto una parte dell’intero: e ha citato come controesempio il breve inno alla primavera e alla rinascita che è Gli alberi («L’anno trascorso è morto, sembrano dire: / ricominciamo, ricominciamo, ricominciamo»). Ma in realtà non avrebbe potuto citare molto altro: Gli alberi è una rara eccezione euforica in una distesa grigio-nera, e del resto è un’eccezione apparente, dato che anche la ‘verdità’ dei boccioli neonati sembra contenere un dolore: «Their greenness is a kind of grief». «La deprivazione – ha detto una volta Larkin in un’intervista – è per me ciò che i narcisi erano per Wordsworth».

Nato a Coventry nel 1922, studi umanistici a Oxford, Larkin ha passato gran parte della sua vita nella cittadina di Hull, nel nord dell’Inghilterra, lavorando come bibliotecario dell’università, e qui è morto nel 1985. Il carattere dell’uomo è illustrato da battute come quella sulla deprivazione che ho appena citato, battute che i devoti di Larkin citano a memoria, deliziati dal candore del misantropo. Bambini: «Creature orrende, i bambini, non trova? Egoisti, rumorosi, piccoli bruti crudeli». Politica: «Oh, io adoro la signora Thatcher! Riconoscere che, se non hai i soldi per permetterti una cosa, non puoi averla – è un concetto scomparso da molti anni. Sono felice di vederlo tornare a galla». Viaggiare: «E i viaggi? Non vorrebbe visitare, diciamo, la Cina? – Non mi spiacerebbe, purché potessi tornare indietro lo stesso giorno». Doveva essere un uomo molto simpatico.

Le sue poesie erano state già raccolte in edizione completa, ma d’ora in poi farà testo questa nuova edizione curata da Archie Burnett (The Complete Poems, Faber & Faber 2012). Si tratta di un minaccioso volume di più di 700 pagine. Le prime cento contengono le quattro raccolte che l’autore ha pubblicato in vita, tra il 1945 e il 1974; a queste si aggiungono le poesie pubblicate su rivista e non inserite in raccolte (qui alcuni gioielli come Aubade o come Continuing to Live, che ho citato in apertura); e a queste seguono ben 200 pagine di poesie che Larkin non pubblicò mai. La seconda parte del volume è dedicata ai dati filologici (tempi di composizione, varianti) e a un commento che mette a frutto in particolar modo le lettere di Larkin e dei suoi corrispondenti. Nessun dubbio sull’utilità dei commenti, anche se Burnett concede troppo spazio a pseudo-scoperte intertestuali, sue o di altri studiosi, che il più delle volte sono, se non dimostrabilmente false, irrilevanti (Larkin considerava l’arte allusiva, in poesia, «spiacevole come i discorsi di quei letterati mediocri che vogliono farti sapere che conoscono la gente giusta»: dal che si può dedurre cosa avrebbe pensato di questa caccia all’allusione, da parte dei critici, all’interno dei suoi stessi testi). Molti dubbi, invece, sull’opportunità di raccogliere in questi opera omnia anche testi che si farebbe molto fatica a definire ‘opere’, come i versicoli scarabocchiati all’interno delle lettere mandate agli amici. È un problema che si pone spesso quando ci si occupa di autori contemporanei, il problema non della scarsità dei materiali ma, al contrario, della loro sovrabbondanza e dispersione. Dove fermarsi nel lavoro di scavo e di recupero? Non esiste una risposta valida in assoluto, ma in questo caso si è forse passata la misura.

Larkin pensava che la poesia dovesse parlare delle cose di ogni giorno: «la vita degli uomini, il tempo e il passare del tempo, l’amore e il venir meno dell’amore»; e pensava che una buona poesia fosse quella che riusciva a commuovere e a restare memorabile. Tutto molto semplice. Riteneva che questo obiettivo l’avessero raggiunto soprattutto i poeti della tradizione romantica inglese; e, tra i loro successori, Hardy e Betjeman. In generale, era piuttosto sordo alle idee e alle forme del modernismo: non credeva affatto (contro Eliot) che una poesia adeguata ai tempi dovesse essere difficile. E lo stesso pregiudizio estendeva alle altre arti: non capiva il perché di Picasso, pensava che Charlie Parker avesse «distrutto il jazz». A differenza dei grandi poeti delle generazioni precedenti alla sua, spesso conservatori in politica e rivoluzionari in poesia, Larkin era un conservatore su tutti e due i fronti. Senza essere, ovviamente, un’anima semplice, era un uomo incapace di trovare qualcosa di bello nelle complicazioni. In un’intervista racconta della volta in cui, in macchina, sentì recitare alla radio l’Ode all’immortalità di Wordsworth: «Dovetti fermarmi, le lacrime mi impedivano di vedere la strada».

Coerentemente, le sue poesie non sono quasi mai oscure. Il verso è per lo più il blank verse della tradizione anglosassone: nessuna sperimentazione, rari cedimenti alla prosa, pochi di più alla parodia. La difficoltà, quando c’è, è dovuta non a fatti espressivi ma a un fatto di visione: Larkin disegna una scena, racconta un aneddoto, e poi ci lascia sospesi, esitanti circa il significato di ciò che ha appena disegnato o raccontato. Cosa vuol dire che «È tutt’a un tratto / anziché parole viene il pensiero di finestre alte», nel finale di High Windows? E qual è il senso del viaggio attraverso la campagna verso Londra che viene così minutamente descritto in Le nozze di Pentecoste? Non è oscurità: è quella forza evocativa, quella indisponibilità alla traduzione in plain prose che rende appunto certe poesie – con le parole di Larkin – commoventi e memorabili.

