Cultura e società

Un tasto per morire

Il Mulino 4 (2024)2 Dicembre 2024

On that green evening when our death begins

Oh Larkin, ho 53 anni, anche se mi pare incredibile, ho letto per la prima volta questo verso tanti anni fa, quando sembrava che non potesse riguardarmi, e adesso eccola la mia verde sera, adesso un pensiero ogni due riguarda la morte – quella dei miei familiari, degli amici più anziani che a poco a poco se ne vanno, la mia. Bisognerà affrontarla con serietà, anche con stoicismo. Solo che prima di morire bisognerà invecchiare, e qui serietà e stoicismo rischiano di essere inoperanti perché, se si paragonano la vita di ieri e quella di oggi, la morte è rimasta più o meno la stessa, mentre l’invecchiare no.

Le meditazioni sulla vecchiaia sono un genere letterario che ha duemila anni di storia, un genere che tratta del tema più genericamente, più intimamente umano che c’è: perché dall’inizio dei tempi tutti gli esseri umani, se non muoiono prima, invecchiano. Come non confidare in questo patrimonio di saggezza? Ma il fatto è che né la vita né le nostre umane aspettative sono rimaste le stesse: qualcosa è cambiato, molto è cambiato specie nell’ultima frazione di questi duemila anni, a partire dalla generazione dei nostri bisnonni. Nel De senectute, Cicerone spiega ad Attico che non c’è nessun bisogno di preoccuparsi perché la vecchiaia è, semplicemente, un’altra età della vita, e un’età piena di bellezze: le buone letture, la conversazione con gli amici, la cura dei campi; basta continuare a camminare sulla strada della virtù: «Le armi in assoluto più idonee alla vecchiaia, cari Scipione e Lelio, sono la conoscenza e la pratica delle virtù che, coltivate in ogni età, dopo una vita lunga e intensa, producono frutti meravigliosi non solo perché non vengono mai meno, neppure al limite estremo della vita, ma anche perché la coscienza di una vita spesa bene e il ricordo di molte buone azioni sono una grandissima soddisfazione».

Millequattrocento anni dopo, nel solco di una tradizione cristiana che insegna a disprezzare il mondo, Petrarca scrive ai suoi amici che è felice di essere arrivato alla vecchiaia perché finalmente si è liberato dal morso delle passioni. Sta bene (aveva 62 anni), ma se anche la sua salute peggiorasse sopporterebbe con serenità gli inconvenienti dell’età: «Forse che secondo il consiglio di Seneca “mi getterò fuori da un edificio putrido e in rovina” (Epist. lviii 35)? Stia lontana da me una simile pazzia […]. Sembra a loro con la morte volontaria quasi come con una scorciatoia di evitare la violenza della malattia […] e non si accorgono di quanto ciascuno sia più ingiurioso a sé stesso con questa decisione di quel che è la sua sorte a lui; quella infatti non infligge nulla che vada oltre la morte temporale, questi si infliggono la morte eterna»[1].

C’è ancora qualcuno che è disposto a lasciarsi persuadere da questa antica saggezza? Si direbbe che i moderni abbiano perso sia la serenità degli stoici sia, con le parole usate da Jean Améry nel più bel libro che io conosca sull’invecchiamento, Rivolta e rassegnazione (Bollati Boringhieri, 2013), «l’assurda speranza di una vita dopo la morte» che nutrivano i cristiani. D’altro canto, i progressi della medicina e dell’igiene hanno alleviato le pene dei corpi (salvo cronicizzarle, a volte) ma hanno aggravato il fardello delle anime, perché hanno finito per far sembrare innaturale, e quasi sconcia, quella cosa naturalissima che è il diventare vecchi. Contro l’invecchiamento bisogna lottare, indefinitamente.

