[in “L’educazione tra reale e virtuale”, Brescia, ed. La Scuola 2012, pp. 157-59]
Il recente libro di Paola Mastrocola Togliamo il disturbo. Saggio sula libertà di non studiare riflette e amplifica un malinteso senso comune con cui anche il discorso pedagogico, soprattutto quando cerchi di non essere puramente accademico e autoreferenziale, deve in qualche modo fare i conti. Dopo la consueta constatazione delle rovinose sorti della scuola, e in particolare del liceo dove insegna, rispetto al buon tempo andato, la pars construens del fortunato testo propone una distinzione che si spinge ad auspicare non solo a livello liceale, ma anche medio ed elementare, una tripartizione tra scuola per lo studio, scuola per la comunicazione e scuola per il lavoro.
Le assunzioni implicite della proposta appaiono sostanzialmente tre: lo studio umanistico è esclusivamente personale e libresco; lo studio cooperativo e non libresco è funzionale solo ai mestieri della comunicazione; lo studio immediatamente professionalizzante è qualcosa di nettamente altro tanto dalla Cultura quanto dalla Comunicazione.
Ora, lo studio umanistico classico è sempre stato un intreccio di momenti individuali e momenti collettivi; troppo spesso si dimentica che aspetti tutt’altro che irrilevanti della stessa Ratio studiorum gesuitica erano le “accademie”, le congregazioni mariane e le gare tra “romani” e “cartaginesi” in cui l’emulazione individuale si sommava a dinamiche orizzontali tra pari. L’idea che possa esistere la comunicazione separata dai contenuti appare dubbia, tenendo presente che gli strumenti della comunicazione mutano in modo più veloce dei contenuti aventi caratteristiche tali da essere oggetto di istruzione scolastica, mentre ancor più problematico pare il tentativo di fare delle competenze comunicative l’oggetto di specifica prassi didattica separata dallo studio di testi, non necessariamente letterari, di cui ci pare triste parodia l’articolo di giornale come tipologia della prova di italiano nell’esame di Stato conclusivo degli studi secondari.
Una concezione della comunicazione non applicata ai contenuti ha portato, forse malgrado le buone intenzioni di alcuni entusiasti novatori, a derive formaliste nell’insegnamento della letteratura, ben presto immemori che le teorie che le avevano ispirate avevano anche una parte materialistica. A questo proposito, ricordo un fortunato quanto didatticamente improbabile – la prima edizione era formata da dieci volumi – testo per le secondarie di Remo Ceserani e Lidia De Federicis: il materiale, che alludeva alla condivisione di una storiografia di ispirazione marxista, è ben presto svanito ed è rimasto l’immaginario non di rado scaduto a una nuova retorica.
In non minori equivoci sono incorsi molti corsi di studi universitari di scienze della comunicazione, che troppo spesso sono solo delle brutte copie di un corso di laurea in lettere moderne senza latino, ma con tirocini per i quali mancano i soldi e soprattutto la cultura organizzativa.
La stessa “terminalità” e minor durata dell’istruzione tecnica ci pare oggi sostenibile solo se abbia caratteristiche tali da essere la premessa di una istruzione permanente-ricorrente. Inoltre, la asserita pari dignità può essere tale solo se vi sia la consapevolezza che gli standard, anzitutto della docenza, devono essere adeguati, e che una buona istruzione tecnica costa più di una istruzione liceale. Il pur mitizzato caso tedesco della istruzione duale (una sorta di obbligo scolastico a tempo parziale unito ad un obbligo di tirocinio) era reso possibile da un forte investimento, economico e simbolico, da parte della mano pubblica così come delle imprese.
Personalmente ritengo che una scuola all’altezza dei tempi dovrebbe dimostrare – e la ricerca dovrebbe aiutarla a farlo e a documentarlo – che tale distinzione è non solo errata, ma anche controproducente. Un odierno liceale che non sapesse fare un uso adeguato e consapevole delle Tecnologie dell’Informazione e della Comunicazione sarebbe al disotto degli standard previsti dagli Obiettivi Specifici di Apprendimento del secondo ciclo di istruzione, e ben difficilmente andrebbe al di là di un uso puramente ludico e socializzante dell’informatica personale.