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E, semplicemente, crescere? Sulla critica letteraria oggi

Tuttolibri15 Marzo 2025

Il tema della crisi della critica letteraria produce di solito due diversi tipo di dibattito, collegati tra loro ma forse da distinguere. Il primo tipo è quello che indaga alti e bassi della critica intesa come sapere fondativo del pensiero moderno, insieme ad altre discipline sue coetanee o quasi (l’estetica, la sociologia, l’antropologia, eccetera). In questa dimensione, la crisi va avanti da due secoli e mezzo, cioè da quando esiste la critica. In parte ha radici nel dna (oltre che nell’etimologia) della materia stessa – prerogativa del moderno essendo proprio il rifiuto illuminista del principio di autorità e dei valori tradizionali, da sottoporre a continua revisione. In parte affonda nelle difficoltà di quella cultura umanistica che attribuiva alla letteratura un ruolo centrale nel sistema delle arti e dell’istruzione del cittadino; e che ha smesso col tempo, e con la società di massa, di poterselo permettere.

Tale discussione ha influito su metodi e mandati della critica, sui suoi scopi politici ed estetici, sui suoi spazi istituzionali – ma almeno fino alla fine del secolo scorso non ha colpito a morte il senso e il valore dell’esercizio critico. Era pur sempre (si fa per dire) la Belle Époque del Novecento, quella in cui i critici potevano scornarsi tra loro sempre però contando su una società letteraria ristretta in cui dettare legge, su un pubblico non solo specialistico interessato ad ascoltarli, su un’editoria libraria e giornalistica disposta a dare loro spazio.

Ma da vent’anni a questa parte su questo dibattito tutto sommato dotto se ne è innestato un secondo, più allarmato e terra terra, legato alla percezione di una stanchezza crescente verso ogni forma raffinata di mediazione culturale. E questo sì che è un guaio. La critica è fatta di metadiscorsi, cioè di discorsi secondi che vertono su discorsi primi (le opere letterarie): che il «il dibattito critico più importante dell’ultimo quarto di secolo abbia avuto, come tema, la crisi della critica» – come ha notato Guido Mazzoni – è il segno, oltre che di una pericolosa autoreferenzialità, di un’insofferenza diffusa, sociale, verso lo spirito critico in sé. Se non verso ogni forma di ragionamento un po’ articolato sulla letteratura.

All’origine di questa stanchezza riposano vari fenomeni, ma su tutti direi la saturazione pop di tutta la nostra cultura, letteratura inclusa. Il dominio del pop significa più semplificazione, più immediatezza, più narcisismo (i critici stessi, come singoli individui, sono spesso narcisisti; ma hanno comunque bisogno di altri critici, cioè di una comunità ermeneutica – non si può fare critica da soli). Significa che cambia in senso infantilistico non solo l’identità di tutti i mediatori culturali – critici inclusi – ma anche degli scrittori, degli editori, e naturalmente dei lettori. Quando, nel pop, il consumo diventa la forma centrale dell’esperienza culturale, e quando in quell’esperienza l’elemento di intrattenimento prevale largamente o del tutto su quello conoscitivo, per la critica si mette male: non serve più un esperto a spiegarci come funziona l’opera d’arte, cosa distingue il bello dal brutto, l’originale dallo stereotipo; conta solo verificare su un largo campione di consumatori quanto quell’opera è efficace sul piano emotivo, quanto è utile sul piano politico e morale, quanto velocemente è comunicabile (solubile, instagrammabile, vendibile). Nel pop la bellezza non è più un valore da scoprire attraverso criteri più o meno rigorosi di coerenza formale e simbolica, è qualcosa che ha a che fare con l’efficacia comunicativa: quindi si decide a maggioranza. I metadiscorsi impegnano la testa e fanno perdere tempo; all’opera d’arte pop serve la scorrevolezza delle strategie di comunicazione e di marketing. Per cui quelle stesse ragioni critiche che nella modernità avevano avuto il compito di fornire – attraverso metodi, canoni e scuole – un diversivo e un contrappeso alle ragioni del mercato, vengono oggi progressivamente esautorate dal mercato stesso, e messe in condizione di non nuocere (stavo scrivendo: di non rompere) lasciandole operare in una nicchia prestigiosa, ma piccola e nascosta socialmente: quella della letteratura in senso forte, che ormai è letteratura d’élite. Mentre i libri detti ‘letterari’ vengono emarginati dai piani alti delle classifiche di vendita, cresce invece la centralità commerciale, sociale e culturale delle scritture di consumo, votate all’intrattenimento puro e semplice, o all’adesione alle mode del momento.