Ma se non c’è limite possibile alla cura di sé, la cura di sé diventa una prigione, sia per chi ci sta dentro sia per chi cerca di starne fuori. Lasciarsi andare, arrendersi, accettare il declino, ingrassare, vestirsi come viene, mangiare quel che capita non è più socialmente tollerato. Ed è poi questo, soprattutto, che ci rende oramai stranieri sia i saggi consigli di Cicerone sia l’invito della religione a pensare all’anima: la nostra età viene vissuta, giudicata, dissimulata in pubblico; esistono delle convenzioni, delle attese, un decoro da mantenere: per questo si va in pellegrinaggio a quei santuari del decoro che sono le palestre, le cliniche. Ma è la corsa del topo, e comincia sempre prima. Così la protesta contro l’invecchiamento diventa una protesta contro la vita, contro ciò che la vita sembra togliere senza dare niente in cambio: «Invecchiando – scrive Améry – non si diventa più belli, né più agili, e nemmeno più intelligenti […]. Chi invecchia diventa brutto: brutto è ciò che si odia. Diventa debole, il che nel linguaggio corrente equivale a esprimere una valutazione di merito o meglio di demerito».

Bruttezza e debolezza: non sono stati sempre, questi, i mesti doni della vecchiaia? Ma erano doni che venivano elargiti a pochi, perché diventare vecchi era il destino di una minoranza: un tempo – un tempo molto prossimo a noi – nessuno, alla nascita, poteva aspettarsi di vivere ottant’anni. Novanta, cento erano numeri da patriarca biblico. A un certo punto dei suoi viaggi, Gulliver sbarca sull’isola di Luggnagg, e qui trova che alcuni dei suoi abitanti godono del beneficio di essere Struldbrugg, cioè immortali: nascono con una «macchia rossa e rotonda fronte, precisamente sopra il sopracciglio sinistro», e questo è «segno infallibile che colui non sarebbe mai morto»[2]. Che genìa fortunata, esclama Gulliver, quella che grazie a questo straordinario favore del destino accumula sempre nuove esperienze, e conoscenze, e ricchezze, come piacerebbe anche a lui nascere Struldbrugg! «Felici al di là di ogni confronto codesti eccellenti Struldbrugg, che, nati esenti dall’universale afflizione dell’umana natura, posseggono menti libere e sciolte, senza il peso e la prostrazione dello spirito per il continuo timore della morte!». Solo che le cose non stanno come se le figura Gulliver.

Gli Struldbrugg non muoiono, ma neppure rimangono giovani in eterno: invecchiano fino alla decrepitezza, fino all’evanescenza, accumulando infiniti dolori e afflizioni: «Quando poi [gli Struldbrugg] raggiungevano gli ottant’anni, età ritenuta in quel paese il limite estremo della vita, non avevano soltanto tutte le follie e le debolezze degli altri vecchi, ma molte altre prodotte dalla terribile prospettiva di non poter mai morire: e non erano soltanto cocciuti, stizzosi, avidi, tetri, vanitosi, ciarlieri, ma altresì incapaci d’amicizia e morti a ogni affetto naturale: che del resto non estendevano mai oltre i figli dei figli». La vita eterna è la più crudele delle torture, e infatti Swift conclude: «Il lettore potrà facilmente credermi se dico che la mia ardente brama d’una vita perpetua si placò alquanto, in conseguenza di ciò che udii e vidi».

Per Swift, che viveva in un’epoca in cui l’aspettativa di vita non arrivava ai quarant’anni, si trattava di un’invenzione fantastica alla stregua dei microscopici abitanti del paese di Lilliput. Non poteva immaginare che i lettori del Duemila l’avrebbero letta come un annuncio della distopia nella quale loro si sarebbero trovati a vivere. Oggi, nelle RSA, legioni di sessantenni già malfermi sulle gambe fanno visita a legioni di ottuagenari e nonagenari, i loro genitori, che hanno perso il controllo della loro mente e del loro corpo; patrimoni interi si bruciano nello sforzo di medicare senescenze che si prolungano per anni, per decenni; e i ricordi felici della vita passata insieme evaporano di fronte ai volti devastati di persone care che ‘non sono più loro’.

