1.
Qualche tempo fa sono stato invitato a uno dei molti seminari che si fanno nelle università per riflettere sulla crisi delle discipline umanistiche, e la necessaria difesa delle stesse, e per provare a guardare la questione da un punto di vista meno scontato del solito, e per strappare un sorriso, ho proposto al collega che mi invitava una relazione dal titolo Quali libri leggere per diventare come noi. Il collega ha riflettuto un attimo, non ha sorriso, e poi mi ha risposto che d’accordo, era un tema interessante, ma come avrei fatto a compilare la lista di questi libri? Veniamo da esperienze diverse, da scuole diverse, i libri che sono stati importanti per la formazione di uno possono essere stati irrilevanti per un altro; e non c’è, in una lista di libri dettata dalla cattedra, qualcosa di spiacevolmente autoritario?
Si trattava di un collega particolarmente ottuso, ma il fatto che non avesse percepito l’ironia, che avesse trovato discutibile e autoritaria la lista di libri e non la candida volontà di insegnare a qualcun altro come diventare come noi, mi pare induca a riflettere sulle due opinioni che quella risposta condensa.
Da un lato, alcuni professori di discipline umanistiche sembrano credere che le loro siano «le uniche occupazioni degne dell’uomo», come mi disse un compagno di studi della Normale, ma in un’età – eravamo matricole spaventate – in cui si è stupidi, e in un posto che, a quell’età, sollecita questo tipo di stupidità e di retorica. Dall’altro lato, certi professori di discipline umanistiche pensano evidentemente che la migliore delle formazioni possibile sia quella che coincide con la loro formazione, che la miscela culturale che ha prodotto loro – una miscela fatta soprattutto di poesie, romanzi, storia, storia dell’arte e filosofia – sia somministrabile pari pari anche ai nati dopo l’anno 2000.
Prevengo l’obiezione: sto esagerando. Nessuno è tanto sciocco da coltivare idee così acritiche circa sé stesso e circa il proprio lavoro, nessuno pensa di essere la misura del mondo. È vero, però osservo che la reazione del mio collega è stata estemporanea, irriflessa; nessuno lo direbbe esplicitamente, nessuno avrebbe l’arroganza di metterlo nero su bianco, ma il fatto è che molti di noi si comportano come se, in fondo, fosse proprio quello ciò che pensiamo della scuola, della vita e di noi stessi: molti sognano la clonazione. Prevengo un’altra obiezione: il mio collega un po’ ottuso ha delle buone ragioni, che io in gran parte condivido. Anch’io credo che la formazione umanistica tradizionale sia, se non la migliore in assoluto, una delle migliori tra le vie d’accesso al mondo; e di fatto passo parecchio tempo a consigliare a persone più giovani di me di leggere i libri che io ho letto e amato, e che giudico importanti. Quindi parlo innanzitutto di me a me stesso; e non da spretato ma da credente che vuole però capire per credere meglio, con più fondamento.
2.
Che c’entra in tutto questo Dante? C’entra, perché la Commedia di Dante rappresenta una parte cospicua della letteratura che si fa nelle scuole italiane. Noi la leggiamo al terzo, quarto e quinto anno delle scuole superiori perché così decise il ministro Coppino circa vent’anni dopo l’Unità d’Italia:
Meno travagliato fu invece l’iter della Lectura Dantis: dopo un iniziale girovagare tra le prime due classi liceali, essa, con i programmi Coppino (1884) fu ripartita nei tre anni liceali con una motivazione di gradualità didattica ed evolutiva che, ancor oggi, conserva i suoi fautori. È evidente inoltre che l’ampio spazio così riservato a Dante rispondeva ad un preciso intento di una politica culturale che, anche quando poteva dirsi esaurita la fase del ghibellinismo immediatamente postunitario, vedeva comunque nel poeta il padre della lingua italiana e il maestro di fierezza, indipendenza e italianità (Mirella Scala, L’insegnamento della letteratura italiana nei ginnasi-licei dall’Unità alla fine dell’Ottocento, in «History of Education & Children’s Literature», III 2 [2008], pp. 165-194 [a p. 171]).
1884. Nel 1884 nelle case non c’era ancora l’illuminazione elettrica, per andare da Milano a Firenze ci voleva una settimana, e a scuola ci andava una frazione della popolazione italiana, e per un numero di anni molto inferiore all’attuale. Del resto, ragioni analoghe spiegano la presenza nelle scuole italiane, per la precisione al secondo anno delle superiori, di Alessandro Manzoni, Nel 1869, otto anni dopo l’Unità d’Italia, una relazione ministeriale sullo stato dell’istruzione secondaria lamenta che nell’insegnamento dell’italiano «nessuno degli scrittori viventi fu consigliato, e nei programmi e nell’istruzione non fu perfino menzionato il libro più dilettevole ed istruttivo, che più i fanciulli possono intendere ed amare, i Promessi sposi» (citata in Marino Raicich, Scuola, cultura e politica da De Sanctis a Gentile, Pisa, Nistri Lischi 1981, p. 105). La lacuna viene colmata già l’anno successivo: nel 1870, il ministro dell’istruzione Cesare Correnti include Manzoni nei programmi scolastici:
«Tra le cose dei moderni – scrive Correnti – stimiamo la più utile a leggere nelle scuole i Promessi Sposi, libro in cui la sincerità del pensiero la naturalezza delle imagini e la piana collocazione delle parole ottennero il pregio singolarissimo dell’evidenza e della singolarità» (citato in Mauro Moretti, L’italiano nei programmi del ginnasio-liceo [1860-1901]. Notizie ed osservazioni, in Il canone letterario nella scuola dell’Ottocento. Antologie e manuali di letteratura italiana, a cura di Renzo Cremante e Simonetta Santucci, Bologna, CLUEB 2009, pp. 1-47 [a p. 23 nota 76]).
