Istruzione

La scuola dovrebbe insegnare la virtù?

Il Mulino 2 (2024)

1.

La cosa di cui voglio parlare è antica, e si presenta secondo un ampio spettro di varianti. Una variante estrema, per stupidità e violenza, la incarna uno dei personaggi più antipatici dell’Educazione sentimentale di Flaubert, il repubblicano Sénécal, l’idealtipo del fanatico che non esiterebbe a sterminare gli esseri umani pur di realizzare la giustizia sulla terra. Il suo progetto politico implica anche un punto di vista preciso, e altrettanto fanatico, circa i doveri dell’artista:

Sénécal protestò. L’arte doveva aspirare esclusivamente a moralizzare le masse. Bisognava riprodurre soggetti che spingessero alla virtù, gli altri erano nocivi.

«Ma ciò dipende dall’esecuzione! – gridò Pellerin. – Io posso fare capolavori!».

«Peggio per voi. Non si ha il diritto…».

«Come?».

«No, signore, voi non avete il diritto di interessarmi a cose che riprovo. Che bisogno abbiamo noi di complicate bazzecole, da cui non si può tirare alcun profitto, certe Veneri, per esempio, e tutti i vostri paesaggi? Non ci vedo insegnamenti per il popolo. Mostrateci le sue miserie, invece! Entusiasmateci per i suoi sacrifici! Eh, per Dio, non ne mancano di soggetti: la fattoria, l’officina…».

Come sa chi ha letto il romanzo, Sénécal ricomparirà in una delle ultime pagine del romanzo, in un episodio simbolico: dopo il colpo di stato del 1851, vestito della divisa dei dragoni, lo vedremo affrontare il mite repubblicano Dussardier, e ucciderlo davanti agli occhi di Frédéric:

Ma nei giardini di Tortoni, un uomo, Dussiardier, che dava nell’occhio da lontano per la sua alta statura, stava immobile come una cariatide.

Una guardia che camminava in testa alle altre, con il tricorno sugli occhi, lo minacciò con la spada.

Allora Dussardier, fatto un passo avanti, si mise a gridare:

«Viva la Repubblica!».

Cadde supino, con le braccia in croce.

Un urlo d’orrore si alzò dalla folla. La guardia girò lo sguardo intorno a sé, e Federico, allibito, riconobbe Sénécal.

La variante-Sénécal è naturalmente, come dicevo, una variante estrema. Ma essa affiora nella storia delle idee ogni volta – e le volte non sono poche – che un’ideologia o una religione dichiarano eretica l’autonomia dell’arte e chiedono anzi prescrivono che vengano rappresentati «soggetti che spingano alla virtù». Un uomo come Sénécal si sarebbe trovato a suo agio tanto nella Firenze di Savonarola quanto nella Mosca di Majakovskij, sarebbe stato uno zelatore sia dell’estetica cristiana sia di quella del realismo socialista per come lo si trova descritto nel pamphlet di Sinjavskij: «Le opere del realismo socialista sono varie di stile e di soggetto. Ma in ognuna d’esse in senso letterale o figurato, in forma esplicita o velata, lo Scopo è presente» (Andrej Sinjavskij, Che cos’è il realismo socialista?, Milano, UPC 1966, p. 22). Lo scopo è, come voleva Sénécal, moralizzare le masse, e per raggiungerlo nessun mezzo è più espediente della sostituzione dell’arte con la dottrina.

E oggi? Come si troverebbe nel mondo di oggi, il cittadino Sénécal?

2.

Se mi guardo indietro, la cosa che mi colpisce di più è forse la rapidità del mutamento.