*

Giorno dopo giorno, Philip Larkin ebbe non davanti agli occhi, perché abitavano in città diverse, ma a portata di lettera e di telefonata, ed erano lettere e poi telefonate giornaliere, la lentissima decadenza fisica e psicologica della madre Eva, che amava molto. «Mia madre, non contenta di essere paralizzata, sorda e muta, adesso sta diventando cieca. È quello che ti tocca come premio per non morire»[3]. That’s what you get for not dying. Questa lettera all’amico Kingsley Amis è del 1977, la madre aveva 91 anni, sarebbe morta pochi mesi dopo; ma le cose avevano cominciato ad andare male molto prima. Come accade, le nevrosi si erano accumulate negli anni. Il marito era morto a 64, quando lei ne aveva 62. Philip era andato a Oxford a diciott’anni e non era più tornato a vivere stabilmente con i genitori. La figlia Kitty si era sposata nel 1944. Rimasta sola, la vita di Eva si era rimpicciolita. Era diventata preda di manie irrazionali: ansie per il rubinetto del gas, per la luce, paura di dormire da sola, terrore dei temporali; e poi i malanni fisici che Larkin elenca quasi divertito a Kingsley Amis. Niente di peggio di quello che la vita riserva a tanti, s’intende: ma non è una constatazione che potesse consolarlo, o che possa consolare chi attraversi questo genere d’esperienza.

La paura della morte, l’ossessione per la morte, «quella cosa – ha scritto il figlio di Kingsley, Martin Amis – che colpisce il resto delle persone verso i quaranta-quarantacinque anni, Philip ce l’ha sempre avuta. Non ha mai fatto niente per superarla (all’epoca non si faceva niente per superare certe cose)»[4]. È così, l’ossessione dell’uomo era questa. Ma la specialità del poeta era l’angoscia del diventare vecchi. Di fatto, se si leggono le lettere di Larkin in ordine, anno dopo anno, le riflessioni sull’invecchiamento sono molto più numerose e più amare di quelle sulla morte. A ogni decennio, poi, 30 40 50 60, torna la coazione a tracciare un bilancio, sempre sconsolato, della poca vita realmente vissuta, e il presentimento della morte. «La vita non ha niente da offrire dopo i cinquant’anni, e dopo i sessanta non vale neanche la pena di pensarci»[5]. Resteranno i ricordi, come dice Cicerone? Solo quelli brutti: «Ah – scrive alla sua compagna Monica Jones – non parlare delle nostre vite e dell’orribile passaggio del tempo. Lo so per certo: non ci sarà niente di bello a cui tornare col pensiero. Non ci sarà che rimorso e rimpianto non solo per non aver saputo fare i soldi ma anche per non aver trattato gli altri in modo decente[6].

Amis osserva che Larkin scriveva cose così deprimenti all’età di 34 anni, e gli paragona una pagina di Gogol’ osservando che in quest’ultima è implicita la convinzione che «la vecchiaia dà o può restituire qualcosa: tutte le emozioni umane nella forma del ricordo. Il passato si continua nel presente, specie il passato erotico e romantico (e un senso di giovinezza persiste, rinfrescato dalla giovinezza dei propri figli»[7]. Vero, e del resto non è detto che la vecchiaia sia apprezzabile solo in quanto contenitore di care memorie.

Pochi anni prima di morire, John Updike ha scritto per il «New Yorker» un articolo sui romanzi di Houellebecq. L’articolo finisce con una citazione dalle Particelle elementari. Uno dei protagonisti del romanzo osserva che la sua desolata visione della vita, una vita segnata dalla «tendenza a confondere la felicità con il coma», non è affatto cinica ma soltanto onesta, incredibilmente onesta «in relazione alle norme correnti dell’umanità». Ma – ribatte Updike – «quanto è davvero onesta una descrizione del mondo che esclude i piaceri dell’essere genitori, i conforti della vita comunitaria, l’esercizio quotidiano della curiosità, e la responsabilità morale di trarre il meglio da tutti gli stadi della vita, l’ultimo incluso?».