Manzoni diventa così il primo scrittore vivente ad essere inserito nei programmi scolastici. Dal 1888, poi, un decreto regio stabilisce che i Promessi sposi non vengano letti solo attraverso brani antologici bensì integralmente. Resta da decidere quando leggerlo, a che punto della carriera scolastica degli studenti. All’inizio lo si mette in programma per l’ultimo anno del liceo: perché Manzoni non è uno scrittore facile, ovvero – per usare le parole di Carducci, che è l’intellettuale più ascoltato nell’Italia di fine secolo – «non è autor da ragazzi». Più tardi, il Regio Decreto del 28 settembre 1913 corregge questa impostazione prescrivendo la lettura dei Promessi sposi, «parte in classe, parte a casa», in tutte le classi quinte del ginnasio, cioè al secondo anno delle scuole superiori (citato in Giuseppe Polimeni, Scolarizzazione manzoniana, in Il canone letterario cit., pp. 153-216 [a p. 169]).
E lì Manzoni è rimasto; e lì sono rimasti l’Inferno, il Purgatorio e il Paradiso. Il che suggerisce almeno due considerazioni. (1) Che i programmi delle materie umanistiche sono sorprendentemente vischiosi, conservativi, inerziali, nel senso che se qualcuno a un certo punto ci mette dentro qualcosa sarà poi difficilissimo abolire questo qualcosa, o anche soltanto spostarlo dal centro alla periferia: una volta venute al mondo, scrive da qualche parte Freud, le cose tendono tenacemente a rimanervi. (2) E che non bisogna essere dei sovversivi per essere visitati dall’idea che dopo un secolo e mezzo qualche rettifica in questo settore si potrebbe proporre (salvo che, così come l’antico è difficile da eliminare, o anche solo da ridurre a dosi più contenute, altrettanto difficile è introdurre il nuovo, perché bisogna fare un certo sforzo per convincersi del fatto che qualcosa che noi non abbiamo studiato a scuola o all’università meriti di entrare in quel circolo chiuso di nomi e di oggetti che, al nostro sguardo, determina l’acculturazione). Proporre, senza pretendere che la proposta venga accolta; ma discussa sì, meglio se davanti agli studenti, in classe, anche per evitare che loro e i loro insegnanti finiscano per pensare che quello che studiano a scuola l’abbia deciso il Padreterno anziché una commissione composta da esseri umani come loro (esseri umani, nel caso dei programmi post-unitari tuttora in uso, nati al tempo delle guerre napoleoniche), e che perciò l’assetto e il contenuto delle materie corrisponda a un canone immodificabile, necessario, sacro.
3.
Io farei studiare la Commedia al terzo anno delle superiori, ed eviterei di tornarci sopra nei due anni successivi; oppure, forse meglio: la farei studiare al terzo anno (Inferno) e al quarto (Purgatorio e Paradiso), ed eviterei di tornarci sopra al quinto. La leggerei e spiegherei per un congruo numero di mesi, un numero da decidere a seconda del tipo di scuola, e userei il resto del tempo per andare avanti con la storia letteraria, arrivando al secondo Novecento, e soprattutto per far scrivere gli studenti e farli parlare anche al di fuori del recinto dell’interrogazione (recensioni, presentazioni, piccoli seminari). Non leggerei la Commedia ‘a canti’ – salvo magari far leggere per intero un paio di canti particolarmente compatti, per esempio Purgatorio v o Paradiso xvii – ma proverei a raccontarla bene, alternando il racconto in prosa a terzine di Dante (una, dieci, trenta) che siano belle o che si prestino a considerazioni interessanti. Quindi non tutto il quinto dell’Inferno ma solo il dialogo con Francesca: gli studenti non incontreranno mai il nome di Semiramide lussuriosa. Quindi non tutto il ventiduesimo del Paradiso ma solo la splendida descrizione del cosmo che chiude il canto: gli studenti impareranno che quella descrizione viene dopo il dialogo con San Benedetto (e coll’occasione impareranno anche chi è stato San Benedetto e perché è così importante per la storia italiana), ma non leggeranno le sue parole.