Quando ho cominciato a lavorare al mio manuale di letteratura per il triennio delle superiori, nel 2009, ho dovuto entrare in una macchina che conoscevo poco affrontando una serie di problemi per me relativamente nuovi. Uno dei più complessi è stato questo: ho scoperto che per rispondere ai requisiti della moderna didattica i testi dovevano essere ‘eserciziati’, cioè che alla fine di ogni profilo biografico o brano antologico occorreva aggiungere una serie di esercizi che consentissero di verificare se lo studente aveva capito ciò che aveva letto, se riusciva a riassumere oralmente o per iscritto il contenuto di un determinato brano, e soprattutto se da questo determinato brano era in grado di prendere spunto per considerazioni più ampie sullo stile dell’autore, la sua visione del mondo, nonché – per usare un’espressione un po’ tronfia che molto si usa – sul ‘contenuto di verità’ della pagina che aveva letto (in sostanza: l’antichissima ‘morale della favola’). Vale a dire che esistevano esercizi di semplice comprensione: che cosa vuol dire la tale o talaltra parola, che cosa intendeva dire l’autore con questa espressione; ma poi, superati questi primi ostacoli, si «sollevavano gli occhi dal testo» (è la formula-titolo che usavamo per chiamare questa sezione dell’eserciziario) e si cercava di capire che cosa quell’antico testo diceva a noi lettori di oggi, quale rapporto ci fosse tra quel mondo e il nostro. Capitava che esercizi così concepiti fossero a volte un po’ forzati, semplicemente perché si dà spesso il caso che tra l’oggetto artistico che leggiamo, guardiamo o ascoltiamo da un lato e noi dall’altro non ci sia alcuna implicazione, alcun nesso, se non quello che discende dalla comune appartenenza di chi scrive e di chi legge alla specie umana o alla civiltà italiana.

Dicevo che questo zelo didattico, depositato nella ‘batteria d’esercizi’, mi ha lasciato perplesso, perché ero dell’opinione che l’insegnamento della letteratura dovrebbe mirare più o meno agli stessi obiettivi a cui mirava l’educazione alla retorica nei licei dell’Ottocento: imparare la lingua, a parlarla e a scriverla; e, insieme, sviluppare un gusto per le buone poesie, i buoni romanzi, i saggi ben argomentati, in modo che alla fine della scuola lo studente, cioè l’ex studente, senta ancora il desiderio di leggere. Secondo questo punto di vista la letteratura è dunque da un lato uno strumento, e uno strumento tanto più utile quanto più sono e saranno numerosi nelle nostre scuole gli studenti solo parzialmente italofoni, o nati e cresciuti in un ambiente non italofono, studenti il cui vincolo d’affezione con l’Italia deve ancora consolidarsi, e dall’altro un fine in sé: da un lato è utile leggere buoni modelli di stile per applicare la loro lezione alla lingua che si parla e si scrive; dall’altro, è bene acquisire un po’ di familiarità con la letteratura, cioè con un discorso scritto che ha caratteri diversi da quelli dei discorsi che gli studenti incontrano tutto il giorno soprattutto in rete: messaggi, storie di vita e appunti di diario affidati ai social network nonché, soprattutto, la mediocre o pessima letteratura che viene propagata dai media e dalla rete.

Sempre secondo questo punto di vista, nell’istruzione letteraria si possono perciò considerare meno importanti domande che a scuola e nei manuali scolastici (i miei compresi) si pongono spesso: qual è il rapporto tra quest’opera e il pensiero filosofico del suo tempo? Dove si trova l’autore quando scrive quest’opera? Come si può definire, per punti, la poetica dell’autore? E anche: in che modo il contenuto del brano che abbiamo letto può essere utile per noi, per la nostra vita? Che cosa ci insegna? In particolare, che questo – insegnare, migliorare, raddrizzare il legno storto che siamo – non dovesse essere l’obiettivo immediato dell’arte e dell’educazione artistica mi era già abbastanza chiaro quando andavo a scuola, e mi trovavo di fronte insegnanti (alcuni, non tutti) che, mi pareva, liquidavano un po’ troppo in fretta i testi per arrivare a parlare, cioè a discutere con noi studenti, della ‘morale dei testi’. Come si dice, non avevo ancora visto niente.