Commozione e memorabilità sono legate strettamente alla verità delle cose a cui Larkin ci mette di fronte nei suoi versi, cose per lo più spiacevoli come l’invecchiamento, l’amore mancato, la vita sprecata, il fallimento, l’oblio. «Lui – scrive Amis in Esperienza – non parlava dell’uomo post-storico. Parlava dello psicodramma scatenato dalla calvizie precoce». Questo sublime dal basso può anche dare fastidio. «Lo trovo squallido, deprimente, noioso, e anche banale. E middle-class. Anch’io sono middle-class, ma a me la vita sembra molto più interessante di quanto sembri a lui»: è il parere di un mio amico intelligente, e non è un parere immotivato. Di fatto, la parzialità di visione di Larkin confina con la scorrettezza: perché è talmente concentrato sugli aspetti lugubri dell’esistenza da non riuscire a vedere, e a descrivere, quelli belli. Sia pure: ma da un lato è chiaro che non bisogna pensare della vita quello che Larkin pensava della vita per amare le sue poesie; dall’altro, dello spicchio di realtà che gli sta a cuore, Larkin dice cose profonde e vere. E poi, a differenza di tanti altri poeti votati al lamento, Larkin non è mai querulo, non si prende mai troppo sul serio e, grazie al cielo, non condisce il suo ateismo con la ‘teologia negativa’ o la ‘ricerca del Dio nascosto’ che piacciono a certi poeti contemporanei e ai loro critici.

Per gli argomenti e per come l’argomentazione viene svolta in alcune sue poesie, Larkin ricorda Leopardi. Solo che Larkin non avrebbe mai scritto versi come «Tutti fra sé confederati estima / gli uomini, e tutti abbraccia / con vero amor, porgendo / valida e pronta ed aspettando aita / negli alterni perigli e nelle angosce / della guerra comune». Larkin non sognava l’alleanza degli esseri umani contro la natura matrigna, e certamente non rimpiangeva l’età naturale azzerata dall’età della Ragione. Le sue rare esortazioni al genere umano sono contenute, dimesse («Dovremmo essere gentili, / finché siamo in tempo»). Non che Larkin non avesse le sue fedeltà. Ma il genere umano è un alleato troppo vago e incerto per poterci fare affidamento. La fedeltà di Larkin, il cerchio delle sue simpatie, ha un raggio più breve: un certo numero di scrittori, pochi amici e, sullo sfondo, il popolo britannico. Benché fosse propenso alla solitudine, come Leopardi, Larkin credeva più di Leopardi nelle virtù della società, della società inglese in particolare. La sua curiosità per tutto ciò che stava fuori dall’Isola era minima.

Né certamente si può dire di lui che – come Leopardi secondo De Sanctis – produca «l’effetto contrario a quello che si propone. Non crede al progresso, e te lo fa desiderare; non crede alla libertà, e te la fa amare. Chiama illusioni l’amore, la gloria, la virtù, e te ne accende in petto un desiderio inesausto». Larkin non si presta a questi equivoci. Né progresso, né libertà, né amore, né gloria, né virtù: uno dei temi che gli sono più cari è anzi la necessaria soppressione del desiderio: «Chi agisce s’inganna sempre più di chi resta inerte», ha scritto commentando una delle sue poesie più belle, The Less Deceived (‘Quella che s’ingannò di meno’). In lui la contemplazione del negativo, di ciò che nella vita dà dolore, e della morte, non è addolcita da niente. Rari spiragli si aprono per un attimo («Ciò che sopravviverà di noi è l’amore», così finisce An Arundel Tomb), ma vengono subito richiusi («Togliti di mezzo prima che puoi / e non mettere al mondo dei figli», così finisce This Be The Verse). L’unica linea di difesa possibile è quella dell’ironia e del distacco. Per questo, il tono di Larkin non è mai declamatorio: invece di «infuriare contro la luce che si spegne», constata, molto dispiaciuto, che la luce si spegnerà per non riaccendersi più. Ma le sue pacate constatazioni sono meravigliose.

Si discuteva qualche mese fa su ‘a chi dedicare un Meridiano’. Non so quanti abbiano fatto il nome di Larkin, ma Larkin andrebbe messo in testa alla lista (ex aequo con Auden, diciamo). Le traduzioni delle sue prime tre raccolte, pubblicate nel 1969 da Einaudi, non sono più in commercio. Quanto alla prosa, le cose vanno anche peggio: non esistono traduzioni dei suoi due romanzi giovanili, né dei deliziosi Required Writings, che raccolgono saggi sulla letteratura e sul jazz. Nell’attesa che qualche anglista di buona volontà provveda, il lettore italiano può partire dalla fine, dall’ultima raccolta, Finestre alte (Einaudi 2002); può poi leggere, nel sito della «Paris Review», una bella, lunga intervista fatta a Larkin nel 1982; e nel sito www.poetryarchive.org può ascoltare Larkin che legge tre sue poesie (consiglio Mr Bleaney).

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