Il tempo che risparmieremo attraverso questi tagli mirati lo useremo per fare degli incrementi altrettanto mirati, cioè per leggere versi che non si leggono quasi mai, per esempio l’inizio di Purgatorio xiv, con quello stupendo abrupto: «Chi è costui che ’l nostro monte cerchia…»; o la meravigliosa descrizione dei beati in Paradiso x («Poi, sì cantando, quelli ardenti soli / si fuor girati intorno a noi tre volte, / come stelle vicine a fermi poli, / donne mi parver, non da ballo sciolte, / ma che s’arrestin tacite, ascoltando / fin che le nove note hanno ricolte»). Soprattutto, il tempo risparmiato all’inizio potremo usarlo alla fine, per dire che cosa succede nel poema dopo che Dante è arrivato nell’Empireo; arrivati a maggio dell’ultimo anno si ha di solito tutt’altro per la testa, e il Paradiso si legge, se va bene, fino a Cacciaguida, onde grandi dubbi – nella mente degli studenti ma anche a volte degli insegnanti – intorno a ciò che viene dopo: Dante si risveglia? Torna indietro? Vede Dio? Muore sulla tomba di Beatrice?
Nella pratica, come leggere e spiegare Dante a scuola? Ci sono modi migliori rispetto a quello tradizionale, di lettura e parafrasi? Io non ho esperienza diretta di scuola, però di solito parlo di Dante alle matricole di un dipartimento di Lettere, molte delle quali conoscono Dante superficialmente; e ho trascorso gli ultimi dieci anni scrivendo e coordinando delle antologie scolastiche: qualche idea me la sono fatta e ve la propongo, naturalmente senza prospettare rivoluzioni. Per lo più sono cose ovvie.
Intanto, dato che l’obiettivo è far leggere le parole di Dante, e il tempo è sempre poco, vale sempre la pena di far parlare lui anche quando si racconta la biografia e si spiega la poetica, scegliendo soprattutto dalle opere minori, che non si fa mai in tempo a illustrare in classe (e ciò che vale per Dante vale evidentemente anche per gli altri scrittori). Un conto, insomma, è dire che «Beatrice muore quando non ha ancora venticinque anni» e un conto è leggere i presagi di morte che costellano le rime e la Vita nuova:
Appresso ciò per pochi dì avvenne che in alcuna parte de la mia persona mi giunse una dolorosa infermitade, ond’io continuamente soffersi per nove dì amarissima pena, la quale mi condusse a tanta debolezza, che me convenia stare come coloro li quali non si possono muovere. Io dico che nel nono giorno, sentendo me dolere quasi intollerabilmente, a me giunse un pensero lo quale era de la mia donna. E quando ebbi pensato alquanto di lei, ed io ritornai pensando a la mia debiletta vita; e veggendo come leggero era il suo durare, ancora che sana fosse, sì cominciai a piangere fra me stesso di tanta miseria, onde, sospirando forte, dicea fra me medesimo: «Di necessità conviene che la gentilissima Beatrice alcuna volta si moia».
Un conto è dire che Dante patì l’esilio, un conto leggere la descrizione di sé che l’esule Dante fa all’inizio del Convivio:
Veramente io sono stato legno sanza vela e sanza governo, portato a diversi porti e foci e liti dal vento secco che vapora la dolorosa povertade; e sono apparito alli occhi a molti che forse che per alcuna fama in altra forma m’aveano imaginato: nel conspetto de’ quali non solamente mia persona invilìo, ma di minor pregio si fece ogni opera, sì già fatta come quella che fosse a fare.
Un conto è parlare dell’orgoglio e della coerenza di Dante negli anni dell’esilio, un conto sentire questo orgoglio nelle sue stesse parole, nella lettera del 1315 a un ignoto amico fiorentino:
Non è questa, padre mio, la via del ritorno in patria; ma se un’altra via prima o poi da voi o da altri verrà trovata, che non deroghi alla fama e all’onore di Dante, l’accetterò a passi non lenti; ma se per nessuna onorevole via s’entra a Firenze, a Firenze non entrerò mai. E che? forse che non potrò vedere dovunque la luce del sole o degli astri? O forse che dovunque non potrò sotto il cielo indagare le dolcissime verità, senza prima restituirmi abietto e ignominioso al popolo e alla città di Firenze? E certamente non mi mancherà il pane.
4.