Ora, col tempo e l’esperienza (scrivere manuali scolastici porta a frequentare la scuola), credo di aver compreso che il modo in cui io pensavo andasse insegnata la letteratura non può essere il modo in cui la si insegna nella scuola di oggi, soprattutto in quegli indirizzi di studio in cui la letteratura ha un ruolo meno centrale di quello che ha al classico. Fino a qualche decennio fa, l’insegnamento della letteratura o della filosofia o delle discipline umanistiche in generale non doveva essere giustificato, e di fatto era il cuore del curriculum della classe dirigente, non solo in Italia ma in tutto il mondo; oggi deve essere giustificato; e credo che non sia lontano il momento in cui verrà considerato ingiustificabile. Per giustificare l’esistenza di qualcosa che assorbe così tanto tempo, energie e denaro, bisogna infatti dimostrare la sua rilevanza non in astratto ma per coloro che vivono oggi, in un mondo che nell’ultimo mezzo secolo è stato riplasmato dalla scienza e dalla tecnologia, e in cui la vita è diventata così complessa da sollecitare sempre di più le competenze non di intellettuali capaci di interpretare il mondo ma di tecnici capaci di farlo funzionare.

Esiste, sì, un’altra strada, la strada classica, che consiste nel mostrare che la letteratura può non essere utile in vista del benessere materiale ma lo è senz’altro in vista di quello spirituale, perché affina la coscienza e l’intelligenza. È però una dimostrazione molto impegnativa, da un lato perché non è difficile opporle controesempi (mi dà sempre pena ricordare che Sulla libertà di Mill era il libro preferito dello stragista norvegese Anders Breivik: perché è anche il mio), e dall’altro perché ripetere le parole d’ordine circa la centralità dell’educazione umanistica oggi richiede una fiducia che pochi nella realtà posseggono (nella realtà: altro è ciò che tutti crediamo di credere), e che facilmente vien meno per esempio quando ci si trova a insegnare non ai futuri grand commis dell’impero britannico – quelli che nelle loro public school passavano i pomeriggi a glossare Tucidide e Cicerone – ma a una classe delle professionali composta per tre quarti da figli di immigrati. Che fare quindi? Mi pare che una reazione diffusa a questa crisi identitaria, a questa sfiducia circa l’importanza della letteratura in sé consista, per adoperare le mie etichette, nel sollevare con ancora più decisione «gli occhi dal testo» e nel prendere ancora più risolutamente la strada dell’attualizzazione: portare i testi del passato nel presente, mostrare che si tratta esattamente delle stesse cose, degli stessi interrogativi, che il passato abita il presente, lo innerva, e anzi che la chiave di molti problemi del presente risiede nell’arte o nel pensiero del passato.

3.

I manuali scolastici periodicamente vanno aggiornati, adeguati alle micro-riforme che ad anni alterni scuotono i programmi. Li scuotono leggermente, impercettibilmente. Un’autentica revisione dei programmi sarebbe un’opera meritoria, ma farla è troppo difficile, richiederebbe troppe mediazioni e troppo coraggio, susciterebbe troppe proteste, così anziché intervenire col bisturi s’interviene coi cerotti, o se si vuole con operazioni di microplastica: correggendo da una parte, aggiungendo dall’altra, e badando bene a non scontentare nessuno. L’ultima piccola scossa è venuta dunque non tanto dall’introduzione dell’educazione civica nel 2020, dato che l’educazione civica in sostanza c’era già, sotto altro nome e divisa, ma dal gran parlare che si è fatto intorno all’educazione civica, e dall’incertezza che ha avvolto i modi e i contenuti di questo seminuovo insegnamento.

