Cultura e società

Il videogioco del quarto di secolo: Minecraft

Il Mulino 1 (2025)3 Febbraio 2025

1.

Veramente io pensavo che si chiamasse Mindcraft, una specie di ‘costruzione mentale’ con addentellati metafisici. Del resto, è il videogioco più venduto della storia, ci giocano anche i grandi, immaginavo che lo spessore concettuale fosse proporzionale al successo. Invece si chiama Minecraft, è stato rilasciato, come si dice (released), nel 2011, e con le sue più di trecento milioni di copie vendute è, appunto, il videogioco che ha cambiato la storia dei videogiochi. A crearlo è stato il game-designer svedese Markus Persson, soprannominato Notch.

Notch ha una storia che meriterebbe di essere raccontata nel dettaglio, ma dopo.

Minecraft è un gioco graficamente così così. Non è realistico come Grand Theft Auto V (secondo gioco più venduto nella storia, ma a grande distanza), non è disegnato con la raffinatezza di Call of Duty. Anni fa avevo conosciuto una ragazza che di mestiere faceva la disegnatrice di abiti, ma non abiti veri: vestiva i personaggi del videogioco EVE Online. Campava così, lei e un’altra dozzina di stilisti come lei. Immagino che oggi, con la IA, sia un mestiere in disuso: dall’avanguardia all’obsolescenza nello spazio di una generazione. Per ‘vestire’ Minecraft non servono stilisti o designer: la sua grafica elementare (è tutto fatto a cubetti, a mattoncini tipo Lego: l’erba è un mattoncino verde-marrone, le pietre sono mattoncini grigi) non è poi così distante da quella dei primi videogiochi della mia adolescenza. Siamo sempre nel solco tracciato da Pong (1972), ma il solco si è allungato tantissimo.

Come funziona Minecraft, che cosa si fa? Ci si trova dentro un paesaggio (o bioma) di varia conformazione: «palude, rilievi estremi, taiga, deserto, foresta, pianure, giungla, distese di ghiaccio, oceano, e persino il raro bioma dell’isola dei funghi» (Minecraft. La guida fondamentale, Milano, Mondadori 2014, p. 6). Non ci sono ostacoli da superare o avversari da sconfiggere; non si spara. Si accumulano materiali scavando (mine) e con questi materiali (legno, metalli, pietra, terra) si costruiscono degli edifici, dei ripari che servono a proteggere il giocatore: altrimenti, quando scende la notte, varie creature mostruose (scheletri, ragni giganteschi, zombie, e soprattutto il più stronzo di tutti, il verde-nero mostriciattolo soprannominato The Creeper) arrivano e lo fanno fuori. Il punto non è conquistare, sottomettere, uccidere, come succede di solito; il punto è costruire, da soli o in gruppo, in una gamma – letteralmente – infinita che va da una capanna di dieci mattoncini al Taj Mahal scala 1:1. È un gioco per geometri dotati di fantasia: «un mattoncino resta sempre un mattoncino, ma un numero sufficiente di mattoncini possono diventare qualsiasi cosa il giocatore immagini».

Uno dei tanti libri che raccontano la storia di Minecraft (Daniel Goldberg e Linus Larsson, Minecraft: The Unlikely Tale of Markus ‘Notch’ Persson and the Game that Changed Everything, Seven Stories Press 2013: la citazione precedente viene da qui) inizia con la convention di Las Vegas in cui Persson presenta la nuova versione del gioco a cinquemila fans «dai quattro agli ottant’anni» che portano in testa delle scatole di cartone, per imitarne la grafica minimale, in una minimale manifestazione di cosplay. «Minecraft. Un gioco tanto incomprensibile per i non-iniziati quanto selvaggiamente adorato da decine di milioni di giocatori». Io sono uno dei non-iniziati, e tale intendo restare, perché purtroppo la vita fugge e non s’arresta un’ora, e la morte vien dietro a gran giornate. Perciò, per orientarmi nei meandri del Fenomeno, ho chiesto aiuto a un amico che è nel ramo.

2.

