In questo film ambientato a Napoli Napoli si vede una sola volta, a un quarto d’ora dalla fine. La vediamo in una lunga panoramica dall’alto: tramonto, persiane che si alzano per far entrare l’ultima luce della giornata estiva, ragazzi che sgommano sui motorini, conciliaboli davanti al bar, una concitazione che – lo si avverte – potrebbe facilmente trasformarsi in violenza. È una scena dal vero, nessuno recita, nessuno sa che la macchina da presa lo sta filmando, è l’unico brano di documentario che il documentarista Leonardo Di Costanzo ha messo nel film. Gli occhi che guardano la città sono quelli dei due protagonisti, due ragazzini. Lei mima una pistola con le dita e spara. Lui è d’accordo: ci vorrebbe una strage, un’epidemia che stermini tutti quanti. È una scena straziante e cruciale, perché finiamo di capire quello che subliminalmente il film è andato suggerendoci sin qui, e cioè che l’unica possibilità di salvezza non sta nella libertà ma, al contrario, nella reclusione, nel tenere il mondo fuori. Solo che è impossibile.
Veronica, quindici anni, e Salvatore, diciassette, sono rinchiusi in un enorme edificio in disarmo, forse un ospedale o un vecchio collegio. Lei ha fatto qualcosa – all’inizio non sappiamo precisamente che cosa – che non è piaciuto a un boss della camorra; lui è stato prelevato dai suoi sgherri ed è lì a fare la guardia. In cambio riceverà qualche soldo e riavrà indietro il carrettino delle limonate con cui si guadagna la vita, e che gli è stato provvisoriamente sequestrato. L’intervallo racconta la dozzina di ore che i due trascorrono insieme, questo breve intervallo di vita artificiale, questo stato d’eccezione scavato dentro le loro vite ordinarie. Alla fine della giornata, il camorrista torna a vedere se la ragazza ha messo giudizio. Scende la notte, finisce il film.
In questa dozzina di ore il ragazzo, Salvatore, non cambia. È uno splendido personaggio positivo, splendidamente interpretato da Alessio Gallo, con quella piega di amarezza, di dolore trattenuto che hanno certi adolescenti ai quali è toccata la sfortuna di essere saggi anzitempo, e intelligenti, in un ambiente che per essere abitato richiede soprattutto forza e scaltrezza. In un simile ambiente, le belle qualità spirituali di Salvatore sono un handicap, e lo fanno sembrare più piccolo, goffo e indifeso: ha diciassette anni ma ne dimostra un paio di meno. È buono, umile, malinconico: un perdente. Da grande vorrebbe fare lo chef, ma è chiaro che non ci riuscirà mai. I rapporti di forza si chiariscono subito, nella prima battuta del film, quando lui (carceriere) si presenta a lei (prigioniera), conciliante: «Ma Salvatore o’ scemo o Salvatore o’ chiattone?», risponde Veronica, e chiude il discorso.
Il personaggio in movimento, nel film, è Veronica (Francesca Riso). Ha quindici anni ma, come accade alle ragazze a quell’età, ne dimostra almeno un paio di più. Quando la vediamo per la prima volta, seduta su una sedia in mezzo al cortile, ha l’aspetto e i modi rassegnati di una prostituta. Lo spettatore fa delle ipotesi (sbagliate): ha fatto uno sgarbo al suo ruffiano? È incinta e non vuole abortire? A mano a mano che passano le ore, Veronica riconquista la sua fisionomia di adolescente, anzi di pre-adolescente, tanto è casto il rapporto che si stabilisce con Salvatore: la sensualità appartiene agli adulti, al mondo di fuori. La sceneggiatura ha un modo dolcissimo per segnare l’inizio di questa riconquista. Per mangiare il mezzo panino che le regala Salvatore, Veronica si raccoglie i capelli con il cerchietto, e subito dimostra i suoi quindici anni, o anche meno. Da quel momento i due ragazzi diventano amici, complici. La sera, il camorrista che viene a prenderla le ordina di togliersi il cerchietto, di sciogliersi i capelli, glieli tocca: fine dell’intervallo d’innocenza, primo brivido sensuale, ritorno all’oscena maturità dell’inizio.