A sua volta, il dibattito sul civismo e sulla sua trasmissione nelle aule scolastiche ha incrociato la tendenza di cui ho detto, ad attualizzare gli insegnamenti storici (storia, letteratura, storia del pensiero e dell’arte) attraverso più o meno meditati collegamenti con la vita odierna. Se si sfoglia un manuale scolastico di qualche anno fa e lo si confronta con quelli correnti, è questa una delle differenze più cospicue: il tentativo, da parte di chi li compila – e quindi di riflesso da parte di chi li userà in classe – di mostrare come l’eco degli eventi del passato sia ancora ben avvertibile nel presente, e come lo studio di opere, autori, eventi apparentemente remoti possa permetterci di comprendere meglio il mondo attorno a noi. Posto che i problemi degli uomini sono sempre più o meno gli stessi, un buon metodo didattico è evidentemente quello che consiste nella valorizzazione degli elementi di continuità: de te fabula narratur.

Nell’istruzione in storia, questa tendenza è andata in parallelo con il moltiplicarsi di iniziative legate alla celebrazione della memoria di eventi particolarmente traumatici e/o identitari come le leggi razziali del 1938, o gli attentati di mafia del 1992, o prima o più tutti, l’evento che fonda l’identità repubblicana, cioè la liberazione dal nazifascismo il 25 aprile 1945; iniziative nate naturalmente al di fuori della scuola, ma che hanno spesso influenzato in maniera sensibile il modo in cui a scuola è stato ripensato lo studio della storia (cfr. tra l’altro Pierre Nora, Come si manipola la memoria, Brescia, La Scuola 2016; David Rieff, Elogio dell’oblio, Roma, Luiss University Press 2016; Tzvetan Todorov, Gli abusi della memoria, Milano, Meltemi 2018). Da un lato, tale ripensamento ha privilegiato eventi prossimi a noi nel tempo come quelli che ho menzionato, eventi la cui eco è ancora ben avvertibile nel dibattito pubblico, riducendo inevitabilmente lo spazio dedicato ai più remoti miti fondativi della nazione, che meno bene si prestano all’attualizzazione (l’impressione, per esempio, è che dopo il revival degli anni Novanta il Risorgimento sia tornato in una zona d’ombra nella formazione degli studenti, e di conseguenza nella loro coscienza); dall’altro lato, la devozione alla memoria incoraggia un tipo di approccio partecipato, caldo ai fatti storici, con il coinvolgimento non solo intellettuale ma anche etico ed emotivo degli studenti, e un rapido trascorrere dalla storia alla morale della storia, simmetrico a quello cui ho accennato sopra, dai testi alla morale dei testi.

Quanto appunto all’istruzione letteraria, la tendenza a sovrapporre istruzione e civismo appare evidente nella curvatura attualizzante che prendono sempre più spesso i commenti ai testi nei manuali scolastici; cito per esempio da uno dei migliori (si commenta il sesto canto dell’Eneide):

Ecco, allora, che si spiega la lode che Anchise tesse della gens Iulia e, soprattutto, di Ottaviano Augusto; ma ecco spiegata anche la profezia riguardo al ruolo di Roma nel mondo. La civiltà che discenderà da Enea avrà la missione di civilizzare gli altri popoli instaurando quella che, nella realtà, prenderà il nome di Pax Romana, ossia una pace imposta con la minaccia di repressione in caso di rivolta […] L’ideologia della conquista sostenuta dall’idea della missione civilizzatrice è stata alla base anche del più recente fenomeno del colonialismo, quando gli stati europei, a partire dal XVI secolo, si sono spartiti i territori di Africa, Asia e Americhe.

Perché no, del resto? L’istinto della sopraffazione è così connaturato all’uomo da rappresentare una costante nella storia: il paragone tra l’impero di Roma e la moderna violenza coloniale non è campato in aria.