Marco Bancale si occupa di videogiochi, cioè fa materialmente videogiochi dalla pre-adolescenza, e adesso è proprietario di un’azienda che li produce in Islanda, dove vive. Perché l’Islanda? Perché alla fine degli anni Novanta a Bologna aveva aperto una ditta che «faceva web, cioè la merda» (perché «la merda»? Perché «fare web» vuol dire occuparsi di cose noiose, a un livello tecnico basso, dovendo lavorare con clienti che danno poca soddisfazione. Per inciso, l’impressione è che il mio uso di internet, diciamo così, sia totalmente diverso dall’uso che ne fa Marco, che con internet ci lavora: ci colleghiamo su Zoom e il commento è di nuovo «Ma perché su Zoom? Zoom è la merda»).

Marco è uno di quegli esseri umani per i quali sembra essere stata coniata la parola ‘vocazione’, e il concetto relativo: uno che fa quello che è nato per fare. Ha cominciato a programmare a dodici anni (Amiga, PC), comprando qualche libro sulla programmazione, poi informandosi in rete. S’è iscritto a Informatica a Bologna, ma sapeva già tutto: ha capito che laurearsi era una perdita di tempo, ha mollato l’università, si è messo a fare videogiochi.

Ha capito anche un’altra cosa: che era meglio non stare in Italia, perché in Italia non si fa hardware (le macchine), e il poco software che si fa (i programmi) è per lo più copiato da ciò che altri programmatori hanno fatto, cioè sfrutta i layers di software preesistente. Non posso dire che mi sia tutto chiaro, ma mi è chiaro l’essenziale: che chi voleva lavorare creativamente nell’informatica, vent’anni fa, faceva bene a emigrare. «Tuttora», commenta Marco.

Marco era stato un paio di volte in vacanza in Islanda, se n’era innamorato, come non capirlo, voleva andarsene dall’Italia e aveva saputo che in Islanda gli informatici facevano cose raffinate, quindi perché no.

Dunque i videogiochi.

«I videogiochi sono cose tecnicamente molto elaborate, richiedono vere competenze di programmazione, e infatti, insieme all’aerospaziale, è il ramo dell’industria informatica che attira i più bravi». In Islanda prima fa l’informatico dove serve, poi si mette in proprio, poi produce un gioco tutto suo, Kingdom. Lo vende bene, si sistema, si assesta, tira il fiato, pensa a giochi nuovi, ma molto rilassatamente. I videogiochi, mi spiega, si dividono in due grandi famiglie.

La prima è noiosetta. Sono i videogiochi free-to-play che finiscono sui cellulari o sui tablet. Sono i videogiochi più elementari, quelli in cui si spara o si acciaccano le palline, videogiochi per ammazzare la noia mentre l’autobus ti porta al lavoro o a scuola. I soldi si fanno non vendendo il gioco, che è gratis, ma vendendo i livelli del gioco successivi al primo, e soprattutto i prodotti che il gioco pubblicizza. Lo sforzo creativo è poco, ma il guadagno è aleatorio. Soprattutto, per fare un po’ di soldi bisogna avere un numero di utenti mostruoso, perché solo uno su mille compra qualcosa, gli altri giocano gratis.

La seconda famiglia è quella più affascinante. Sono i videogiochi per PC o console. Il gioco ha un prezzo, lo si scarica su PC da un negozio online che si chiama Steam, e che è una specie di Amazon del gaming (il paragone non è fuori scala: alle ore 15 del giorno di Natale 2024, erano collegati contemporaneamente a Steam, un sito del quale fino a poco fa ignoravo l’esistenza, trentacinque milioni di utenti; mi ci è voluta una vita, ma adesso finalmente afferro la verità della frase di Čechov: «Ogni esistenza personale si mantiene nel mistero»). Quanto ai soldi, circa il 30% del guadagno va a Steam, circa il 70% al creatore del gioco, che però – oltre a pagarci le tasse – deve spesso dare una cospicua percentuale al publisher, cioè all’editore che fa da intermediario tra il creatore del gioco e il pubblico: cercando finanziamenti per realizzare il gioco, di solito dopo aver visto una demo (funding), curando il marketing, la pubblicità, la vivacissima community dei giocatori, i contatti con gli YouTuber che collaudano il gioco, i social network eccetera. Uno può anche farne a meno, ma i giochi di successo che non passano attraverso un publisher non sono tanti.

