Pasquale Panella compie 75 anni, e va benissimo che l’Italia non gli dedichi festeggiamenti, targhe, medaglie: è un silenzio coerente con l’indole del personaggio. Del resto, per festeggiarlo degnamente bisognerebbe conoscerne l’Opera, che è dispersa tra poesie, poemetti, racconti e, soprattutto, testi di canzoni (abbiamo scoperto dopo, per esempio, che era di Panella il testo di Barbara, la canzone di Enzo Carella che, bambini, ci ha fatto tanto ridere in un Sanremo di un secolo fa): bisognerebbe leggere, approfondire, riflettere sulle rare interviste, ma poi il tempo manca sempre e sempre si torna lì, ai cinque dischi ‘bianchi’ realizzati insieme a Lucio Battisti dal 1986 (Don Giovanni) al 1994 (Hegel): Battisti la musica, lui le parole.
Delle parole, Battisti non sembra essersi mai dato molto pensiero. È vero, non mancano i cantautori che hanno messo in musica anche testi scritti da altri: agli inizi, persino due poi bravissimi e originalissimi come Conte e Dalla, oppure Battiato con Sgalambro. Ma Battisti ha sempre delegato i testi delle sue canzoni ad altri parolieri: prima a Mogol, poi alla moglie (nell’album E già), quindi appunto a Panella. Più che un cantautore era un musicista, un genio versato in quel particolare genere musicale che è la forma-canzone: e parte del genio è consistita nel non avventurarsi in generi limitrofi, come hanno fatto alcuni suoi colleghi inutilmente ambiziosi: sinfonie, musical, opere rock.
Ora, tra «Mi ritorni in mente, / bella come sei, / forse ancor di più. / Mi ritorni in mente, / dolce come mai, / come non sei tu», che è Mogol-Battisti del 1970, e «Mi sto accorgendo che son giunto dentro casa, / con la mia cassa ancora con il nastro rosa, / e non vorrei aver sbagliato la mia spesa / o la mia sposa», che è Mogol-Battisti di dieci anni dopo, c’è già una valle abbastanza profonda, le romanticherie sono lontane e si è fatto più di un passo nella surrealtà. Ma la valle diventa un abisso, uno sprofondo, sei anni dopo, quando il fan di Battisti mette sul giradischi (o era già un lettore CD?) l’album Don Giovanni e inizia ad ascoltare la prima canzone, Le cose che pensano: «In nessun luogo andai, / per niente ti pensai / e nulla ti mandai / per mio ricordo. / Sul bordo m’affacciai / d’abissi belli assai. /Sul dolce tedio a sdraio, / amore, ti ignorai, / e invece costeggiai / i lungomai». I passati remoti, il tedio a sdraio, i lungomai: niente e nessuno ci aveva preparato a questa roba.
Quando uscì Don Giovanni avevo quindici anni e avevo già fatto esperienza di ‘letteratura che non si capisce perché deliberatamente non vuole farsi capire’, sapevo già che la poesia obbedisce a un regime di regole diverso da quello cui obbedisce la prosa; e sapevo che a loro volta i cantautori più raffinati – Dylan, De Gregori – avevano provato a modellare il loro linguaggio su quello della poesia, a prendersi le libertà e i rischi che nel Novecento si erano presi i poeti. Ma Panella era un’altra cosa.
Mi piacerebbe dire che capii subito che quest’altra cosa era un capolavoro, ma non andò così. I cinque dischi bianchi sono usciti nell’arco di poco meno di un decennio, l’ultimo, Hegel, quando io avevo 23 anni. A quell’età credo che il Concetto abbia perlomeno cominciato a penetrare la mia mente di sbadato ascoltatore di pop, ma la verità è che ci sono arrivato davvero solo molto più tardi – come tanti, credo. Adesso che ho visto la luce penso che le 5×8=40 canzoni dei dischi bianchi siano quasi tutte bellissime (qualche remora sul quarto, CSAR), e che in generale la collaborazione Battisti-Panella sia stato uno degli eventi più importanti nella storia della musica leggera italiana. Inondato da questa luce, ho smesso di pormi le domande che affaticano i non ancora convertiti: se la musica di Battisti sarebbe altrettanto bella senza le parole di Panella, o se le parole di Panella le pronunciasse un altro; e se le parole di Panella ‘reggerebbero’ anche senza la musica di Battisti. Che volgarità, le ipotesi. Ho anche smesso di domandarmi ‘che cosa vuol dire’ questa o quella canzone, anzi di proposito, quando le ascolto, cerco di evitare di collegare i vari pezzi, nel timore che si manifesti di colpo un intero, e la poesia dei frammenti venga vanificata dal ragionamento, dal racconto. Preferisco non sapere se parlano di qualcosa o di niente, così le consumo a segmenti, a quadri (un po’ come – è l’unico paragone che mi venga in mente – le performance di Antonio Rezza).
E dunque: quadri preferiti, in ordine casuale. (1) L’inizio dell’Apparenza: «Quindi facendo finta che non sai parlare / ti metti un dito in bocca, l’anulare». (2) Un po’ dopo, sempre nell’Apparenza, lei che preme l’interruttore di uno di quei vecchi mappamondi che s’illuminano: «Tiri con gli occhi chiusi sull’atlante, / l’indice come un pulsante, / accendi una nazione in cui mi sa / che a quest’ora è notte piena / o molto nuvoloso». (3) La fine di Almeno l’inizio: «Perché di te, già cibata, / non è di calore che hai bisogno / ma di un orgoglioso refrigerio». (4) In Per altri motivi, la strofa che dice «Avrei una voglia un taglietto d’affetto. / Cosa sento? Ma niente: / un affetto non si prova, s’indossa direttamente. / Ah, come siamo vili, / come tutto accade per tutt’altri motivi!». (5) La strategia di corteggiamento spiegata in La sposa occidentale: «Ti piacciono i dolci: / ed io sul tuo terrazzo impianto / un’impastatrice industriale / che mescola e sciorina la crema per le scale». (6) Il registro di classe sciorinato, sì, sciorinato all’inizio di Equivoci amici: «Cassiodoro Vicinetti / Olindo Brodi, Ugo Strappi / Sofio Bulino, / Armando Pende / Andriei Francisco Poimò» (ma chissà se i nomi sono quelli…). (7) Il doppio nonsenso di Hegel: «Un bacio dai bei modi grossolani / sfuggì come uno schiaffo senza mani». (8) I passeggeri della metro che in La metro eccetera cercano di incrociare lo sguardo di una ragazza molto bella che è appena salita: «Si fa la trigonometria / nei finestrini corrispondenti agli occhi alessandrini / di lei che guarda fissa un suo sussulto fuso nel vetro / che le ricorda tanto un suo sussulto». (9) Questi versi dei Ritorni: «E lo scandaglio calava dalle prore / poi ritornava su / chiedendosi “Perché, perché il ritorno?”». Ma quasi tutto; tutto.