Accade però più di frequente che il fervore civico si depositi in ‘schede’ virtuistiche ispirate soprattutto agli obiettivi dell’Agenda 2030, che è a sua volta, com’è noto, una specie di to-do list in vista di una vita buona per ogni essere umano: eradicare la povertà e la fame, cancellare lo stigma della disabilità, garantire a tutti il diritto alla salute e all’istruzione, tutelare l’ambiente. In concreto, ciò ha voluto dire che il compilatore di manuali ha dovuto sforzarsi di collegare i testi per lo più antichi o premoderni che aveva deciso di antologizzare con le attuali istanze etico-politiche, sicché i manuali si sono popolati di rubriche intitolate Connessioni, Link, Permanenze

Naturalmente, i collegamenti sono sempre possibili, e possono essere sensatissimi se fatti con discrezione. È chiaro che la Colonna infame di Manzoni è una lezione sul fanatismo, e non è difficile trasportarla nel tempo presente e adoperarla come spunto per una riflessione sui fanatismi contemporanei; ed è chiaro che le Grazie di Foscolo sono anche una meditazione sulla bellezza, e si possono leggere pensando a quanto la bellezza dei corpi ossessioni gli abitanti del nostro mondo, dove siamo sempre tutti on display. Ma, a parte l’arbitrio di usare l’arte come pretesto, in queste applicazioni c’è quasi sempre qualcosa di sforzato, e di rado riescono a salvarsi dal moralismo o a dall’ideologia. D’altro canto, la sindrome del collegamento produce spesso attualizzazioni balzane, depistanti, o semplici sciocchezze: come – cito sempre dalla mia esperienza – la scheda sul femminicidio cacciata a forza nel canto V dell’Inferno, o la scheda sul sindacato del Novecento in margine alla rivolta dei Ciompi, o gli OGM a commento delle odi di Parini. Più che a cercare nessi tra le cose più disparate, specie se appartengono ad epoche diverse, mi pare che l’istruzione scolastica dovrebbe addestrare a distinguere, cioè a separare piuttosto che a unire, a cogliere la specificità storica dei fenomeni anziché confonderli in una specie di fittizio esperanto morale.

4.

La cura nella distinzione mi pare tanto più necessaria quanto più essa latita nella comunicazione culturale extrascolastica. Consideriamo il caso di un autore sommamente scolastico, Dante Alighieri. Non è appunto anche dall’inabilità a distinguere che derivano le sciocchezze pronunciate dal ministro Sangiuliano su Dante come «fondatore del pensiero di destra» in Italia? O l’idea altrettanto balzana che gli ha opposto un giornalista molto presente in televisione secondo cui Dante sarebbe invece un pioniere del progressismo perché mette il femminicida Gianciotto Malatesta nella Caìna? Che fare quando – ed è ciò che si osserva ogni giorno – dell’interpretazione arbitraria, dell’attualizzazione indebita, e insomma del cattivo esempio s’incaricano istituzioni o agenzie educative che si presentano come autorevoli? Nell’estate del 2021, alla Basilica di Massenzio, Roberto Saviano è stato invitato a parlare di Dante, e un estratto del suo intervento è stato pubblicato sul «Corriere della Sera» del primo luglio col titolo Dante gridò la libertà, diamogli (finalmente) voce. È utile averne sott’occhio qualche riga:

Dante non fu solo un uomo di lettere, ma fu soprattutto un intellettuale impegnato, e la sua attività politica, insieme alla verve intellettuale, rovinò per sempre la vita sua. Per Dante non è esistito nulla al di fuori dell’impegno; ricordiamolo questo, quando ci viene consigliato di tenerci alti, equidistanti, di non entrare troppo nelle cose, di non essere divisivi, di non prendere posizione. Chi esorta l’intellettuale a essere distaccato, crede di vivere in un mondo pacificato, cosa che non è, che non è mai stata e che mai sarà […].

Quando era vivo si provò solo a soffocarlo, affinché smettesse di parlare. Gli si confiscarono i beni, gli si assediarono i familiari, lo si rimosse da ogni carica politica, con condanne e diffamazioni ostative, che ne impedivano il reincarico in altri comuni. Non poté mai riprendere a fare quello che faceva a Firenze: l’interdizione dai pubblici uffici valse oltre il perimetro della sua città. E l’esser stato condannato per «opposizione al papa Bonifacio VIII» gli impediva anche di ottenere un beneficio ecclesiastico, una di quelle rendite con cui all’epoca si manteneva la classe intellettuale europea, non potendo guadagnare dalla pubblicazione di libri, podcast o articoli […].