Ma venendo alla Commedia. In classe c’è la LIM. Spesso è una perdita di tempo e di soldi; ma può anche essere una buona occasione per far vedere cose che diversamente non si potrebbero vedere. Non la lettura della Commedia fatta da Gassman o Benigni, non la lezione del filosofo o del romanziere alla moda, ma, per esempio, i manoscritti sui quali i lettori dell’età di Dante leggevano il poema. Nel sito danteonline.it della Società Dantesca di Firenze, per esempio, si trovano le immagini digitalizzate di molti di questi manoscritti, a volte con a fianco le trascrizioni:
https://www.danteonline.it/index.html
Si apre, poniamo, il link relativo allo Hamilton 202 della Staatsbibliothek di Berlino, ed ecco la prima carta del manoscritto con il primo canto della Commedia. Si legge il testo insieme agli studenti, a cominciare dalla rubrica, e si scoprono subito cose non scontate: che, nella rubrica, il copista chiama i canti «capitoli»; che chiama «prima commedia» la prima cantica; che il cognome di Dante, qui, è Allaghieri; e soprattutto, che il testo di Inferno I che si legge nella riproduzione non combacia, per più dettagli, con quello che si trova nelle moderne edizioni a stampa. Ecco quindi l’occasione per riflettere insieme su quello che potremmo chiamare un certo particolarismo nella nomenclatura metrica; sull’oscillazione dei cognomi nell’Italia basso-medievale; sulle dinamiche della tradizione manoscritta. Insomma, una lettura filologica del documento, senza che occorra mobilitare nozioni e concetti troppo difficili per gli studenti (e per molti insegnanti che non hanno magari una preparazione filologica adeguata).
Ma, prima ancora di leggere il testo, si possono guardare insieme le immagini che decorano molti antichi manoscritti danteschi, così come alcune edizioni moderne. Riproduzioni di manoscritti miniati della Commedia si trovano nei siti di molte grandi biblioteche di studio, dalla Vaticana alla British Library di Londra, dalla Staatsbibliothek di Berlino alla Bodleian Library di Oxford. Ma c’è un sito italiano ancora più comodo, per questo materiale:
https://www.dante.unina.it/public/frontend
Un gruppo di studiosi dell’Università di Napoli sta raccogliendo in questo sito tutte le immagini che illustrano il poema dantesco. Si può interrogare il corpus in relazione ai codici, oppure ai soggetti, o alle persone, o alle tipologie decorative. A che serve? Intanto – e non è un guadagno da poco – ad avvicinarsi all’immaginario di un lettore del tardo Medioevo; poi (attingo nelle righe che seguono al capitolo che Vittorio Celotto ha scritto per il mio manuale Cuori intelligenti) a riflettere sul modo in cui i lettori di quell’epoca interpretavano il poema.
Esempi. Nel ms. Egerton 943 della British Library, per esempio, il miniatore ci mostra prima Dante steso a letto, dormiente, con addosso una bella coperta damascata, poi Dante in movimento, mentre sale il colle sul quale lo attendono le tre fiere; ed è come se ci dicesse che la Commedia è il resoconto di un sogno (il che in realtà non è: Dante dice di essersi smarrito perché «pien di sonno»; ma il viaggio lo fa da sveglio). Nel ms. Yates Thompson 36 della British Library il miniatore illustra l’episodio del conte Ugolino in Inferno xxxii-xxxiii, e adopera con sapienza lo spazio per rappresentare la vicenda rievocata dal conte: il sogno della caccia, sullo sfondo, e la morte per fame nel carcere pisano, al centro della miniatura. Interessante è la figura nuda che con un martello inchioda la porta della prigione, perché l’interpretazione del verbo chiavare nei versi «senti’ chiavar l’uscio di sotto / a l’orribile torre» non è univoca: alcuni parafrasano ‘chiudere a chiave’ (assumendo che fosse già chiusa col paletto), altri ‘inchiodare’, appunto, e questa seconda era anche l’opinione del miniatore.
Sono solo due esempi. Ma una messe davvero cospicua si raccoglie interrogando l’Illuminated Dante Project, ed è una di quelle ricerche che non dovrebbero dispiacere neppure agli studenti meno vocati alla poesia.
5.
Ma torniamo al testo. Bisognerebbe che gli studenti leggessero i versi di Dante, e non la parafrasi dei versi di Dante che si trova in calce alle edizioni e delle antologie. Ma come fare? Se la si mette, la parafrasi, è inevitabile che gli studenti scelgano questa che è la strada più facile (e del resto, non è forse vero che anche noi insegnanti prendiamo spesso questa scorciatoia?); se non la si mette, l’edizione o l’antologia non viene adottata. Che fare, dunque? Un buon compromesso è commentare insieme in classe, ogni tanto, una terzina o un paio di terzine della Commedia: non rinunciando a qualsiasi ausilio, partendo cioè dal foglio bianco, ma rinunciando soltanto alla parafrasi dell’edizione o dell’antologia, e ricorrendo invece a ogni altro ausilio possibile: dizionari, enciclopedie, data-base, e soprattutto i commenti antichi e moderni che si trovano nel sito del Dante Dartmouth Project:
È un sito facile da interrogare nel quale è riunita la gran parte dei commenti alla Commedia che sono stati scritti a partire dal secondo quarto del Trecento. Si scrive una parola nel box «Query», si inseriscono, volendo, alcune specifiche (quale cantica, quale canto, quale verso, quale lingua), dopodiché s’interrogano comodamente i testi dei commenti. Per esempio, prima abbiamo accennato alla questione del verbo chiavare nel canto xxxiii dell’Inferno, interpretabile come ‘chiudere a chiave’ o ‘inchiodare’. Qual è l’interpretazione corretta? Non è così importante arrivare a una conclusione; è importante invece riflettere, e allineare buoni argomenti a favore dell’una o dell’altra parafrasi. Per farlo, l’aiuto dei commenti è fondamentale. Ecco che cosa scrive per esempio Francesco da Buti alla fine del Trecento:
E chiuso l’uscio della torre con le chiavi, gittarono le chiavi in Arno, perché niuno potesse loro aprire, né andare a loro a dare o portar loro alcun cibo.