Naturalmente questa delocalizzazione della critica e della letteratura più esigenti non avrebbe funzionato così bene senza l’aiuto della rete, e soprattutto dei social network. Niente distrugge le mediazioni della critica più della presa di parola generalizzata e schematica, niente affossa le singole voci accreditate più del flusso delle opinioni anonime o (all’opposto) degli interventi carismatici ma incompetenti di popolari e ignorantissimi influencer. Non accade lo stesso in politica? E infatti come in politica così in letteratura l’ideologia non viene più forgiata nei giornali, nelle riviste o nelle istituzioni, ma nei social media e nella comunicazione di massa, spesso attraverso semplificazioni grossolane o fake news. Chissà che la crisi della critica letteraria non coincida con quella della letteratura stessa; e che entrambe non alludano alla crisi della politica.

Intanto, il risultato più evidente di questa trasformazione della critica in comunicazione e spesso direttamente in promozione letteraria è un discorso sui libri semplificato, meno competente e libero, talvolta perfino più noioso, quasi sempre più infantile; in definitiva, più stupido. A svolgerlo, nei social, persone che di solito sanno poco o nulla di letteratura; su giornali e riviste – digitali o cartacee – truppe formate perlopiù da critici-scrittori (che da colleghi scrittori verranno a loro volta recensiti, all’insegna del «nessuno deve farsi male» se non del «quanto sei bravo, no sei meglio tu»), oppure da tuttologi che non dispongono degli strumenti critici, e che perciò non potrebbero approfondire nemmeno se volessero (e comunque di solito non vogliono). Ogni tanto un’infornata di dilettanti malleabili prelevata dalla rete, o dalla società civile (altra bella analogia con la politica). I critici-critici risultano decimati, un po’ certo dai limiti della loro brillantezza, ma molto e soprattutto dalla diffidenza diffusa per la perizia tecnica, oltre che dalla deriva schizofrenica che oggi minaccia l’altra specialità della critica, i giudizi di valore. In rete, si sa, vige una polarizzazione estrema, selvaggia, tra entusiasmi irrefrenabili e liquidazioni senza appello (facce opposte della stessa umanissima ma deplorevole esigenza: farsi notare). Su giornali e riviste e negli inserti culturali prevale invece un tono da segnalazione cordiale, un’attitudine accogliente più che riflessiva, pochissimo polemica, partecipe semmai di quella che mi sembra, oggi, la passione dominante del nostro mondo culturale: evitare inimicizie, fare rete, piacere a tutti. Indirizzo condiviso di questa critica affettuosa e depotenziata è raccontare un’esperienza personale e appagante di lettura – non sforzarsi di capire com’è fatto un libro, o intuire qualcosa che lo scrittore non sa di averci messo. Obiettivo comune non è tanto rendere al lettore un buon servizio, ma faire beau, dribblare sgradevoli conflitti, tirare la carretta (rassicurando gli scrittori, direi, prima ancora che lettori e inserzionisti). Diretto o indiretto, l’invito che i vari comparti dell’industria culturale rivolgono ai critici rimasti è valorizzare quanto di molto o poco c’è di buono in giro, senza turbare gli equilibri generali. Quindi, in sostanza, senza stroncare; come se scrivere o leggere un libro, anche se mediocre o conformista, fosse un esercizio virtuoso di per sé, o un modo come un altro per far girare l’economia.

In un clima come questo non stupisce che un’istituzione culturale antica e prestigiosa come il Gabinetto Vieusseux di Firenze, recuperando la sua originaria vocazione al confronto vivace su temi culturali d’attualità, abbia organizzato e da poco inaugurato un ciclo di incontri con critici letterari intitolato «Stroncature». Reazione comprensibile e in fondo salutare; anche se forse non è tanto di stroncature, cioè di aggressività, che lettori e scrittori hanno bisogno, quanto, a mio parere, di un dialogo vero e sincero con la critica, fuori – per tutti – dalle rispettive zone di conforto. Basta darsi pacche sulle spalle, perché non ricominciamo a discutere da adulti, nel rispetto reciproco ma con un po’ di serietà? La letteratura in senso forte si è sempre nutrita della buona critica, la quale senza grande letteratura non può esistere; i lettori attenti formano lo spazio intermedio in cui questo scambio virtuoso avviene e acquista senso. Servono più che mai onestà intellettuale, disponibilità all’ascolto, voglia di capire e magari di cambiare – se ci si sente autentici lettori e non semplici followers, degli altri e di se stessi.

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