Pop/Rock

Rio dei Duran Duran compie quarant’anni

Finzioni16 Luglio 2022

Dice John Taylor nella sua autobiografia (In the Pleasure Groove. Love, Death & Duran Duran) che dopo aver pubblicato il loro primo album, all’inizio degli anni Ottanta, i Duran Duran hanno cominciato a scopare come ricci. In alto a sinistra su ogni pagina dell’itinerario del tour il tour manager aveva scritto un numero a matita: 18, 20, 21. Era l’età legale minima per i rapporti sessuali, nei vari stati americani che avrebbero attraversato: il tour manager doveva stare attento anche a queste cose. Bello, anche se, come confessa amaramente John, «quel tipo di incontro intimo, con persone che conosci a stento, fa male all’anima». Stessa cosa per voi?

«Uguale».

Voi sono gli Elio e le Storie Tese, che cominciano a suonare più o meno in quegli anni (ma il primo disco lo faranno molto dopo, a fine Ottanta, è il capolavoro Elio Samaga Hukapan Kariyana Turu). Ho chiesto a Rocco Tanica di spiegarmi, a parte la questione dei ricci, se è vero che Rio è l’album che «definisce meglio il suono degli anni Ottanta», come si sente dire in giro, perché a maggio Rio ha compiuto quarant’anni, anche se sembra incredibile. Così ci siamo messi davanti al computer ad ascoltare Save a Prayer, Hungry like the Wolf, The Chauffer e appunto Rio, ad ascoltarle e a smontarle con un software che permette di isolare le tracce audio dei vari strumenti, così la nostra lezione-conversazione pullula di osservazioni per me solo semi-comprensibili (alle medie ci facevano suonare il flauto, no technicalities) ma che ho comunque annotato con scrupolo sul taccuino, cose come «Rio in fondo è una ballata, potrebbe essere una ballata di Elton John se la sezione ritmica – basso e batteria – suonasse a metà tempo, 72 battiti al minuto invece degli effettivi 144», o «senti, no, che qui la melodia viene doppiata e dà un effetto di battimento, il suono si dilata, si frange, si crea quell’impressione di eco che appunto è un po’ il suono di tutto l’album?». Annuisco.

Va bene la musica, sì, però la questione dei ricci non va messa subito da parte, perché nella mitificazione dei Duran Duran ciò che stava intorno ai Duran Duran – l’alone di fascino che li circondava, le belle facce, il lusso, la seduzione – è stato importante almeno tanto quanto le canzoni. Sorgeva allora infatti all’orizzonte l’Età della Confezione, che tuttora dura. Confezione nel senso del pacchetto che contiene tante cose diverse: musica, testi, corpi, mari del Sud; ma anche nel senso di Confezioni come si chiamavano i negozi di abiti prima che arrivassero i brand. E nella confezione-DuranDuran c’erano i completi Antony Price, le bandane, la magliette marinare a strisce bianche e blu, lo stivaletto con dentro i pantaloni, il ciuffo cotonato, le limo bianche. Tutte cose un po’ ridicole a guardarle oggi, salvo che la Legge del pop dice che l’imbarazzante e il geniale sono spesso indissolubili, e infatti nella confezione di Rio c’è anche una delle copertine più belle e influenti del decennio – viso femminile del grafico-illustratore Patrick Nagel, lettering di Malcolm Garrett.

L’Età della Confezione è solo un altro modo per definire quel repentino cambio d’epoca, tra la fine degli anni Settanta (pre-Confezione) e l’inizio degli anni Ottanta, che molti hanno percepito e provato a descrivere sotto varie etichette (riflusso, edonismo, disimpegno, tramonto delle ideologie, fine della politica) ma che è stato prodotto soprattutto dall’evoluzione dei media – il colore alla TV al posto del bianco e nero, le radio e le TV private, la TV giorno e notte, i telefilm americani – con effetto a cascata sui giornali, i consumi, l’immaginario. È probabile che nessuno l’abbia visto e detto meglio di Tommaso Labranca, che avendo vent’anni nel 1982 a quel cambio d’epoca ci si è trovato in mezzo:

Facciamo un gioco. Chiudete gli occhi e pensate al 1976 […]. Vi rivedete? Siete al centro di un tripudio di zampe d’elefante, zoccoli e pettinature cotonate. Siete con il vostro fidanzato a bordo della sua nuova Ritmo con coda di volpe all’antenna e l’autoradio sta suonando a volume da suq arabo una Stereo 8 con i successi dell’estate: Santo California, Beans, La Bottega dell’Arte, Afric Simone. Adesso, senza aprire gli occhi (e possibilmente senza vergognarvi di quello che avete visto fin qui) pensatevi nel 1981. Vi rivedete? Siete vestite new romantic con camicia alla pirata, truccate come Lady Diana Spencer e, sedute sotto i neon colorati di un bar stile Memphis, ascoltate con un walkman Sony il primo disco dei Duran Duran che nessuno conosce ancora, ma che una vostra amica inglese vi ha registrato e spedito in anteprima. Dice che saranno il futuro e voi ci credete. Sono passati solo cinque anni, ma è come se vi foste trasferite su un altro pianeta[1].

Nella letteratura romanza del Medioevo esiste il registro della ‘bella vita’, sono quelle poesie che parlano di mondi immaginari situati fuori dello spazio e del tempo, pieni di lussi e delizie per la vista e per il gusto, un po’ come quelle che si trovano nel paese di Cuccagna (qualcuno conserverà il ricordo scolastico di Guido, i’ vorrei che tu Lapo ed io di Dante: pertinente qui anche perché è un sonetto marinaresco come i primi video dei Nostri). Ebbene, nei primi anni Ottanta il registro della ‘bella vita’ è stato il registro dei Duran Duran. A un certo punto, molto presto, più o meno con The Wild Boys (1984), è successo questo fatto strano: il loro nome si è staccato dai dischi che facevano, ha cessato di essere semplicemente il nome di un gruppo pop (nome abbastanza misterioso anche perché non c’era internet, le poche notizie si raccoglievano sulle riviste o a Discoring: veniva da un personaggio del film Barbarella, il misterioso scienziato Durand Durand) ed è diventato un concetto, un mito (mitomitico sono entrati proprio allora trionfalmente nell’idioletto dei media, su L’aggettivo mitico De Gregori ci farà addirittura una canzone); e alla definizione del mito hanno concorso – e certo non era la prima volta che accadeva, ma non era accaduto spesso, e mai con tanta forza – quei videoclip pacchianissimi girati ai Caraibi, con i tramonti e i cocktail e la giusta dose di fica. Niente, assolutamente niente rispetto alla scorpacciata che ci avrebbero riservato i video degli anni successivi, a cominciare, per dire, da Simply Irresistible di Robert Palmer, o da Girls on Film degli stessi Duran Duran: ma era un inizio.

E certo, sì, di miti musicali ce n’erano già stati parecchi, ma erano stati miti dentro ai quali era nascosto almeno un seme di ribellione, di resistenza al mondo come è: Presley, Neil Young, Dylan, i Rolling Stones, i Led Zeppelin, per non parlare di Janis Joplin o Ian Curtis o dei Doors,, nessuno veramente collegabile al registro della ‘bella vita’ anzi quasi tutti tormentati, quasi tutti fieramente contro, qualcuno anche depresso, qualcuno persino suicida. Invece i Duran Duran a vent’anni pronunciarono quello che rubando le parole a un loro connazionale di talento, Philip Larkin, potremmo definire «an enormous yes» (For Sidney Bechet). I soldi? Ma certo. I jet privati, i bei vestiti, la barca a vela, le fidanzate-modelle? Ma sicuramente. «Nella battaglia tra te e il mondo, tieni sempre le parti del mondo»: i Duran Duran a vent’anni hanno sottoscritto questa bella frase di Kafka. A modo loro, si capisce.

Esistevano i video musicali prima del video di Save a Prayer? Ma certo che esistevano, tutto esisteva già nell’antica Grecia, e naturalmente la scoperta di una cosa è meno legata alla scoperta in sé, e al nome dello scopritore, che al fatto che il mondo per la prima volta si accorge di quella determinata cosa. All’inizio degli anni Ottanta ci si accorse che i video musicali potevano non essere soltanto il cantante che guarda in camera o che si dimena sul palco ma potevano anche raccontare e commentare i testi delle canzoni, con risultati a volte buoni e persino ottimi, per esempio Smalltown Boy dei Bronski Beat (1984), a volte così tremendi da fare il giro e diventare atrocemente sublimi (Fotoromanza della Nannini, regia di Michelangelo Antonioni, stesso anno, con la «scena al rallentatore» girata al rallentatore, la «finta sul ring» col pugile che schiva il cazzotto, e altre poracciate della stessa risma).