«Chiavar l’uscio di sotto» vuol dire quindi, secondo il Buti, ‘chiudere a chiave’. Ma secondo un altro commentatore, Guido da Pisa, anteriore di più di mezzo secolo rispetto al Buti, l’uscio del carcere pisano venne chiuso sia con chiodi (clavi) sia con chiavi (claves):
In illa vero hora, in qua era solitum ipsis comitibus ciba portari, Pisani hostium carceris clavis ferreis clavaverunt, et claves in fluvium proiecerunt.
Chi ha ragione? Come osservavo, non conta tanto decidere la questione, che davvero merita di essere chiamata annosa, e che forse è indecidibile; conta imparare ad argomentare bene una tesi, quale che sia, conta prendere confidenza con le fonti e saperne vagliare l’attendibilità. Ciò che appunto s’impara facendo.
Prendiamo un altro caso interessante. Virgilio appare a Dante, nel primo canto dell’Inferno, come colui che «per lungo silenzio parea fioco». Cosa significa fioco? Oggi lo si dice per lo più in relazione a un suono (una voce fioca) o a una luce (una lampada fioca). Nella scena descritta da Dante si esita tra due interpretazioni. La prima (‘con voce bassa, rauca, fievole’) è sostenuta per esempio da un commentatore della seconda metà del Trecento, Guglielmo Maramauro:
E qui è da intendere che, quando uno omo sta longo tempo che non parla e che poi comenza a parlare, el parla fioco.
La seconda (‘evanescente, quasi invisibile, come un fantasma’) è sostenuta con più ampia argomentazione da uno dei migliori commentatori novecenteschi, Giorgio Padoan:
Fioco: uno che in quel primo momento appariva in modo evanescente, sì da sembrare, più che un uomo vivo, l’ombra di un morto (cfr. v. 66; ed infatti nell’Eneide i fantasmi svaniscono «tenues»: II 791, V 740). Preferisco questa interpretazione a quella più vulgata («sembrava avere voce affievolita, per essere stato lungamente in silenzio») per la precisazione dinanzi agli occhi (da collegare alla corrispondente immagine virgiliana: cfr. la nota al v. 62) e per la domanda di cui al v. 66.
Entrambe le interpretazioni sono plausibili, e vale anche qui, naturalmente, quanto si è detto sopra: ciò che istruttivo è vagliare insieme gli argomenti a favore o contro l’una e l’altra, e non importa se alla fine dell’analisi si resta nel dubbio, anzi.
Un ultimo esempio di natura leggermente diversa, nel quale in causa non è l’esatto significato di una parola ma l’esatta lezione. Ecco una terzina famosa, in un canto, il terzo dell’Inferno, che a scuola si legge sempre:
E io ch’avea d’error la testa cinta,
dissi: «Maestro, che è quel ch’i’ odo?
e che gent’è che par nel duol sí vinta?».
Questo è il testo della terzina secondo l’edizione Petrocchi e secondo la maggior parte dei manoscritti. Ma, com’è ben noto, alcuni manoscritti e alcune edizioni moderne leggono così il primo verso: «E io ch’avea d’orror la testa cinta». Sono lezioni entrambe plausibili. Quale scegliere? Si potranno invitare gli studenti ad allargare il contesto, rileggendo le terzine precedenti e quelle seguenti, e a domandarsi se qui Dante presenti se stesso piuttosto nella veste dell’uomo che dubita (error) o dell’uomo che teme (orror); si potranno interrogare i commenti antichi e moderni attraverso il Dante Dartmouth Project, e così s’imparerà che Dante potrebbe aver avuto nella memoria alcuni passi dell’Eneide, come «At me tum primum saevus circumstetit horror» (ii 559: Enea assiste all’assassinio di Priamo). Infine, si potrà ampliare la ricerca, vagliare nuovamente le fonti già note, cercarne di nuove. Ci si potrà accorgere, allora, che il passo davvero pertinente, nell’Eneide, non è uno di quelli citati nei commenti ma quello in cui Enea incontra Polidoro trasformato in arbusto: «Tum vero ancipiti mentem formidine pressus / obstupui steteruntque comae et vox faucibus haesit» (iii 47-48); oppure che l’immagine dell’orrore che cinge potrebbe evocare quella che si trova nell’inno liturgico Vox clara ecce intonat: «Mundumque horror cinxerit». Sono entrambe testimonianze a favore della variante orror: ma non tali da poter chiudere il discorso (e che in filologia il discorso rimanga spesso aperto, è anche questa un’utile lezione di metodo).