È strano, ogni volta in cui mi metto sulle tracce di qualcuno la cui voce si è cercato di silenziare, finisco sempre con l’imbattermi in una contravvenzione non pagata. Ecco, forse questa è la cosa che più dovrebbe offenderci, che per incastrarli non ci si prenda mai neppure la briga di montare grandi casi, una grande evasione, tipo quella di Al Capone, per intenderci. No, li bloccano sempre con un piccolo cavillo, una spina conficcata nella carne, che può sentire solo il perseguitato, ma che dall’esterno non è neppure visibile. Reputazioni e vite rovinate da piccole multe – magari per eccesso di velocità: è successo a Daphne Caruana Galizia, a Martin Luther King, ad Anna Politkovskaja… e, prima che a loro, a Dante Alighieri!

Oggi la Commedia per noi è la Commedia. Ma quando Dante era vivo la Commedia era considerata un’accozzaglia di rutti, e per di più materia incandescente: troppo freschi i fatti di cronaca che raccontava; troppo aperti i giudizi che intercettava; troppo attuali i mali della cattiva politica che denunciava; e troppo viventi i mammasantissima che tirava in ballo […].

Ma Dante non si mise in fila. Non si fece intimidire. Non si lasciò atterrire dalle calunnie. Non aspettò che gli si assegnasse l’argomento di cui parlare. Non parlò in latino. Non raccontò della bellezza italica. Non si fece censurare. Usò un linguaggio crudo. Non tenne basso il tono della voce. Dante, la verità, la gridò. Hanno ammazzato Dante, Dante è vivo!

In una pagina del genere non colpiscono tanto i fatti inventati di sana pianta, la megalomania, la trivialità dello stile o la disarmante puerilità delle osservazioni. C’è qui infatti qualcosa di peggio dell’ignoranza, e cioè un’idea stravolta di che cosa sia la cultura umanistica e a che cosa debba portare il suo possesso: a rispecchiare noi stessi nelle grandi anime del passato, a rivedere i loro tempi nei nostri, semplificando così, immiserendo così la loro opera in un messaggio edificante. E tuttavia, le stesse persone che accolgono con indignazione il vaniloquio su Dante destrorso applaudono queste anche più arbitrarie estrapolazioni fatte in nome della virtù.

Portata nelle aule scolastiche, questa tendenza ad attualizzare il messaggio contenuto in testi anche remoti, questo zelo edificante, trova terreno fertile per almeno un paio di buone ragioni. La prima è che resistere è molto difficile. Insegnare i paradigmi latini, la prosodia italiana, la poetica di Manzoni, la storia degli antichi romani, insomma l’ordinaria amministrazione umanistica, non è mai stato un compito agevole, ma oggi lo è ancora di meno, sia a causa dell’enorme quantità di nuovi oggetti culturali che cadono di continuo sotto la nostra attenzione sia perché è diffusa l’impressione che i cambiamenti socio-culturali degli ultimi decenni abbiano messo tra quel sapere umanistico e la nostra vita presente una barriera che può essere superata soltanto con un eccezionale sforzo di immedesimazione attraverso lo studio (quello che in genere a scuola non è possibile fare, e che pochissimi ormai faranno all’università) oppure con la retorica (che invece non a caso nel campo dell’istruzione è merce sempre più diffusa).

La seconda ragione risiede nella molto umana propensione a sentirsi dalla parte giusta e, forti di questo sentimento, di insegnare in maniera non mediata ma immediata, non suggerendo attraverso le parole o le immagini o i suoni degli artisti – tutte forme della comunicazione che contengono un’ambiguità, e dunque non si prestano a interpretazioni univoche – ma dicendo esplicitamente in che modo occorre pensare, parlare, agire, vivere la vita. «Io trasmetto dei valori» (specificabili via via nei valori «della tolleranza» o «della democrazia», ma molto più spesso «della Costituzione») è un motto molto più seducente e appagante di «Io insegno la letteratura», e definisce un profilo d’insegnante oggi, mi pare, sempre più diffuso.