Ma insieme o prima del racconto per immagini c’era stata l’evocazione, cioè quei video che senza mettere in fila degli avvenimenti a formare una storia suggerivano sensazioni, atteggiamenti, modi di vita. Ebbene, il modo di vita evocato nel video di Save a Prayer non era di quelli che potessero lasciare indifferente un undicenne che cresceva in un condominio di Mirafiori Sud: le barche a vela, i completi crema di Antony Price, i templi buddisti nella giungla, la – mi scuso per la ripetizione ma la cosa ha un certo rilievo – fica.

E tutto partì da lì, o quasi. Se uno chiude gli occhi, le canzoni dei Duran Duran le vede prima ancora di sentirle. Erano giovani, belli e per niente maledetti, e i produttori impostarono le campagne pubblicitarie su questi utili talenti extra-musicali. Ebbero ragione, come sa chi c’era. Le mie compagne di classe, tra medie e ginnasio, erano rapite, mesmerizzate. Come le adolescenti di oggi con Harry Styles, immagino, ma con due differenze fondamentali determinate dalla distanza e dalla scarsità. Allora il mondo era ancora enorme, e parlava ancora una lingua incomprensibile ai più: non solo era assurdo pensare di poter entrare in contatto con i Duran Duran, ma era difficile anche semplicemente vederli, accertarsi dei loro connotati. Era impossibile recuperare un programma passato in TV, era impossibile fermare le immagini sullo schermo, e questa povertà di mezzi produceva un fandom ancora molto casareccio: ci si scambiavano le fotografie dei teen-idol, le si incollava alle pagine del diario, ai muri della cameretta; si scriveva alle case discografiche, e se si aveva fortuna un impiegato pietoso a distanza di mesi rispondeva con una foto con sopra uno scarabocchio a pennarello fatto probabilmente da una segretaria.

Delle vite e delle opinioni dei Duran Duran non si sapeva niente. Instagram e TikTok hanno abolito questa distanza, da un lato dilatando enormemente la sfera d’influenza del divismo, dall’altro togliendogli un po’ dell’aura che veniva dall’appartenere – il fan e il suo idolo – a universi non comunicanti. Adesso Harry Styles, in qualche modo, risponde. Comunque sia: a scuola, femmine in adorazione e maschi sarcastici, invidiosi, indignati in nome del vero rock, di quelli che sanno suonare. E mia madre, con santa ingenuità, credeva che Simon Le Bon fosse un nome d’arte, cioè che un inglese di nome Simon si fosse dato come nomignolo «Le Bon», francesizzando chissà per quale assurdo motivo il romanesco bono. Erano giovani e belli e hanno cominciato a suonare proprio quando il videoclip stava uscendo dalla sua fase di documento quasi neutrale (una o due camere messe davanti a un cantante che canta) e stava entrando in quella di oggetto artistico, appunto evocativo-narrativo.

I Duran Duran arrivano negli Stati Uniti insieme ai Depeche Mode, gli Ultravox, gli Wham!, Adam & the Ants. I loro primi video vengono proiettati nelle discoteche, ma passano presto su canali locali come MV3, una specie di antenato losangelino di MTv fatto per chi non aveva la TV via cavo (se ne trova qualche frammento su YouTube). Poi arriva la vera MTv, che nel giro di un paio d’anni copre l’intero territorio nazionale, da New York alla California, passando da 2 milioni di abbonati a 14 nel giro di un anno, e tutto accelera. Già nel 1982 il MOMA di New York acquisisce i video di Laurie Anderson, Oh, Superman, dei Talking Heads, Once in a Life, di Captain Beefheart, Ice Cream for Crow. Un gruppo australiano sconosciuto, i Men at Work, fa dei video carini per un paio di pezzi a cui nessuno aveva prestato molta attenzione (Who Can It Be Now? e Down Under) e arriva primo in classifica in Gran Bretagna e negli Stati Uniti. E alla fine del 1983 John Landis gira il video di Thriller di Michael Jackson.

