Una rivolta di Enrico Prevedello (Nottetempo, 2024) è un bel libro, però leggendolo, specie la seconda parte, viene in mente che alla forma del memoir-reportage, che è quella scelta dall’autore, sarebbe stata forse preferibile quella del romanzo, o dell’inchiesta a più voci, o insomma qualcos’altro.
Verso la fine del secolo scorso molti veneti hanno cominciato a desiderare ardentemente l’autonomia dallo Stato nazionale; e un numero più piccolo ha cominciato a pensare non all’autonomia ma addirittura all’indipendenza. Poi a un certo punto un piccolo contingente di questa minoranza ha, come si dice, preso le armi. Armi da poveretti: un vecchio carrarmato più che altro dimostrativo, al limite del buffonesco, qualche fucile, qualche bomba nascosta nei capannoni.
È stata anche una farsa. Ma non è stata soltanto una farsa. I più radicalizzati, come si direbbe oggi, hanno dato simbolicamente l’assalto al campanile di San Marco, sono stati processati e condannati per reati gravi, sono finiti in prigione. E del resto non si può dire che la loro protesta, alla lunga, anche se in modi stravolti, non abbia dato frutti.
Tra questi pionieri e martiri dell’indipendenza veneta c’era il commerciante Luciano Franceschi, che viveva nello stesso paese di Prevedello, Borgoricco. Una rivolta è la sua storia, ricostruita combinando ricordi personali dell’autore e pagine del diario di Franceschi. Il quale, esasperato per le tasse e il mancato rinnovo di un fido, nel 2013 ha sparato (involontariamente, ha sostenuto) al direttore della banca di Campodarsego (Padova) Pier Luigi Gambarotto e si è fatto la sua dose di prigione, dose che è via via aumentata a causa della sua vocazione alla protesta contro i secondini, i giudici, il ministero della Giustizia, l’Italia.
Prevedello racconta di Franceschi, ma racconta anche di sé e della vita faticosa che si viveva e ancora molti vivono in questo angolino di Veneto. Sono le pagine più ispirate del libro. Prevedello ha riflettuto sul mondo nel quale è cresciuto, e descrive questo mondo con intelligenza e amore. Per esempio, la differenza tra lui – figlio di padre non-imprenditore in un’area di micro-imprenditori, e già vocato agli studi, ai libri – e i compagni è fissata in queste righe in modo insieme esatto e spiritoso:
All’asilo, per questo, ho iniziato a percepire una differenza tra me e la maggior parte dei miei coetanei. Sembravamo cresciuti in mondi diversi: loro sapevano parlare di soldi e dare indicazioni stradali, io mi sentivo in balia del caso. Mentre loro giocavano a fare gli adulti, io giocavo a somigliargli. Un gioco che si faceva volentieri insieme era imitare i quattro dell’A-Team, dal telefilm in cui si sparavano centinaia di mitragliate ma nessuno veniva ferito. Hannibal, il capo, lo faceva A.B., un biondino tarchiatello che era il fulcro dei bulleggi; P.E. Barakus lo faceva A.T.: il più alto e meno espressivo del gruppo, di poche parole tranne quando si trattava di trattori, era figlio di contadini, e i suoi vestiti avevano l’odore dei soldi.
Chiuso il libro, però, quella che resta nel lettore è un’impressione di violenza da Far West. Nella porcilaia, i maiali si sbranano tra loro; gli immigrati nei campi lavorano come schiavi; le persone miti soccombono, e Prevedello sembra avere una particolare abilità, o tenerezza, nel ritrarre questi soccombenti. Sullo sfondo della vita violenta che descrive, sono loro le figure che restano impresse nella memoria. Una ragazzina del paese è stata mutilata da un trattore, che le ha troncato il braccio. Un giorno d’estate due anziani la fermano e si mettono a cincischiarla, con l’involontaria crudeltà dell’ignoranza:
[Uno dei due le] prese il braccio tra il polso e il gomito e lo soppesò come fosse un bel pesce morto, mentre diceva all’altro vecchio ’arda qua, a xe ’a putea del brasso. L’altro annuì, constatando che era proprio lei, la bambina del braccio, l’esempio di come l’interazione tra un trattore e gli esseri viventi non passi solo dai campi, e visto che il suo compare non la smetteva di farsi rimbalzare il pesce sulla mano ruvida e callosa lo tirò per una manica, dicendogli dei, dassea stare, perché nel frattempo la bambina si era impietrita e sembrava non respirare, come se prendendole il braccio in quel modo il nonno l’avesse trasformata in un lago. Solo una volta libera riprese a muoversi e salì sull’autobus. Il nonno pescatore disse a voce alta, come per scusarsi, i ga fato proprio un bel lavoro, brai dotori.