Steam paga mensilmente. Il gioco incassa tanto nelle prime settimane o mesi dalla sua pubblicazione, poi i guadagni, salvo eccezioni (e Minecraft naturalmente è l’Eccezione), calano rapidamente, e il creatore del gioco cerca di fare in modo che questa coda di guadagni duri il più a lungo possibile. Per riuscirci, deve faticare. Uno pensa che creare videogiochi sia un mestiere per solipsisti, come dipingere quadri o scrivere poemi in ottave: ci si chiude in casa, si spegne il cellulare, si accende Radio Tre, si lavora paciosi, quando uno vuole, quanto uno vuole.

Era così, una volta. Ma adesso si sa: gli scrittori devono andare in tournée, firmare le copie, farsi i selfie, massacrarsi di treni e alberghi non sempre a cinque stelle. Registi e attori non parliamone, con la via crucis della propaganda alla radio, in TV, in rete. Il momento creativo dura meno del momento-propaganda, quello in cui il solipsista, obtorto collo, deve mescolarsi al suo pubblico.

I videogiochi non ti portano nella provincia italiana, perché fisicamente non ci si muove: e può essere un bene o può essere un male, a seconda che uno apprezzi o no la scolaresca che fa domande, i pranzi con l’assessore. Ma bisogna aggiornare il gioco ogni tot settimane, ingaggiare la community, rispondere ai complimenti o alle critiche dei giocatori, tenere d’occhio il gradimento del gioco sulle piattaforme. Perché i giocatori sono estremamente esigenti, e l’unico modo per capire se un gioco va bene o va male è il rating sulla destra della schermata di Steam.

Quanto appunto al fondamentalissimo rating, nell’opinione dei giocatori i giochi possono essere:

Overwhelmingly Positive
Very Positive
Mostly Positive
Mixed
Mostly Negative
Negative
Overwhelmingly Negative

Traduzione per il consumatore: se è «Overwhelmlingly Positive», lo compri. Se è solo «Very Positive» lo compri, ma con più difficoltà, dal momento che i giochi «Overwhelmlingly Positive» sono tanti, e c’è solo l’imbarazzo della scelta. Sotto «Mostly Positive» c’è la morte: chi ha fatto il gioco ha buttato via tempo, ingegno e denaro.

Se un gioco non viene giudicato «Overwhelmlingly Positive», o almeno «Very Positive», il produttore corre ai ripari cercando di capire cosa non funziona, ingaggiando la community. Esempio. «Il nostro gioco Retro Gadgets su Steam è sempre stato very positive. A un certo punto siamo scesi a mostly positive a causa di una serie di recensioni parzialmente negative, o tiepide. Allora abbiamo attivato la nostra comunità su Discord e abbiamo chiesto aiuto, sollecitando spiegazioni e soprattutto recensioni positive. E in dieci minuti siamo tornati Very Positive».

Ergo: pubblicare un gioco è solo l’inizio. Bisogna poi chiacchierare con i giocatori, aggiornare, interagire sempre. No: nonostante le apparenze, non è un mestiere per solipsisti o sociopatici.

3.

Ma venendo a Minecraft. Perché è stato una rivoluzione?

Intanto perché è un gioco indie. I giochi si dividono in Indie, Double A, Triple A. Giochi come Call of Duty o Assassins’ Creed sono Triple A, cioè produzioni enormi, da centinaia di persone, e centinaia di milioni di dollari di investimenti in sviluppo, marketing, pubblicità. Double A un po’ meno: 15-20 persone. Indie è l’opera di un solo creatore, o di una coppia; non c’è budget, ma non c’è neanche chi ti dice cosa fare: si può sperimentare, essere originali, anche tentare cose un po’ fuori mercato. In generale, più è grande la produzione meno c’è originalità, come a Hollywood.