Anche in Italia, coi nostri limitati mezzi, le cose si muovono in fretta. Nel 1984 Elefante TV di Leo e Guelfo Marcucci, ramo farmaceutici, diventa Videomusic, e nello stesso anno parte Deejay Television al pomeriggio su Italia Uno. La conseguenza più vistosa è la produzione e la diffusione di un’infinità di nuovi prodotti musicali – solisti, band, canzoni – creati non veramente per dare sfogo a un’incoercibile vocazione artistica ma per sfamare la Bestia. La musica era già commerciale da qualche decennio, ma il commercio musicale degli anni Ottanta, con quella ridda infinita di nomi, sigle, generi e tendenze, fa fare a tutto quanto un salto di livello. Sempre Labranca:

… nell’era primigenia e felice degli anni Ottanta, quando erano fragranti i cd degli Spandau Ballet degli Eurythmics delle Bananarama dei Soft Cell dei Duran Duran degli ABC degli Yazoo degli A-Ha degli Alphaville dei Bronski Beat degli Wham! degli Art Of Noise degli Ultravox degli Haircut 100 dei Frankie Goes To Hollywood dei Simple Minds degli Arcadia degli OMD dei Tears For Fears dei Culture Club degli Human League dei Depeche Mode degli Heaven 17 degli Style Council dei Propaganda degli Adam And The Ants che ora sono venduti in offerta nel cesto vicino alla cassa[2].

La Emi capisce di avere il prodotto perfetto per questo mercato in espansione. Chiamano Russell Mulcahy, 28 anni, che aveva diretto il video di Vienna degli Ultravox (Gary Kemp: «Ho visto Vienna degli Ultravox, come tutti, e all’improvviso abbiamo visto un vero film sullo schermo»); spendono duecentomila dollari per il video di Hungry Like the Wolf, meno della metà di quanto costerà Thriller ma sempre tantissimo. Nel 1983 esce in CD e cassetta VHS il Videoalbum che raccoglie i videoclip dei primi due anni di carriera dei Duran Duran, e vince subito un Grammy Award. Ma al di là dei soldi e dei premi, l’idea geniale è quella del viaggio in paesi esotici e dei video travelogue-style diretti da Mulcahy. La produzione li manda a sud, prima tappa Sri Lanka: «Sulla strada per l’Australia – scrive John – dove ad aprile sarebbe iniziato il Rio Tour, ci fermammo su quell’isola». Si fermano e girano un trittico di video che farà epoca.

Quello di Hungry Like the Wolf, scrive John, «rimanda ad Apocalypse Now, con Simon impegnato nella foresta pluviale a cacciare la modella Sheila Ming». In realtà rimanda soprattutto a Indiana Jones, cioè è un patchwork trash di Apocalypse Now e di Indiana Jones: Simon che emerge lentamente dalle acque di una pozza in mezzo agli alberi come Martin Sheen dal Mekong, che già era una scena ridicola; Simon con il solito blazer crema ma in testa la stessa fedora di Indiana (la ritroveremo nel video di Save a Prayer ma stavolta sulla testa di John), e intorno mendicanti, incantatori di serpenti seminudi, missionarie biancovestite, vacche sacre, mentre gli altri Duran Duran limonano con le indigene.

In Lonely in Your Nightmare la scena è rovesciata: c’è lei bella, creola, stesa sul letto candido di lini, che sogna lui, bianco ed elegante, onusto di pashmine, solo che per raggiungerlo deve passare in mezzo alla feccia srilankese: vecchiacci che le mettono le mani addosso, danzatori tribali, venditori di spezie al dettaglio, a un certo punto pure un cobra ammaestrato, nell’insieme un ibrido tra la Costa Crociere e Sandokan. Oggi verrebbero tutti giustamente lapidati sui social per mistificazione orientalista, ma quelli erano tempi innocenti.