5.

L’idea di servirsi della letteratura per veicolare una dottrina morale è tanto censurabile quanto l’idea di servirsene per veicolare una fede o l’ideologia estetico-politica del cittadino Sénécal (mettere le miserie del popolo, la fattoria, l’officina, al posto delle Veneri e dei paesaggi), perché adopera il fine come se fosse un mezzo, per esempio trattando – e saremo tutti d’accordo – Dante Alighieri come il patriarca dei conservatori o, con pari arbitrio, come un giacobino; oppure – e qui è probabile che l’accordo sia meno unanime – selezionando brani antologici secondo un criterio che non sia la loro qualità artistica o il loro rilievo storico. Temo però che i futuri aggiornamenti del mio manuale, così come quelli di altri editori, dovranno aderire a logiche che hanno poco a che fare tanto con l’una quanto con l’altra istanza, logiche che non riflettono, per ipotesi, le nuove acquisizioni e i nuovi orientamenti della ricerca scientifica ma assecondano quelle che sembrano essere le urgenze dell’agenda contemporanea: dunque soprattutto addizioni di testi scritti da donne, o scritti nei paesi extraeuropei dei quali è originario un numero sempre più cospicuo di studenti; e anche addizioni di testi relativi a questioni che sono vicine all’esperienza e agli interessi degli adolescenti (ecologia, identità sessuale, cultura pop).

Come ho accennato, si tratta di mutamenti comprensibili, quelli che non possono non verificarsi quando un paradigma culturale sembra aver esaurito il suo vigore, e non può più dirsi veramente condiviso, e nuove forze e tendenze culturali premono dall’esterno. Se in passato l’istruzione in campo letterario è stata soprattutto un’educazione del gusto, dell’intelligenza e della lingua, nulla vieta che a questi obiettivi se ne sostituiscano altri come, poniamo, il cosmopolitismo, la tolleranza, la sensibilità ecologista. È anzi probabile che questo stia già accadendo.

La preoccupazione dei conservatori come me nasce da un insieme di ragioni: la repentinità del fenomeno, che significa carenza di riflessione in merito, e anche di filtro; la curiosa alleanza ideologica tra un pensiero pedagogico che si vuole progressivo e le forze più astute e violente del mercato, che hanno ogni interesse a portare avanti questa distruzione del passato a vantaggio di prodotti culturali di smercio più facile e redditizio, come se questa overdose di ideali emancipativi avesse finito per produrre una forma inedita di omologazione; il sacrificio delle sfumature e dell’ambiguità, che sono il sale della letteratura («quel tono asseverativo che non ammette replica – scrive Gadda in Un’opinione sul neorealismo – e che sbandisce a priori le meravigliose ambiguità di ogni umana cognizione… l’ambiguità, l’incertezza, il “può darsi ch’io sbagli”, il “può darsi che da un altro punto di vista le cose stiano altrimenti”, a cui pure devono tanta parte del loro incanto le pagine di certi grandi moralisti, di certi grandi romanzieri»), a vantaggio di quella unilateralità, di quella semplificazione che il moralismo impone sempre ai suoi zelatori; la qualità francamente non alta, e a volte infima, dei testi che questa rivoluzione culturale pretende di sollevare al rango di nuovi classici (ma che importa la qualità quando il messaggio è corretto?).

E c’è poi, al di là e al di sopra di tutto questo, un’impressione più difficile da razionalizzare, e anche da tradurre in parole, l’impressione di una generale, pervasiva stupidità, un tipo di stupidità che richiama alla memoria la categoria di kitsch così come la intende Milan Kundera nell’Insostenibile leggerezza dell’essere.