Oh sì, ci sono i figli, i nipoti, il lavoro ben fatto, i libri, gli amici, i vecchi film, le novità che il mondo moderno produce a getto continuo. Certo che è così, per qualcuno. Larkin però non aveva né figli né nipoti, non amava la sorella, non aveva – almeno da un certo momento in poi – veri amici: «corrispondenti, colleghi, conoscenti, ma non veri amici»[8]. Il lavoro era una pena, e una pena non per modo di dire: non credo ci siano molti poeti che abbiano scritto poesie contro il lavoro, o che si siano inventati una metafora come quella del rospo – the toad-work – per dipingere la fatica e la noia del lavoro. Inoltre, aveva scommesso tutto, l’intero suo progetto di vita, sulla scrittura, ma col passare degli anni quell’ambizione, almeno a suo giudizio, era stata frustrata: fa una fatica enorme a scrivere, e ciò che scrive non è all’altezza dei suoi desideri. Sin dagli anni Cinquanta, quando ha un po’ più di trent’anni, le lettere sono un lamento continuo perché la musa della poesia l’ha abbandonato.

Insomma, non ha molto senso metterla sul piano dell’onestà o della disonestà come fa Updike, perché la verità è che non contano le cose ma il diverso modo in cui ciascuno di noi guarda alle cose: tutto è soggettivo, anche quei fatti supremamente oggettivi che sono la vecchiaia e la morte, e Larkin non sembra essere mai riuscito a compiere quell’inconsapevole esercizio di rimozione e nascondimento che gli adulti compiono per gran parte della loro giornata, della loro esistenza, magari con l’aiuto dei palliativi elencati da Updike. Da un lato si può dire che Larkin ha sempre avuto ragione, che ha sempre saputo guardare senza infingimenti ai veri, invalicabili confini della vita umana che sono la malattia, la senescenza, la morte; dall’altro, che questa sensibilità ai mali della vita – una sensibilità che non sembra potesse essere addolcita neppure da pause di momentaneo oblio, come accade alle persone normali – gli ha impedito di trovare negli altri quel genere di consolazione che gli altri (amici, figli, amanti) possono davvero dare. Non poter mai chiudere gli occhi, vivere ogni attimo senza illusioni: ecco una lucidità che dev’essere atroce possedere.

Come che sia, questo genere di angoscia ispira quella che è forse la più nera delle sue poesie, The Old Fools [9]:

Cosa pensano sia stato, i vecchi rimbambiti,
a ridurli in questo modo? Credono forse che sia
un contegno più adulto aprire la bocca e sbavare,
e pisciarsi addosso e non ricordarsi più
chi ha chiamato stamane? Oppure che, se solo volessero,
potrebbero tornare indietro a quando ballavano tutta la notte,
o a quando si sono sposati, o hanno fatto spallàrm un settembre di tanti anni fa?
O pensano che niente davvero sia cambiato,
e che si sono sempre comportati come se fossero storpi o paralitici,
e hanno sempre passato i giorni in un unico labile sogno
guardando la luce passare? Se non è così (e così non può essere), è strano:
perché non strillano?

Quando muori, vai in pezzi, e i pezzi che erano te
si allontanano l’uno dall’altro per sempre,
e nessuno vede. È vero, è solo oblio:
lo abbiamo già avuto, ma allora era destinato a finire,
e per tutto il tempo si è mescolato all’impegno vòlto
a far schiudere quel fiore da un milione di petali che è
l’essere qui. La prossima volta non potremo fingere
che ci aspetti qualcos’altro. E questi sono i primi segni:
non sapere come, non sentire chi, il potere
di scegliere svanito. Il loro aspetto mostra che sono d’accordo:
capelli di cenere, mani da rospi, i visi come prugne secche –
come possono ignorare tutto questo?