Il capolavoro però, nel bene e nel male, è il video di Save a Prayer, e naturalmente aiuta anche la canzone, che è bellissima. Qui niente amorazzi o avventure nella giungla, solo Costa Crociere, ma in versione veramente Deluxe: scogli battuti dalle onde, dissolvenze al tramonto, maestosi cieli tropicali, bambini che fanno il girotondo in mezzo ai dhow trascinati a riva, bambine coi fiori tra i capelli, ralenti senza risparmio. Anche gli elefanti che fanno il bagno. Giacche portate a petto nudo. Monaci buddisti in kesa gialla. Il Buddha dormiente di Polonnaruwa e i Duran Duran che lo guardano in canotta bianca, strimpellando.

Robaccia kitsch, questi video travelogue-style, si obietterà. Può darsi, però meglio non solo di Fotoromanza di Antonioni ma anche del video artistico-sensuale in bianco e nero di The Chauffer, girato non più dall’artigiano Mulcahy ma dall’artista Ian Emes – perché c’è stato anche questo, e non solo agli albori del genere ma anche dopo: i vecchi maestri che «si accostano al nuovo oggetto artistico» producendo spesso schifezze memorabili: a parte Antonioni, non va dimenticato che tra i peccati più gravi di Polanski c’è anche la regia del video degli Angeli di Vasco Rossi, metà anni Novanta. No, era proprio un altro linguaggio, e Russell Mulcahy lo sapeva parlare, gli altri non tanto. «Vienna degli Ultravox – dice sempre Kemp – cambiò il repertorio delle cose che una band poteva fare. Sullo schermo non dovevi per forza suonare il tuo strumento: potevi essere un attore, lì dentro. I Duran Duran lo videro. E vollero Mulcahy. E da quel momento in poi avrebbero pagato per la loro epica».

Dallo Sri Lanka i Duran Duran passano ad Antigua per il video di Rio: «Ogni mattina – ricorda John Taylor – uscivamo dalle nostre ville, come in una scena che sembrava tratta dai film dei Beatles e dei Monty Python: “Buongiorno Mr Rhodes”, “Buongiorno Mr Taylor”, prima di stendere i nostri asciugamani per un giorno di abbronzatura al sole». Uno si sarebbe aspettato una trasferta a Rio de Janeiro, invece no, Antigua, ma c’è una spiegazione. Il pezzo doveva in origine, secondo l’idea di John, parlare della città: «nel mio immaginario il Brasile rappresentava ancora qualcosa di magico, legato ai sogni esotici delle immagini di quel calendario appeso ai muri della mia cameretta». Poi Simon scopre l’autonomia del significante e s’inventa che Rio è il nome non di una città ma di una ragazza: «ne uscì un personaggio dal carattere romantico ed edonista che risiedeva nel Brasile delle mie fantasie». Il video – è sempre l’autobiografo John a parlare – è ispirato ai seminudi artistici del fotografo Cheyco Leidmann (Foxy Lady), ed è stato «visto da molti come l’arrogante rappresentazione del peggiore opportunismo thatcheriano». In effetti bisogna ammettere che l’esotico srilankese è evaporato: sono soprattutto chiappe, gambe, occhiali a specchio, pareo (ma non c’erano ancora i muscoli a vista nei maschi e il seno rifatto nelle femmine: pur belli, tutti hanno un’aria quasi normale, di quando i corpi si lasciavano stare). La barca a vela solca le acque dell’Oceano Indiano e Simon e John si godono il vento in piedi sul ponte nei loro completi Antony Price, leggermente incongrui sia per la latitudine sia per la situazione. Il blu del mare è molto blu, il rosso del tramonto è molto rosso, i cocktail hanno colori fluorescenti, proprio come la palette di Cheyco Leidmann. Qualcuno, o qualcuna, va a cavallo sulla spiaggia.