Qualcuno ricorderà che Kundera prende il termine kitsch in un’accezione molto più precisa di quella che si legge nei dizionari. Per lui il kitsch è «la negazione assoluta della merda, in senso tanto letterale quanto figurato: il kitsch elimina dal proprio campo visivo tutto ciò che nell’esistenza umana è essenzialmente inaccettabile […]. Chiamiamo questa fede fondamentale accordo categorico con l’essere». Come anche qualcuno ricorderà, proiettato sul piano politico il kitsch è, secondo Kundera, l’ideale di ogni sistema totalitario, perché laddove «coesistono orientamenti politici diversi e dove quindi la loro influenza si annulla o si limita reciprocamente, possiamo ancora in qualche modo sfuggire all’ inquisizione del Kitsch […]. Ma là dove un unico movimento politico ha tutto il potere, ci troviamo di colpo nel regno del kitsch totalitario».

Naturalmente, il totalitarismo del kitsch non s’impone attraverso la coercizione o violenza ma attraverso quella che Kundera definisce la «dittatura del cuore». L’obiettivo del kitsch è commuovere, ma commuovere insieme, perché la commozione provata insieme fa sì che l’individualità venga abolita, dissolta nel gruppo. «Il kitsch – scrive Kundera – fa spuntare, una dietro l’altra, due lacrime di commozione. La prima lacrima dice: “Come sono belli i bambini che corrono sul prato!”. La seconda lacrima dice: “Com’è bello essere commossi insieme a tutta l’umanità alla vista dei bambini che corrono sul prato!”. È soltanto la seconda lacrima a fare del kitsch il kitsch». Vale per i bambini che corrono sul prato come per la parata del primo maggio, come per qualsiasi altra manifestazione, spettacolo, esperienza che faccia appello al cuore piuttosto che alla ragione, e che nell’abbraccio della folla anneghi i dubbi e le domande dei soggetti non conformi. Perciò l’ironia e l’umorismo sono la kryptonite del kitsch, e non possono avere cittadinanza nel suo regno.

Ora, io credo naturalmente che nelle scuole così come nella società italiana non ci sia alcun rischio totalitario in senso politico, e anzi mi pare che l’aria che vi si respira sia anche più libera e più varia di quella che io respiravo negli anni Ottanta al Liceo Massimo d’Azeglio di Torino. La quantità di mondo che gli adolescenti, anche i non privilegiati, vedono oggi una volta usciti dalle aule scolastiche è incomparabilmente più grande di quella che potevo vedere io alla loro età, e questa esposizione a una molteplicità di stimoli – al di là dei problemi di gestione dell’abbondanza che conosciamo – è per molti aspetti una cosa positiva.

Mi pare però anche di cominciare a vedere le tracce di un totalitarismo etico analogo a quello che Kundera metteva sotto l’etichetta del kitsch. Da un lato, non solo l’istruzione scolastica ma, in generale, la comunicazione culturale (libri, film, canzoni), è sempre più propensa a sedurre i suoi destinatari attraverso un coinvolgimento non razionale ma emotivo, che scoraggi domande e obiezioni e solleciti invece un’adesione fideistica a certi ideali o valori o attitudini la cui validità è sottratta alla verifica: come accade appunto con i dogmi della religione. Dall’altro lato ho l’impressione che, mentre l’edificazione a poco a poco si va sostituendo all’acculturazione, inevitabilmente si contragga lo spazio per quei dissenzienti che non condividono questa o quella parte dell’edificio morale che viene loro, diciamo, alacremente suggerito, se non davvero imposto, e in particolare per quegli scettici che tendono a sorridere o a ridere della retorica delle appartenenze, dei valori, delle prediche, della letteratura edificante, del ‘dovere della memoria’ e di tutto il kitsch che questo catechismo morale trascina nella sua onda. Ricordate Pirandello? «Se uno si mette a ridere e gli altri seguono l’esempio, se tutto quest’incubo frana d’improvviso in una risata generale, addio ogni cosa! Bisogna che in tanta incertezza e sospensione d’animi si creda e si senta che la riunione di questa sera è molto seria». Bisogna, certo, che la serietà governi le cose del mondo; ma bisogna anche che ci sia qualcuno che ride.

 

 

 

 

 

 

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