Ecco quello che ci aspetta, all’altro capo della «verde sera in cui comincia la nostra morte»… Perché non gridano, questi vecchi rimbambiti? Come possono ignorare quello che la vita ha fatto dei loro corpi e delle loro menti, e soprattutto come fanno a non vedere il niente che li aspetta? Sono domande retoriche, sberleffi ai danni di poveretti indifesi. Ma questo modulo retorico è una spia. In Larkin c’era un’autentica stupefazione per la capacità che gli uomini hanno di ingannare sé stessi, e più di tutto di coprire con un velo la morte e le sue avanguardie: le malattie, la vecchiaia. «Why don’t chaps think about death more?», scrive a Kingsley Amis, «I can’t hannerstend it»[10].

Si potrebbe immaginare che questo velo d’ignoranza venga sollevato quando la morte è a un passo, in modo da vivere almeno gli ultimi istanti della vita con gli occhi aperti, invece no. Con il vuoto attorno a noi, non dovremmo più poter distrarre lo sguardo, non dovremmo più poter fingere di non vedere e di non sapere; ma ecco che una provvidenziale demenza ci opprime salvandoci dalla verità. Ora gli old fools vedono «the peak that stays in view wherever we go», ma non comprendono più:

Forse essere vecchi è come avere stanze illuminate
nella testa, e gente che le abita, e ci si muove dentro.
Gente che uno conosce, ma a cui non sa dare un nome; tutti incombono,
come gravi perdite risarcite, da familiari porte girevoli:
sistemano una lampada, sorridono dalla scala, prendono
un libro noto dallo scaffale; o a volte solo
le stanze stesse, le sedie e il fuoco acceso,
e alla finestra la siepe agitata dal vento, o la calda
luce del sole sul muro, in una qualche solitaria
sera di mezza estate, dopo la pioggia. Ecco dove vivono:
non qui e ora, ma là dove tutto è successo una volta.

Ecco perché hanno
quest’aria di sconcertata assenza: vorrebbero essere là
ma sono qui. Perché le stanze si fanno via via più grandi
e piene d’incosciente gelo, e la costante usura
del respiro, e loro stanno lì, accovacciati sotto
l’alpe dell’estinzione, i vecchi rimbambiti, senza capire
quanto ormai sia vicina. Dev’essere questo che li tiene calmi:
la vetta che, ovunque andiamo, abbiamo sempre davanti agli occhi
per loro è una strada che sale. Davvero non capiscono
che cosa li trascina all’indietro, e come finirà? Neppure di notte?
Neppure quando arrivano degli sconosciuti? Mai,
in tutta la loro orribile invertita infanzia? Be’,
lo scopriremo presto.

(Well, / we shall find out. Invece no, Larkin è morto prima di scoprirlo, a sessantatré anni, per un cancro all’esofago).

Chi non ricorda la consolazione dei saggi? La morte è come il tempo che precede la nascita: la stessa condizione di non essere. Già, ma mentre il non-essere prenatale prelude allo sbocciare del «fiore dai milioni di petali dell’essere qui» (quando pensa alla felicità, l’immaginazione di Larkin corre spesso al mondo vegetale), il non-essere della morte non ha fine, e l’ottundimento della vecchiaia non è se non il vestibolo che ci porterà a quella stanza eternamente buia dalla quale non usciremo mai più.

*

Mia zia Franca avrebbe voluto avere un tasto per morire. «Se esistesse un tasto per morire subito, senza dolore – diceva – lo premerei subito». Lo diceva a quarant’anni, davanti a quell’uomo cattivo che era suo marito, e a noi familiari. Nel suo ceto sociale, la depressione non veniva diagnosticata, e la crudeltà mentale dei mariti era uno dei naturali inconvenienti che venivano col matrimonio: lei era solo «la zia stupida» che diceva cose inopportune senza pensarci troppo.