Le arti di massa raramente hanno un unico autore: i film e le serie televisive li fanno in tanti, le canzoni di solito uno le scrive e l’altro le canta, e più spesso ancora tanti le scrivono e le arrangiano e le eseguono e un altro o un’altra le canta. Anche i videogiochi, che a loro modo sono arti di massa, sono quasi sempre il frutto di un lungo lavoro d’équipe, più ancora dei film e delle canzoni, tanto che praticamente nessuno sa chi ha inventato/realizzato, mettiamo, Space Invaders, o PacMan, o Grand Theft Auto. Si citano le case produttrici, i marchi, perché gli autori sono troppi.

Minecraft, invece, è il frutto dell’ingegno di un solo individuo: niente publisher, niente funding, niente marketing, niente business plan. Minecraft è diventato Minecraft unicamente attraverso il passaparola e gli influencer di YouTube. Spiegazione di Marco: «Quasi tutti gli YouTuber più famosi hanno cominciato commentando Minecraft, facendo i primi tutorial; quasi tutti – anche i famosi tra i famosi, come PewDiePie e Mr Beast – ci hanno giocato. Oggi vedi le classifiche in rete: i Top 100 Minecraft YouTubers dell’anno, siti con milioni e milioni di follower che guardano gli altri giocare a Minecraft. È un’industria che ha creato un’altra industria, e oggi migliaia di questi influencer devono ringraziare Persson per avergli fatto fare montagne di denaro».

Così, nel 2011, Minecraft ha aperto la strada ai giochi indie. È stata una rivoluzione dal basso molto positiva, sia per i creatori sia per i consumatori.

Quanto ai creatori, prima, se si voleva lavorare nel campo dei videogiochi, bisognava cercarsi un’azienda, mandare curriculum, fare colloqui. Minecraft ha dimostrato che ognuno era padrone del suo destino, che bastava un computer e una connessione internet. E un po’ di bravura, si capisce. Oggi, più o meno la metà dei giochi che si producono nel mondo è indie. Nessuno ha eguagliato il successo di Minecraft, nessuno ci è andato anche solo vicino; ma le storie di successo sono state parecchie: per esempio Stardew Valley, Undertale, Papers Please, Braid, Dwarf Fortress (i nomi me li snocciola Marco, poi me li mette per iscritto: per me è tutto arabo naturalmente).

Quanto ai giocatori, i giochi indie costano meno di quelli Double o Triple A, perché non bisogna pagare il publisher, o il marketing, o rifondere gli investitori. È un videogioco doppiamente di massa: perché è un gioco; e perché è alla portata di tutte le tasche.

4.

Come tutte le agiografie, il libro di Goldberg e Larsson comincia dalla pubertà. Provetto costruttore coi mattoncini Lego, la vita del piccolo Markus Persson cambia quando, a sette anni, il padre gli porta a casa un Commodore 128, la versione adulta del Commodore 64 che avevo anch’io, inutilmente, a casa. Comincia a giocare, come me; ma – diversamente da me – comincia anche a programmare. La madre lo invita ad uscire, a giocare a pallone con gli altri ragazzi, ma lui no, sta chiuso in camera davanti allo schermo. La madre e la sorella si preoccupano, temono l’hikikomori, ma lui le tranquillizza: «Diventerò ricco: e allora vi porterò a fare un viaggio in elicottero».

Trova un lavoretto in un’azienda svedese che distribuisce, non produce, videogiochi, la Gamefederation. Poi, quattro anni dopo, lo assumono come sviluppatore alla Midasplayer, che i giochi li produce (no, non si può dire che i nomi delle compagnie brillino per originalità, lo slancio creativo evidentemente si consuma altrove). Ci lavora per un po’, ci trova anche una moglie, anche lei programmatrice, Elin; ma a Midasplayer non sono contenti che, nel tempo libero, lui sviluppi videogiochi per conto proprio, perciò passa a un’altra azienda, Avalanche, ma non ci si trova bene; ritorna a Midasplayer, si ri-stanca di Midasplayer, passa a JAlbum. Evidentemente non cerca il posto fisso, cerca la li-ber-tà. A JAlbum gliela danno, così nei ritagli di tempo Persson disegna, crea, fa, sceneggia Minecraft, questa specie di Lego elettronico dalla grafica puerile; lo mette in vendita in rete l’anno successivo, e in capo a un anno diventa milionario.