Sulle prime, l’edificio abbandonato in cui Veronica e Salvatore si trovano rinchiusi sembra solo un casermone di cemento infestato dai topi: e l’atmosfera è resa ancora più opprimente dall’umidità estiva e dal rombo degli aerei che volano bassi sulle case (non c’è, per fortuna, commento musicale: l’aereo, gli uccelli, i rumori sinistri dell’edificio risuonano – è il verbo giusto – nel silenzio). Ma poi i due esploratori scoprono segreti da fiaba: una pozza d’acqua con tanto di barca, la cameretta di una ragazza morta anni prima, e una sua foto, e tutto intorno un parco in cui sembra che la natura, esiliata dalla città, sia venuta a rifugiarsi: uccelli che annunciano la pioggia, un cane coi suoi cuccioli. Quando la pioggia arriva e Salvatore – che è un ragazzo sanamente naturale, e perciò non si dà pensiero della sua ciccia – si toglie la maglietta e rimane lì a inzupparsi, è tutto quasi troppo scopertamente simbolico.
«Ma dove collocheremo – scrive Rousseau nell’Emilio – questo fanciullo per allevarlo a questo modo? Lo confineremo nella sfera lunare, in un’isola deserta? Lo terremo lontano da tutti gli esseri umani? Non avrà forse continuamente davanti agli occhi, in società, lo spettacolo e l’esempio delle passioni altrui? […] È questa un’altra delle ragioni che mi persuadono ad allevare Emilio in campagna […], lontano dai perfidi costumi della città». L’intervallo realizza, per lo spazio di dodici ore, il sogno di Rousseau, e gli dà ragione. Con un’invenzione intelligente, gli sceneggiatori hanno tolto a tutti e due i ragazzini anche i cellulari (due adolescenti senza cellulare: un test psicosociologico!): non hanno altro che se stessi. Ma i perfidi costumi della città si possono sospendere solo per un istante, poi tornano a governare le vite di tutti. Come nella frase di Kafka, «è inutile chiudersi in casa: si è nella loro». E naturalmente non c’è nessun amorevole pedagogo. Quindici anni sono l’età in cui si comincia ad avere una vita segreta, che gli adulti ignorano. Ma qui gli adulti o non ci sono (Veronica non sembra avere né padre né madre, potrebbe stare rinchiusa per mesi senza che nessuno venga a cercarla), o sono troppo deboli per proteggere i figli (semmai è il contrario: è Salvatore, col suo silenzio, a proteggere il padre), o sono quelli da cui guardarsi, i padroni di casa.
Alcuni dei migliori film contemporanei hanno la struttura e la profondità di un dramma morale: il protagonista è messo di fronte a un bivio, e la scelta che è chiamato a compiere decide del resto della sua vita. Lo spettatore assiste a questa prova, si domanda come andrà a finire. Il Woody Allen serio racconta spesso storie del genere, per esempio in Crimini e misfatti o in Match Point. Ma ci sono casi – forse i più interessanti, i più aderenti alla realtà – in cui il dramma morale è fittizio, puramente formale, perché le circostanze in cui il protagonista agisce sono tali da non lasciargli mai veramente scelta: lo trascina una forza troppo più grande, invincibile. La scelta della violenza, in film come A History of Violence o Unforgiven, riflette una costrizione del genere: le regole del gioco le fanno gli altri, gli avversari, e non c’è altra possibilità che accettarle, combattere con le stesse loro armi. Ma L’intervallo mi ha ricordato soprattutto un capolavoro non abbastanza visto e lodato, almeno in Italia, come l’australiano Animal Kingdom. Anche il protagonista di Animal Kingdom, Joshua, ha diciassette anni, come Salvatore, l’età in cui tutto dovrebbe essere ancora possibile. Invece no, la strada del criminale Joshua, e delle vittime Salvatore e Veronica è sempre stata segnata. Come Animal Kingdom, L’intervallo è uno straordinario film sull’adolescenza; ma, come Animal Kingdom, è un film sull’adolescenza vissuta oggi, in un luogo preciso. Benché la si veda poco, Napoli incombe costantemente sulla felice reclusione dei due ragazzi: e alla fine manda i suoi emissari – il boss della camorra con la sua banda – ad aprire i cancelli, a richiamarli all’ordine. Nonostante certe splendide parentesi da fiaba, L’intervallo è soprattutto un film sui «perfidi costumi della città». Di fatto, non saprei citarne molti che, quanto questo, meritino il nome – la lode – di ‘politico’, e senza la retorica e la boria che il nome spesso si porta dietro.