Era l’inizio degli anni Novanta, non sapevamo che più o meno le stesse cose, articolate meglio (ma riferite ai vecchi, non alle quarantenni disperate), le aveva appena dette un giudice della corte suprema olandese, Huib Drion, in un articolo uscito nell’ottobre del 1991 sul quotidiano NRC. L’articolo comincia così:

Mi sembra chiaro che molti anziani proverebbero grande serenità se avessero a disposizione un mezzo per lasciare la vita in modo accettabile nel momento in cui, considerando quello che li attende, ritengono che ciò sia opportuno. Naturalmente, la nostra società offre già molti strumenti attraverso i quali le persone possono porre fine alla propria vita: ci sono treni sotto cui ci si può gettare, edifici dai quali ci si può buttare giù, canali e fiumi in cui ci si può annegare, corde che si possono acquistare, e mi fermo qui. Ma questi mezzi non sono molto attraenti: né per chi li deve usare né per la società in cui vive.

No, osservava Drion, dopo i settantacinque anni le persone dovrebbero avere la possibilità di porre fine alla propria vita in modo meno traumatico, più umano. Come? Non premendo un tasto, come pensava mia zia, ma inghiottendo una pillola, anzi due pillole: una prima ‘preparatoria’, non letale; e una seconda letale, da assumersi a debita distanza dalla prima, per consentire all’aspirante suicida di ripensarci, se intendeva farlo.

La ‘Pillola di Drion’ non è mai stata introdotta nel sistema sanitario olandese, né in quello di altri paesi: è chiaro però che gli argomenti di Drion sono coerenti con (e forse hanno contribuito a preparare) la ultraliberale legislazione sull’eutanasia che vige in paesi come l’Olanda e il Belgio. Ed è possibile che a Drion abbiano pensato gli sceneggiatori del film Plan 75, in cui si immagina che in un futuro molto prossimo il governo giapponese, attraverso una pressante moral suasion, incoraggi gli anziani a togliersi la vita dopo il settantacinquesimo anno d’età. Solo che Plan 75 pone la questione in maniera scorretta, perché qui i candidati al suicidio non sono né gravemente malati né decrepiti. Una è una settantottenne ex operaia, ex donna delle pulizie rimasta da sola, e povera; l’altro è un ex operaio rimasto anche lui senza affetti e senza soldi. Per loro, il suicidio assistito non è una scelta veramente libera: si uccidono solo perché non hanno più i mezzi per vivere, ma tutti e due sono ben fermi sulle gambe, mentalmente attivi, di buona conversazione, cucinano, leggono, vanno anche al bowling se qualcuno li invita. Sono solo un po’ lenti e un po’ tristi, e hanno finito i soldi.

Il suicidio assistito come ultimo dispositivo del capitalismo? Ma no, perché è chiaro che queste persone non devono morire (e del resto non si suicidano, ma a settant’anni, anche gli abitanti del terribile mondo pre-capitalista raccontato da Fukazawa Shichirō nelle Ballate di Narayama?). Non loro. Ma gli ottantenni malati terminali, i novantenni spossati, i centenari che per usura si spengono lentissimamente tra orribili dolori fisici e psicologici, e interrogati su «come va?» rispondono «Meglio di ieri, un giorno in meno da vivere», e se non lo dicono (ma lo dicono) è solo perché non riescono ad articolare il pensiero che hanno nello stomaco – tutti questi perché non dovrebbero aver diritto a un piano di fuga? Scrive Drion:

Quando si incontra una persona ragionevolmente felice di sessant’anni, e si sente che a trent’anni ha tentato il suicidio, si pensa: «Che fortuna che quel tentativo sia fallito!». Ma entrate in una casa di cura per visitare un famigliare o un amico: chi, in mezzo a quelle persone vecchie, impotenti, che stanno in silenzio in un angolo fissando il vuoto o mormorando cose incomprensibili, spesso incapaci di mangiare da sole, dipendenti dai loro assistenti per tutte le loro necessità, a chi verrebbe in mente di pensare: «Meno male che nessuno di loro ha avuto l’opportunità, in passato, di porre fine alla sua vita»?