Bene, ma in tutto questo giusto zelo per la Confezione non sarebbe giusto dimenticare la musica, che è la ragione per cui sono venuto in visita da Rocco Tanica. Visita piena di delizie, perché Rocco non è solo un grande musicista e non ha solo scritto uno dei più bei libri italiani degli ultimi anni, Lo sbiancamento dell’anima, ma è anche dotato di infinita pazienza, e per un paio d’ore mi spiega, instancabile, di che cosa sono fatte le canzoni dei Duran Duran con l’unico ausilio di un vecchio piano con vari tasti che fanno cilecca. Ma alla fine viene fuori che in sostanza quello che a me, che a molti sembra il «suono degli anni Ottanta» è il suono delle tastiere elettroniche. «Sta per cominciare l’epoca dei dischi non suonati», mi spiega Rocco, «quelli in cui quasi tutto era fatto col sintetizzatore e la batteria elettronica». E in realtà i Duran Duran, almeno i loro primi dischi, stanno ancora al di qua di questa linea. Per la gran parte, Rio è suonato in studio da musicisti anche piuttosto capaci, e il più capace è proprio il bassista John Taylor: per rendersene conto basta vedere i suoi bass tutorial su YouTube. «È molto migliorato negli anni – dice Rocco – ma era già competitivo agli inizi. Cosa che negli anni Ottanta comincia a essere abbastanza rara, perché si scopre che è possibile suonare facendo a meno dei musicisti e degli strumenti tradizionali: meno chitarre, meno bassi, più tastiere, appunto, più batterie elettroniche. Anzi, i batteristi smettono proprio di lavorare perché l’unico suono commerciabile sembra essere quello degli alter ego computerizzati dai nomi buffi come Linn Drums, Oberheim, TR-808, che non sbagliano un colpo, sono docili, non sbavano, si drogano meno… Nel frattempo il playback produce la tragedia dei tastieristi semi-occupati che in TV muovono le spalle (imbottite) fingendo di suonare. Ecco, invece John Taylor suona ancora, mentre nella gran parte delle produzioni musicali pop e dance il basso elettrico cede il posto alle tastiere. Esempio: Smalltown Boy dei Bronski Beat, pietra miliare del decennio, ancora oggi imitatissima. E in generale i Duran Duran suonano ancora, stanno al di qua della linea del ‘tutto elettronico’, per esempio un buon quarto della canzone Rio se ne va con l’assolo di sax: ecco un tratto di stile terribilmente anni Ottanta, come l’abuso dei sintetizzatori… In questo senso sono più simili agli U2 che ai Depeche Mode. E col tempo, qualche anno dopo Rio, diventano veramente bravi: Ordinary World è bellissima».

In tutto questa opera di montaggio, smontaggio ed etichettatura, posso però dire davvero di aver afferrato che cos’è, com’è fatto «il suono degli anni Ottanta»? Non posso.

Così Rocco ha pietà, decide di scendere dal suo al mio livello, chiude Audacity (è il nome del suo software multitraccia casalingo) e mette su YouTube qualcosa di ancora più semplice dei Duran Duran, qualcosa che dica l’essenziale senza orpelli, che parli al mio orecchio di sordo: Herbie Hancock, Rockit (1983); il tema di Miami Vice di Jan Hammer (1984); Danger Zone di Moroder-Whitlock, da Top Gun (1986); ma soprattutto, soprattutto, la sigla iniziale di Miami Supercops con Bud Spencer e Terence Hill (1985), musiche di Michelangelo e Carmelo La Bionda con la collaborazione dell’allora ventenne Rocco Tanica:

… In via Marco Fabio Quintiliano [al Logic Studio] faccio il ragazzo di bottega, suono le tastiere per chi ne vuole e imparo i rudimenti del mestiere. Alcune cose vengono bene, altre meno. Fra quelle meno, una mi si ripropone spesso come i peccati sulla coscienza e i peperoni: la colonna sonora di Miami Supercops, l’unico film in cui Bud Spencer e Terence Hill sono antipatici e picchiano da cattivi; ancora oggi, quando la bufera ulula nella notte scura e non c’è niente in magazzeno, Rete 4 lo mette in onda per tormentarmi[3].

E sarà certamente così, non ho avuto cuore di vedere il film, ma intanto eccolo lì il suono degli anni Ottanta, ridotto al suo osso, al suo orrore, eccola la musichina ti-ti-ti da suonare con tre dita sulla pianola. «That tune – scrive un tale George Anagnostopoulos nei commenti su YouTube – is pure 80s! It can’t get any more 80s than that. 80s as fuck!». Indeed.

 

[1] Tommaso Labranca, Da zero a Zero, Roma, Arcana 2009, pp. 118-19.

[2] Tommaso Labranca, Il piccolo isolazionista. Prolegomeni a una metafisica della periferia, Roma, Castelvecchi 2006, p. 225.

[3] Rocco Tanica, Lo sbiancamento dell’anima, Milano, Mondadori 2019, pp. 302-3.

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