Da quel momento in poi l’agiografia prende i tratti del fantasy, perché le modalità e l’entità del successo suonano irragionevoli. Luglio 2011: 10 milioni di utenti registrati. 2012: Minecraft esce per Xbox 360 e vende 400mila copie nelle prime ventiquattr’ore. Insieme a un paio di collaboratori, Persson fonda la società Mojang, detentrice dei diritti su Minecraft. Aprile 2013: 10 milioni di copie vendute del l’edizione Pocket di Minecraft. 2014: Microsoft compra Mojang per 2.5 miliardi di dollari. 2020-21: su Minecraft e sugli altri videogiochi scende una benedizione: la pandemia, che fa aumentare il numero dei giocatori di enne volte. Ottobre 2023: Mojang annuncia che Minecraft ha venduto 300 milioni di copie in tutto il mondo. Il secondo in classifica, il Triple A Grand Theft Auto V, ne ha vendute meno di 200 milioni. A margine, nella sfera non dell’Economico ma del Simbolico: copertine del «New Yorker», profili di Persson sul «New Yorker», think piece chilometrici sul significato di Minecraft, il MoMA che accoglie Minecraft nelle sue collezioni come monumento del design di inizio millennio.

Il paradiso terrestre? Sì, ma col suo serpente incorporato. Mentre infatti il destino1 trasforma questo anonimo sviluppatore svedese nel Mida dei videogiochi, il destino2 comincia a chiedere il conto. Lui ed Elin divorziano. Il padre si suicida un mese dopo la commercializzazione della versione finale di Minecraft. Soprattutto, come accade ai post-adolescenti, specie se miliardari (dall’affare-Microsoft gli sono venuti 1.3 miliardi di dollari), l’ancor giovane Persson si stanca: di Minecraft, delle convention oceaniche, della community che si aspetta un nuovo gioco (il titolo doveva essere 0x10C, ma per adesso non c’è niente a parte il titolo), di tutto. Twitter, 29 agosto 2015:

In giro a Ibiza con un gruppo di amici, feste insieme a gente famosa, posso fare qualsiasi cosa, e non mi sono mai sentito così solo.

Stesso giorno:

Il problema, quando ottieni tutto, è che non hai più ragioni per provarci, e le interazioni umane diventano impossibili a causa dello squilibrio.

Stesso giorno:

Farei come Musk, mi metterei a salvare il mondo, ma questo mi esporrebbe di nuovo allo stesso tipo di stronzi che mi hanno portato a vendere Minecraft.

Sparisce. Ricompare. Adesso è il proprietario di una villa a Beverly Hill del valore di 70 milioni. Finisce sulla copertina di «Forbes». Spende e spande come se dovesse morire il giorno dopo. Troppo euforico? Depresso? Depresso, pare, e lo si deduce, anzi lo si impara soprattutto da una serie di post su Twitter che un po’ alludono alla solitudine del nouveau riche un po’ fanno venire a galla goffaggini e nervosismi che non stupiscono in un tale che dopotutto avrà letto cinque libri in vita sua, ma che disturbano, fanno notizia se quel tale ha 3.5 milioni di follower e un miliardo e trecento milioni di patrimonio personale. Tweet in cui annuncia la creazione di un Pride per eterosessuali; in cui dice che il femminismo è una «malattia sociale»; che i trans hanno qualcosa che non va nella testa; che quelli di QAnon hanno le loro buone ragioni.

Difetto di cultura umanistica negli anni della formazione? Anaffettività? Disposizione alla sociopatia, magari trasmessa per i rami famigliari? Quello spleen che sempre raggiunge le persone sensibili, nella regione della vita che sta tra la fine della giovinezza e l’inizio della maturità? Semplice coglioneria, benché – informano le biografie – Persson sia membro del Mensa International, l’associazione di quelli con un IQ superiore a 133 sulla Wechsler Adult Intelligence Scale? Ma associarsi al Mensa International non è già, in sé, il sintomo di un malessere? E il tweet fissato che dice «The more you know, the more you know you have more to know. In the limit, you know nothing» non è un altro sintomo, anzi una mezza prova?

 

 

 

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