È solo uno dei tanti esempi di lezioni concorrenti, entrambe semanticamente plausibili. Altre oscillazioni del genere si trovano, com’è ben noto, nei manoscritti della Commedia (per esempio temesse vs. tremesse in Inferno i 48, mondo vs. moto in Inferno ii 60, marturi vs. maturi in Inferno xiv 48, ammenda vs. vicenda in Purgatorio xx 67, novità vs. vanità in Purgatorio xxxi 60, eccetera), così come in quelli di altre opere medievali, e possono essere l’occasione per fare un vero lavoro di gruppo sul testo, alla ricerca della variante più soddisfacente, e per imparare i rudimenti del metodo filologico, o almeno per rendersi conto del fatto che su qualsiasi testo premoderno è legittimo nutrire dei dubbi e proporre degli emendamenti. È il raro caso in cui la parola ‘competenza’, applicata alla letteratura, sembra avere un senso.
6.
Questi erano suggerimenti pratici che mi pare possano funzionare, se funzionano, in tutti i tipi di scuola. Ho fatto dei manuali per il triennio della scuola superiore, e i manuali come si sa si declinano – come si dice – per i vari tipi di scuola: classici, scientifici, tecnici, professionali. Una delle domande che mi vengono fatte più spesso, negli incontri con gli insegnanti è «Che differenza c’è tra una versione e l’altra?». Qualcuno si aspetta forse che il manuale per il classico abbia un linguaggio più scelto, e che il manuale per i tecnici abbia un linguaggio più andante; e che certe cose si possano dire agli iscritti al classico mentre non si possono dire ai periti elettronici. Ma è chiaro che non è così. Cambiano semmai le dimensioni, cambia il numero delle pagine, dei canti, dei versi, perché al classico si fanno più ore di italiano; ma il linguaggio resta sempre quello, e dev’essere un linguaggio limpido, diretto, refrattario ai cliché e alle complicazioni inutili: a essere sinceri, non il tipo di linguaggio che s’incontra in tutti i manuali scolastici, che spesso dimenticano di doversi rivolgere a un pubblico di non laureati in Lettere. Quanto al contenuto, non credo che esistano concetti che un iscritto al classico è idoneo a comprendere mentre un iscritto all’ITIS no. Questo non vuol dire che i programmi debbano essere uguali. Penso che sia vero il contrario, cioè che i programmi debbano essere calibrati in base al numero di ore che si dedicano all’italiano e in base al profilo culturale e professionale che s’intende dare allo studente. Qui l’eguaglianza cessa, e bisogna dare a ciascuno secondo i suoi bisogni. Questo vuol dire che il programma di italiano dei tecnici e dei professionali non dovrebbe essere una versione compendiata del programma dei classici, come di fatto è, ma qualcos’altro. Che cosa? Qui può iniziare un’altra discussione.
Ma per tornare a Dante, calibrare i programmi per i vari tipi di scuola significa soprattutto leggere di più o leggere di meno, spendere più o meno tempo sulla Commedia. Perciò, il racconto della Commedia che ho in mente (brani presi dai vari canti legati da un riassunto il più possibile vivace e ricco d’informazioni) sarebbe un racconto a fisarmonica. Al classico, dove si fanno più ore di italiano, i brani poetici inseriti nel racconto saranno varie decine, e saranno brani lunghi; alle professionali saranno, diciamo, meno di trenta, e più brevi. Ma anche alle professionali gli studenti finiranno per avere, in questo modo, un’idea dell’opera nel suo complesso, e una conoscenza non superficiale dello stile di Dante e della sua visione del mondo.
7.
Resta la questione da cui siamo partiti, dei libri da leggere per diventare come noi. Dante è ovviamente uno di questi libri. Siamo contenti del modo in cui Dante è presente nella formazione e poi nel bagaglio culturale, nella memoria degli italiani? E per cominciare da noi, che studiamo queste cose per mestiere, siamo contenti di come la nostra lettura, la nostra conoscenza di Dante ci ha fatti diventare?
Si può prendere spunto da questo centenario dantesco. Siamo tutti comprensibilmente un po’ stanchi delle chiacchiere intorno a Dante, dei congressi. A me capita di recensire libri sui giornali e devo dire che apro ormai con un po’ di pena l’ennesimo pacco che contiene un saggio o una biografia su Dante. Dall’inizio dell’anno ne sono uscite, credo, cinque. Però essere stanchi non significa non vedere che il livello di questi saggi e biografie ed edizioni è quasi sempre molto alto, che i libri che arrivano con la posta sono generalmente bei libri, e che insomma gli studi su Dante sono in ottima salute. Semmai ci potrebbe essere il timore che di salute addirittura scoppino, cioè che il livello di specialismo richiesto da questi studi sia ormai tale da richiedere che a coltivarli siano dei monomaniaci votati anima e corpo, per tutta la vita, allo spoglio della bibliografia dantesca. Credo che per certi versi stia accadendo proprio questo, e mi pare di notarne i segni nel linguaggio che alcuni di questi studiosi devoti a Dante adoperano per difendere le loro tesi, che a volte assomiglia al linguaggio sprezzante e capzioso con cui una volta gli inquisitori discutevano di dottrina. Ecco, intravedo il pericolo che questo ramo degli studi così importante per la nostra identità culturale diventi appannaggio di una setta, o di due o tre sette armate una contro l’altra. Mi pare che Dante sia un autore troppo grande e troppo piacevole da leggere per tollerare questo genere di requisizioni. Forse ogni tanto una dose di dilettantismo non guasterebbe.