Ben adoperata la metafora del «bel pesce morto»; bello, nell’ultima frase, l’imbarazzo del vecchio, che prova ad uscirne con una goffa battuta in dialetto.
Poi, come in ogni villaggio, c’è lo scemo del villaggio, che in questo caso è una scema, l’indifesa, mitissima Lea, che è senz’altro il personaggio più bello del libro, e quello di cui si sarebbe voluto leggere più a lungo le gesta. Profuga istriana, Lea è una povera donna che vive una vita grama, barbonesca, fino a quando per pietà la accoglie in casa proprio la famiglia Franceschi:
Il pericolo maggiore era la possibilità del ritorno di un certo passato: divise e sirene rappresentavano il carcere (in cui [Lea] era stata portata da ragazzina, diceva sempre che non le avevano fatto niente perché era una signorina), e una volta che le proposero di andare in gita a Fiume, per raccontare un po’ dei suoi ricordi, quasi si mise a piangere mentre avvertiva non andate là, vi arrestano, vi portano in carcere, non andateci! Non giudicava mai nessuno (se doveva lamentarsi per una mala parola, usava questa formula: la gente dice che sarebbe meglio comportarsi in modo educato) e quando le chiedevi quanti anni hai, lei diceva mia sorella è più vecchia. Morì in una casa di riposo (non riuscivano più a starle dietro, nascondeva il cibo nei cassetti per darlo ai gatti e la notte usciva scalza a cercarli); Antonia dice che la trovarono morta sul letto, con le ginocchia piegate, e pensa che nella bara l’abbiano messa sul fianco, visto che era anche gobba. Io mi ricordo di lei come di una vecchina diversa da tutte le altre, che camminava come se galleggiasse e sorrideva a me e Arturo che giocavamo a smontare le cose.
Anche la vicenda di Luciano Franceschi è descritta con intelligenza e umanità. Il tipo d’uomo che all’epoca dell’assalto al campanile di San Marco credo di aver liquidato come un fanatico un po’ sciocco assume contorni molto più definiti, e una serietà inattesa: non era fanatico, e soprattutto non era uno sciocco, aveva le sue buone ragioni – come tutti.
Solo che mentre la voce di Prevedello è sufficiente a restituire in maniera così vivace la fisionomia della campagna veneta e dei suoi abitanti, la stessa voce non basta più quando si tratta di raccontare la rivolta. Qui sarebbe stato opportuno da un lato mettere la sordina a certe effusioni sentimentali non proprio convincenti («Mi chiedo a cosa serva questo tipo di dolore. Perché se lo proviamo a qualcosa servirà, come la fame o la pelle che brucia al fuoco: prende forma e si gonfia quando noi sappiamo di essere vivi e sentiamo che gli altri non lo sono più. Forse, dalla ferita aperta in chi resta, esce tutto l’amore che riempie il mondo mentre aspetta di condensarsi attorno a una nuova relazione, a un nuovo incontro tra due persone che non si erano mai viste prima…»: ma passi del genere, fuori tono, s’incontrano spesso nella seconda parte del libro), dall’altro ampliare il repertorio delle testimonianze, parlare con tante altre persone informate o coinvolte nei fatti, come ha fatto per esempio Antonio Franchini nell’Abusivo, che resta il modello insuperato per questo genere di contaminazioni tra autobiografia e cronaca.
Poniamo: si sarebbe letta volentieri la versione del direttore della banca a cui Franceschi ha sparato; o quella degli altri indipendentisti veneti (che fine hanno fatto? Che cosa pensano, oggi?); o dei compaesani che hanno visto Luciano Franceschi trasformarsi in rivoluzionario. Altrimenti l’evento storico, la rivolta, appunto, che dà il titolo al libro, non si vede, non si capisce con la necessaria chiarezza. Oppure, come dicevo, anziché la strada del reportage si sarebbe potuta tentare la strada dell’invenzione, romanzando questo tragicomico fait-divers, facendo parlare ed agire liberamente – la libertà del romanziere, appunto – i personaggi, specie quelli di contorno (in certo modo, lo ha fatto qualche anno fa Paolo Sortino in Elisabeth, con risultati eccellenti). Ma, anziché pensare a quello che si poteva fare, è più sensato rallegrarsi per quel che è stato fatto: un bel libro, di un autore appena trentenne che ne scriverà altri.