Lavorando all’università, a contatto con l’ufficio che si occupa della comunicazione (non c’era, quand’ero studente io, adesso c’è, e già questo meriterebbe una riflessione), ho visto il problema arrivare, qualche anno fa. Gentili professori… Cari studenti… si scriveva. Ma, qualcuno ha osservato giustamente, ci sono anche le professoresse, le studentesse. Perciò abbiamo corretto: Gentili professoresse, gentili professori… Care studentesse, cari studenti… Poi qualcuno ha notato che questo vecchio galateo (prima le donne) non si giustificava, era addirittura sospetto (prima le donne, perché il mondo lo governano gli uomini), quindi sarebbe stato meglio cercare una formula neutra. Professor*? Student*? Meglio così? Mica tanto, perché l’asterisco neutralizza, ma quello che si chiama tema rimanda chiaramente al genere maschile. Cari membri della nostra comunità accademica? Meglio, anche se anche membro è chiaramente maschile. Pensandoci bene: pure troppo.
Di tal genere, se non tali appunto, sono stati i problemi linguistici che negli ultimi anni hanno agitato la vita delle università (e delle scuole, degli uffici pubblici, delle case editrici, eccetera: tutti i luoghi di lavoro in cui si scrivono testi rivolti a un pubblico molto scolarizzato e pagante, e perciò spesso molto sensibile). Problemi non insormontabili in sé, ma aggravati dal concorso di due circostanze a loro volta problematiche, cioè tali da complicare anziché risolvere il Problema. In primo luogo, il fatto che chi si occupa di queste cose, cioè chi è incaricato di redigere queste comunicazioni scritte non ha quasi mai la più pallida idea di come funziona la lingua (cioè molto semplicemente non sa distinguere un pronome da un aggettivo, o la morfologia dalla fonetica), perché non ha studiato a sufficienza questi argomenti, che possono essere complicati. In secondo luogo, il fatto che – a differenza di quanto è accaduto in passato: nel Cinquecento, poniamo, o dopo l’Unità, o nel secondo dopoguerra – questa nuova ‘questione della lingua’ non ha preso le caratteristiche di una discussione relativa alla preminenza di questo o quel modello linguistico, di questo o quel dialetto, di Bembo contro Trissino, ma si è quasi subito profilata come Questione Etico-Politica, e l’etico-politica è un osso molto più duro della morfologia verbale o delle norme della dittongazione.
Il resto lo sapete: gli asterischi a pioggia (e un po’ a caso), lo schwa, le scritture a barre tipo il/la, Giorgia Meloni che si fa chiamare “il presidente”, i documenti che si allungano, sovraesteso parola dell’anno, la pena perché qualcuno si offenderà in ogni caso, gli eccessi di zelo eccetera.
Ora Edoardo Lombardi Vallauri prova a mettere ordine in questo ginepraio con un piccolo libro, Le guerre per la lingua, che consiglio a tutti di leggere, specie appunto a chi in queste piccole guerre è coinvolto, volente o nolente: per difendersi, per sentirsi meno solo/a.
Lombardi Vallauri non è un linguista come gli altri. Nel senso che è sì un preparatissimo linguista (e più invecchio più penso che essersi formati studiando cose precise come la linguistica sia il modo migliore per schivare una maturità da parolai e una vecchiaia da tromboni), ma negli ultimi anni ha ampliato il campo dei suoi studi a tante cose diverse: la morale cattolica, i costumi sessuali, persino il Giappone (perché sa anche il giapponese). La sua bibliografia assomiglia ormai a quella di coloro che un tempo si sarebbero chiamati ‘intellettuali pubblici’ (ma senza il loro sussiego), perciò la questione linguistico-sessuale di cui dicevo è un argomento che sembra inventato apposta per lui, perché si trova all’incrocio dei suoi due interessi principali: la lingua e la società.
Il libro consta di due capitoli. Il primo è il sottoclou, come nelle serate pugilistiche, e vi si parla con molto equilibrio dell’uso e dell’abuso dell’inglese. Volete dire meeting anziché riunione? Location anziché posto? Padronissimi, non c’è nessuna norma e nessuna autorità che lo vieti: non è una questione linguistica ma una questione culturale, di visione del mondo, e ognuno ha diritto ad avere la sua (splendido atteggiamento liberale: si vorrebbe solo obiettare che certe visioni del mondo, quindi certi usi linguistici, dovrebbero starsene relegate nei piani bassi della società, invece li troviamo dentro teste e su bocche che dovrebbero pensare e parlare meglio: ma appunto, non è affare del linguista).
Il secondo capitolo è il clou, ed è quello a cui allude il sottotitolo Piegare l’italiano per darsi ragione. Sono pagine che si leggono con molta ammirazione. L’autore non spiega cose che possano giungere nuove a chi ha qualche nozione di linguistica: che viviamo e soprattutto siamo vissuti nel passato in una società chiaramente sessista, ma che salvo numerate eccezioni le discriminazioni stanno nelle cose, nelle pratiche, non nelle parole; che parlare di maschile ‘sovraesteso’ è fuorviante, perché il maschile non ‘invade’ lo spazio del femminile ma viene adoperato, per convenzione (e mancando in italiano, per esempio, il neutro) come genere non marcato; che caute aperture ad un uso linguistico non discriminatorio sono opportune (“Cari studenti, care studentesse”), ma che l’idea di rivoluzionare la lingua per decreto riflette una concezione puerile del linguaggio, e soprattutto corrisponde al desiderio di attirare l’attenzione su sé stessi, di essere riconosciuti parte del club dei buoni e dei giusti: virtue signaling. Nulla di nuovo, ma Lombardi Vallauri spiega tutto questo con una sicurezza, una calma e un’equanimità che – credo – non potranno non essere apprezzate anche da quanti (a torto) non condividano il suo punto di vista.
Edoardo Lombardi Vallauri, Le guerre per la lingua, Torino, Einaudi 2024.