Perché l’altro timore – legato al primo – è che l’erudizione intorno a Dante finisca per scoraggiare la riflessione sull’arte di Dante, che è poi la cosa di gran lunga più importante. Qualche tempo fa, in una conferenza in Normale, Luigi Blasucci ha detto qualcosa come ‘Sì, vabbè, bisogna riflettere sul rapporto tra Dante e Bonifacio VIII, ma non dimentichiamo che siamo qui per leggere e se possibile apprezzare le terzine che Dante ha scritto su Bonifacio VIII, che leggiamo Dante per quello che dà alla nostra intelligenza e al nostro gusto per la letteratura, altrimenti tanto vale leggere la Cronica di Villani’. In questo centenario sono usciti tanti bei libri eruditissimi; ma libri che mi abbiano fatto riflettere o imparare qualcosa intorno alla poesia di Dante, mi pare, davvero pochi. Non che io rimpianga le declamazioni vitalistiche di certi critici del primo Novecento; ma insomma Dante è un poeta, trattarlo come problema storiografico o come fonte o come pensatore politico o linguista si può, ma fino a un certo punto – e direi che siamo a quel punto.
Questi eravamo noi, gli specialisti. Quanto agli italiani, e agli italiani a scuola, Dante è finito – e non da quest’anno – nel minestrone mediatico, che come sappiamo è un minestrone pieno di approssimazioni, retorica, velleitarismi e anche stupidità. Sarebbe un errore ignorarlo, dire che noi ci occupiamo soltanto, e seriamente, di scuola, perché è chiaro che le cose che studenti e insegnanti sentono attorno a loro li influenzano molto di più dei saggi di Contini o di Auerbach, o delle note di Sapegno. E del resto, la scuola è del tutto innocente? Il modo in cui tratta Dante, e la letteratura in generale, è davvero il migliore dei modi possibili? A me pare di aver notato, tra il discorso mediatico e quello scolastico, qualche convergenza che non mi lascia del tutto tranquillo; qui accenno ad una soltanto.
A scuola è sempre più viva la tendenza ad attualizzare gli insegnamenti storici (storia, letteratura, storia del pensiero e dell’arte) attraverso più o meno meditati collegamenti con la vita odierna. Se si sfoglia un manuale scolastico di qualche anno fa e lo si confronta con quelli correnti, è questa una delle differenze più cospicue: il tentativo da parte di chi li compila – e quindi di riflesso da parte di chi li userà in classe – di mostrare come l’eco degli eventi del passato sia ancora ben avvertibile nel presente, e come lo studio di opere, autori, eventi apparentemente remoti possa permetterci di comprendere meglio il mondo attorno a noi. Posto che i problemi degli uomini sono sempre più o meno gli stessi, un buon metodo didattico è evidentemente quello che consiste nella valorizzazione degli elementi di continuità: de te fabula narratur. Non che non si sia sempre fatto, naturalmente; ma lo si fa sempre di più. E soprattutto, mentre un tempo il compito di calare i testi del passato nel contesto del presente era affidato alla libera iniziativa degli insegnanti, oggi si tende a somministrare il tema già svolto, con ‘schede’ e ‘percorsi’ dedicati a questo o quell’argomento di attualità, calibrati su questa o quella coorte di studenti. Come non comprendere le buone ragioni di questo atteggiamento, a scuola? Per motivare allo studio del passato studenti così assediati dal presente occorre soprattutto gettare ponti, indicare analogie, anche al costo della semplificazione.
Da un lato, però, questo costo rischia di essere troppo elevato se nell’indistinto delle analogie va perduta proprio la qualità specifica degli eventi o dei testi a cui ci si accosta: è l’equivoco volgare del «niente di nuovo sotto al sole» che porta a credere che i problemi di oggi siano già prefigurati e risolti nei testi di ieri; è, per non restare nel vago e restare aderenti al nostro tema, il ritornello circa la pretesa ‘attualità di Dante Alighieri’.
Dall’altro lato, questa attualizzazione forzata finisce spesso per convertirsi in una mozione valoriale, talché invece di cercare nel passato un altro presente, come vuole l’adagio crociano, rispettandone l’alterità, le discontinuità, si presentifica il passato adattandolo al nostro attuale orizzonte d’esperienza. Ecco allora che la storia di Francesca da Rimini nel quinto dell’Inferno offre lo spunto per una riflessione sul femminicidio; ecco che nel personaggio di Ulisse si rispecchia il destino dei migranti odierni. Ed ecco che l’attualizzazione scolastica s’incontra con il cattivo gusto del Dante mediatizzato.