Dunque perché non autorizzare la pillola di Drion, il tasto per morire? Perché la vita è sacra? Perché autorizzando, facilitando il suicidio si introdurrebbe un principio potenzialmente distruttivo sul piano sociale?

Qui s’incontra il nucleo ideale del problema, che riguarda non altro che la libertà di disporre di sé. La vita è sacra? Per molti, ma non per tutti. La vecchiaia è un’età benedetta? Per molti, ma non per tutti: per Updike, non per Larkin. E perché, allora, quei molti che mai ricorrerebbero alla pillola di Drion dovrebbero impedirne l’uso a quei molti o a quei pochi che invece accetterebbero di servirsene per uscire da una condizione che gli ripugna? A quegli spiriti stoici, o disperati, che a un certo punto vorrebbero, come diceva Seneca, «saltare fuori da un edificio marcio e in rovina»? Come la droga, anche la morte dovrebbe essere liberalizzata.

E chissà, forse oltre a cancellare le pene della vecchiaia la pillola di Drion renderebbe anche più seria la vita. Perché Larkin aveva ragione: non nel senso che bisogna essere ossessionati dall’idea della vecchiaia e della morte, ma nel senso che è giusto, è persino salutare pensarci. Invece è accaduto che, allontanando dalla nostra esperienza quotidiana ciò che è malato, vecchio, morente, ne abbiamo anche rimosso il pensiero: e alla vecchiaia e alla morte tanti arrivano disorientati, inermi. Sapere che la vita e la morte sono realmente nelle nostre mani, che giunti a una certa età occorrerà prendere l’iniziativa, decidersi per l’una o per l’altra, potrebbe non dico renderci tutti saggi, ma almeno un po’ meno fatui: un esercizio spirituale al quale nessuno potrebbe sottrarsi. Certo, per la pillola di Drion ci vuole parecchio coraggio: parecchio, ma meno di quello che ci vuole per buttarsi sotto un treno o dalla finestra, o annegarsi in un fiume, o impiccarsi. E non sarebbe bello congedarsi dal mondo con un atto di libertà e di coraggio, anziché spegnersi lentamente nel disfacimento del corpo e della mente? Tutto sta a vedere se lo avremmo, questo coraggio: se lo avremo. Well,

we shall find out.

 

 

[1] Francesco Petrarca, Res seniles, Libri v-viii, a cura di Silvia Rizzo, con la collaborazione di Monica Berté, Firenze, Le Lettere 2009, p. 315 (viii 2).

[2] Jonathan Swift, I viaggi di Gulliver, Milano, Feltrinelli 1997, p. 201.

[3] Lettera a Kingsley Amis del 25 ottobre 1977: Selected Letters of Philip Larkin 1940-1985, edited by A. Thwaite, London, Faber & Faber 1993 (= SL), p. 571.

[4] Martin Amis, La guerra contro i cliché. Saggi letterari, Torino, Einaudi 2014, p. 105.

[5] Lettera a Andrew Motion del 3 febbraio 1985: SL, p. 730.

[6] Lettera del 27 settembre 1956, in Letters to Monica, edited by A. Thwaite, London, Faber & Faber 2011 (= LM), p. 207.

[7] Martin Amis, The Rub of Time, London, Jonathan Cape 2017, p. 61.

[8] Amis, The Rub of Time, p. 59.

[9] Traduco da The Complete Poems of Philip Larkin, edited by A. Burnett, London, Faber & Faber 2012, pp. 81-82.

[10] Lettera del 3 gennaio 1982: SL, p. 662.

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