La scorsa estate, alla Basilica di Massenzio, di Dante ha parlato Roberto Saviano, e un estratto del suo intervento è stato pubblicato sul «Corriere della Sera» del primo luglio col titolo Dante gridò la libertà, diamogli (finalmente) voce. Ne cito qualche riga:
Dante non fu solo un uomo di lettere, ma fu soprattutto un intellettuale impegnato, e la sua attività politica, insieme alla verve intellettuale, rovinò per sempre la vita sua. Per Dante non è esistito nulla al di fuori dell’impegno; ricordiamolo questo, quando ci viene consigliato di tenerci alti, equidistanti, di non entrare troppo nelle cose, di non essere divisivi, di non prendere posizione. Chi esorta l’intellettuale a essere distaccato, crede di vivere in un mondo pacificato, cosa che non è, che non è mai stata e che mai sarà […].
Quando era vivo si provò solo a soffocarlo, affinché smettesse di parlare. Gli si confiscarono i beni, gli si assediarono i familiari, lo si rimosse da ogni carica politica, con condanne e diffamazioni ostative, che ne impedivano il reincarico in altri comuni. Non poté mai riprendere a fare quello che faceva a Firenze: l’interdizione dai pubblici uffici valse oltre il perimetro della sua città. E l’esser stato condannato per «opposizione al papa Bonifacio VIII» gli impediva anche di ottenere un beneficio ecclesiastico, una di quelle rendite con cui all’epoca si manteneva la classe intellettuale europea, non potendo guadagnare dalla pubblicazione di libri, podcast o articoli. Non poté trovare neppure asilo in Francia, come fecero altri suoi compagni di partito, perché fu condannato anche per essersi opposto a Carlo di Valois, fratello del re di Francia […].
È strano, ogni volta in cui mi metto sulle tracce di qualcuno la cui voce si è cercato di silenziare, finisco sempre con l’imbattermi in una contravvenzione non pagata. Ecco, forse questa è la cosa che più dovrebbe offenderci, che per incastrarli non ci si prenda mai neppure la briga di montare grandi casi, una grande evasione, tipo quella di Al Capone, per intenderci. No, li bloccano sempre con un piccolo cavillo, una spina conficcata nella carne, che può sentire solo il perseguitato, ma che dall’esterno non è neppure visibile. Reputazioni e vite rovinate da piccole multe – magari per eccesso di velocità: è successo a Daphne Caruana Galizia, a Martin Luther King, ad Anna Politkovskaja… e, prima che a loro, a Dante Alighieri!
Oggi la Commedia per noi è la Commedia. Ma quando Dante era vivo la Commedia era considerata un’accozzaglia di rutti, e per di più materia incandescente: troppo freschi i fatti di cronaca che raccontava; troppo aperti i giudizi che intercettava; troppo attuali i mali della cattiva politica che denunciava; e troppo viventi i mammasantissima che tirava in ballo […].
Ma Dante non si mise in fila. Non si fece intimidire. Non si lasciò atterrire dalle calunnie. Non aspettò che gli si assegnasse l’argomento di cui parlare. Non parlò in latino. Non raccontò della bellezza italica. Non si fece censurare. Usò un linguaggio crudo. Non tenne basso il tono della voce. Dante, la verità, la gridò. Hanno ammazzato Dante, Dante è vivo!
In una pagina del genere non colpiscono tanto i dettagli inventati o inesatti, o la puerilità disarmante delle osservazioni. C’è qui infatti qualcosa di peggio dell’ignoranza, c’è un’idea stravolta di che cosa sia la cultura umanistica e a che cosa debba portare il suo possesso: a rispecchiare noi stessi nelle grandi anime del passato, a rivedere i loro tempi nei nostri, semplificando così, immiserendo così la loro opera in un messaggio edificante.
A me pare che la scuola dovrebbe insegnare esattamente il contrario: a comprendere gli autori e le epoche della letteratura nella loro differenza, e non nella loro – supposta, e in questo caso fantasmatica – similarità; e anche a guardare i fatti della cultura, persino i più solenni, con un po’ di distacco e d’ironia, e senza moralismo. Ho l’impressione, però, che l’istruzione umanistica, tanto a scuola quanto all’università, sia ancora viziata da questo genere di retorica, la retorica che è il contrario della deferenza, è l’omaggio reso per puro conformismo a un dio nel quale non si crede più, o non si è mai creduto. Mi pare che il contagio abbia toccato e tocchi anche la Commedia (ne ho scritto nel saggio Dante nel pomeriggio, in E se non fosse la buona battaglia? Sul futuro dell’istruzione umanistica, Bologna, Il Mulino 2017). Io sono molto affezionato a Dante, ma la mia affezione per Dante non supera il mio fastidio per la retorica, e per la retorica degli umanisti in ispecie. Se le righe di Saviano che abbiamo appena letto sono il frutto della devozione che tutti quanti diciamo di provare per l’opera di Dante, iniettataci in dosi da cavallo sui banchi di scuola (e io credo che lo siano), forse sarà il caso di farsi qualche domanda sulla sensatezza e sull’utilità di questa devozione, e anche sul suo prezzo.